lunedì 24 maggio 2010

Dersim - Berlin (ovvero Karneval der Kulturen)


Assisto a qualcosa di bello. Una musica travolgente, dersim. Persone travolgenti, dersim. Tutti con lo stesso ritmo, tutti in cerchio. Un’esperienza preziosa nel qui ed ora berlinese. Occhi scuri, lucidi, a circondarmi, e pelle un po’ scure ma non troppo a sottolineare diversità, e musicisti instancabili che sembrano donare non solo tempo, energie, forza e ritmi, ma anche una parte profonda di loro stessi, sembrano condividere con onestà una ricchezza comune. Sudore, vestiti, veli. Il cerchio gira in senso antiorario per lo più, è concentrico, a tratti, quando proprio tutti si tengono per mano, diventa una spirale. C’è odore di grasso che cola, di fumo nell’aria, di sigarette non spente. Ecco, le mani si alzano, due dita trionfano, le braccia si alternano e senza determinazione provano a toccare il cielo, c’è qualcosa di strano dipinto sui volti, somiglia alla gioia. La canzone non finisce più e una parte di me ci si attacca, è una musica che fa tamburellare il piede, ondeggiare il bacino, piccionare la testa – l’audio è rovinato, le zeppe femminili sono alte, i colletti maschili ben ordinati e primi bottoni iniziano a slacciarsi, perché il respiro inizia ad affannarsi, perché il sudore inizia a scivolare. Le spalle sono ritmiche, ed è un ritmo diverso, che io riesco solo a percepire, non a riprodurre.
Nei miei appunti scrivo: mai vista tanta coesione nazionale – mi chiedo ora se non sia meglio sostituire la parola nazionale con culturale. E mi rispondo che probabilmente è giusto farlo visto che i turchi (?) che vedo qui sono tedeschi.
La musica accelera, travolge, la balera si riempie fino a scottare. Tutti si tengono per mano, conoscono la danza, qualche bionda in tacchi alti, là in mezzo, un po’ a stonare un po’ a mischiare le carte. Il trucco scende, il ritmo sale, e si cerca il respiro fuori dal cerchio, qualche scialle vola, ondeggiato a spirale dal chiudifila o forse dall’aprifila, qualche scialle invece rimane a coprire i capelli, ad evidenziare gli occhi neri, a sottolineare lineamenti severi. La folla che protegge il cerchio pulsante ringrazia con lo sguardo, ondeggia e sorride, sorpresa e rapita dalla bellezza che vede, dall’energia che c’è in gioco.


Di colpo mi sembra di capire cosa significhi far parte di un popolo, e mi rammarico di non far parte così visceralmente di nessun popolo. Non posseggo qualcosa di così, non la voglia di stare con gli altri, né una musica popolare tanto potente e ritmica, né l’attaccamento o forse è giusto dire l’appartenenza. Me ne rammarico e cerco di guardare con lucidità a questa catena, cerco di spiare gli occhi della giovane ragazza col fratello geloso, imprigionata da una catena culturale che limita la sua libertà e forse anche il suo valore, e la stessa ragazza che si copre con un velo fuxia e trucca come io non potrei mai e ha zeppe alte tanto da far impallidire, e la stessa ragazza che salta e balla con un’energia pazzesca la sua musica. E lo fa così, sulla balera, tenendo per mano i suoi fratelli di cultura, sparpagliando energie pazzesche, calamita per gli occhi azzurri.
E mi sembra di capire che all’interno del proprio recinto ognuno prova a ricavarsi un margine di libertà, soprattutto se questo ognuno è donna – ma questa forse è un’altra storia.

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