giovedì 21 aprile 2011

Giuggiole

In brodo di giuggiole, senza nemmeno chiedersi da dove prenda vita questo curioso e dolce e figurativo modo di dire. Era un giorno d'inverno, forse di marzo, ma prima del 21, non potrebbe giurarci, mai stata brava con le date. Si trattava di un'altra versione, guardavano la finestra, o forse si baciavano già, ma di quei baci delicati, quei baci incerti di timidezza, di incertezza. Fuori il cielo però si stagliava, questo lo ricorda. Bevevano del vino o forse un tè, ha dimenticato persino questo, è certa però che abbiano mangiato delle mele, e chiacchierato. Certo l'argomento l'hanno registrato solo i muri. Cosa si ricorda allora? Si ricorda le braccia disegnate bordate dalla maglietta. Si ricorda com'era posizionato il divano. Si ricorda una canzone in repeat. Si ricorda il buio che giungeva in fretta, e di colpo il fuori casa. La città anche se è un paese. I rumori anche con le strade vuote. Le luci anche se forse non passavano macchine. Ricorda che dentro era sospensione e fuori era realtà.
Poi di colpo erano cento anni dopo, ed era inverno, ma sembrava una fredda primavera, c'era una coperta e il fuori era pieno di vento e di sole. E camminavano e parlavano. Di cosa l'ha ancora dimenticato. Anche com'erano vestiti l'ha dimenticato, e anche se avessero sete o fame. Ha dimenticato i libri citati e i progetti sognati e le carezze e i baci. Si ricorda che ha fatto pipi sotto un ponticello. Si ricorda che la strada era chiusa. Si ricorda che camminavano in fretta per non essere rapiti dall'ombra. Si ricorda una salita tra le sterpaglie, la vista delle finte palafitte. Si ricorda che non riusciva a ricordarsi con chi fosse stata lì in precedenza. Si ricorda la stessa canzone stavolta dal vivo. La voce diversa, le labbra sottili, le braccia ben disegnate sotto la maglietta, gli occhi chiusi. Si ricorda il suono della chitarra nel vento. Poi di colpo ricorda il suo viso a guardarla da sopra e baci nell’orecchio. E il naso lungo. Già allora, sulla spiaggia di sassi, era in brodo di giuggiole.



J, ti somiglia ache un po' ;)

mercoledì 20 aprile 2011

sopravvivere al repeat (questo post è post-titolato)

la musica ha un potere pericolosissimo,
lo so e l'ho sempre saputo.
Canzoni mi fanno alzare in piedi e ballare, canzoni mi fanno svegliare, canzoni mi fanno ridere, altre piangere, altre vanno in repeat e quasi si consumano, continuano a scorrere nell atesta e nel corpo fin quando proprio non ce la si fa più, spesso dopo giorni interi. poi basta per un po', di solito.
la musica ha un potere tale che è stata nel corso della storia usata per i più svariati motivi, dalla trasmissione della sapienza all'invito all'acquisto nei supermercati (e chi conosce me o gli scarabocchi emotivi su cui lavoro sa che la musica del supermercato ha un potere lacrimogeno sul mio bizzarro stato d'animo).
dire muscia mi sembra come dire parole, un ambito così generale che il detto diventa generico blaterio da GF, è che la musica ha qualcosa di diverso dalle parole, così come i profumi, così come il peso dei vestiti in certe stagioni e gli attriti della pelle. Le parole ci mettono di mezzo il cervello. Codificano. Riordinano.
(Qualcuno mi disse che i batteristi, in un gruppo, sono quelli che mettono ordine).
Cos'è che volevo dire? Sì, che la musica è pericolosa, e forse anche che nel suo generico essere fruita non richiede il cervello e si nutre e tocca e scuote. E che stasera ci sono ricaduta, dopo tanto tempo. Ricaduta nel repeat, tra il resto un repeat scomodo perchè la canzone la risascolto solo fino a un tot, e poi mi tocca farla riiniziare. Il peggiore dei repeat melensini, proprio di quelli che uno si perde nei pensieri e poi puf, c'è la parte di canzone che non è bella, e allora torna all'inizio, ritorna ai pensieri fino a che non si ripresenta il pezzo malvoluto. Ecco, persa di nuovo perchè son dovuta ripartir con la canzone.
Volevo dire che sono ricaduta nel repeat, un repeat scomodo e pure malinconico!
A scrivere di musica mi sento una brutta copia di Hornby :P
Ecco, a immaginarmi N.H. la stupidera mi ha acchiappata nonostante la canzone malinconica :), è forse il caso di liberarsi!
(ho dovuto ritirare in dietro - perfortuna non si tratta di una cassetta!)
Forse dalle canzoni repeat ci si libera così, pensando a N.H., o scegliendole scomode... Ecco, al momento 2.30 stoppo, è il proprio il caso di cambiare!

lunedì 18 aprile 2011

Hasankeyf: la fine del mondo

Abbiamo trascorso ad Hasankeyf qualche giorno, ospiti di una famiglia della zona, abbiamo cenato, fatto colazione e dormito con Mehmet Ali (arabo) e la sua famiglia composta da sua madre, quattro figli e da una bellissima moglie (koçer), abbiamo guardato le foto di famiglia e ascoltato storie divertenti, in bilico tra la leggenda e l’accaduto, in bilico tra ogni lingua possibile pur di dirsi qualcosa, di capirsi. Una sera la figlia più grande, anni 13, mi ha dato tra le mani un album di disegni da guardare, si trattava di figure femminili vestite con abiti da lei disegnati o incollati, era insomma il portfolio di un gioco basato sulla moda. Sfogliavo pagina per pagina il malandato quaderno, guardavo con una commozione forse immotivata forse del tutto fisiologica quella bambina-ragazza brava a scuola, vestita con una parvenza elegante probabilmente per la nostra presenza bionda in una terra bruno-castana, che parla tre lingue e deve andare a scuola anche il sabato, finché può soprattutto. Quella ragazza che avrà difficoltà ad uscire dalla Turchia, e soprattutto avrà difficoltà a realizzarsi in una Turchia che danneggia i curdi, che ostacola le donne, che inonda i villaggi.
“Ecco, quello è il minareto di Hasankeyf, l’acqua arriverà fino alla sua punta” mi risuona un po’ nella testa questa frase, questo scenario catastrofico è degno di un film americano, eravamo seduti su un cartone in un vecchio granaio affacciato sul Tigri, il suo colore era scuro e specchiava la valle. Come si può soffocare una terra usando il suo fiume, il suo cordone ombelicale? C’è sorte più cruenta?
“Se la diga viene costruita perdiamo tutto” ora siamo su un tappeto, nelle mani di ognuno un bollente çai, davanti a noi piattini di semi da rosicchiare, “cerchiamo di non pensarci, si ha paura a ribellarsi, non si sa come possiamo fermare il progetto, a cosa si andiamo incontro, nel farlo”.
Hasankeyf e i suoi abitanti vivono sospesi nel tempo, vittime di un conflitto più grande, dove la storia si scontra con la modernità, gli interessi nazionali con quelli locali, l’esigenza di crescita personale con la preservazione delle proprie radici.
Il mattino, come ogni mattino, ci sveglia il muezzin, sensuale il suo canto si appoggia nelle orecchie mentre il sole appena nato sembra già alto, viene stesa nel cortile una tovaglia, sopra vi vengono appoggiati del pane, l’immancabile çai, il peşmek, formaggio salatissimo, olive nere, yogurt, una frittatina da dividersi. Seduti o inginocchiati ai bordi facciamo tutti insieme colazione, sarà l’aperto, sarà la fame, sarà la compagnia, ma è tra i migliori risvegli degli ultimi anni; si prova ancora a parlare, la nonna araba ha il kajal agli occhi, fa fatica a muoversi ma prova i miei occhiali in un momentaneo e incredibile momento di collettiva ilarità, sul tetto già è posizionato il letto per l’estate, dormiranno sotto un soffitto di stelle vere, ma adesso è ancora troppo presto, la notte aleggia il freddo. L’obiettivo del giorno: camminare ed esplorare i sentieri della zona, farne fare una mappa più o meno realistica per proporre percorsi alternativi ai turisti delusi dalla chiusura del sito archeologico, lasciare il disegno della vecchia via della seta, luogo dove le culture dell’Asia centrale e della Persia s’incontravano con l’occidente.
Abbiamo passeggiato nella gola della valle, scalato senza sapienza, segnato nomi di vie, pensato itinerari turistici, chiacchierato con i nuovi compagni di viaggio, sognato di abitare degli anfratti della roccia così ospitale, così ben lavorata, così in equilibrio tra l’essere e l’avere, ci siamo sdraiati sulla terra secca dimenticando il correre del tempo, ci siamo persi con lo sguardo nella valle, con la bocca e il cuore di certo aperti. Ho provato, senza fortuna, a immaginare come fermare il massacro: forse tatuare nella terra l’immagine del semidio Ata bloccherebbe l’annientamento, forse la guerriglia sempre vigile riuscirà a far capire che qualcosa non va nelle scelte di Governo, forse bisogna tutti legarsi mano nella mano, immobili per la strada, e non spostarsi a nessun costo; forse bisogna segnalare a chiunque abbia un qualche tipo di potere lo scempio che sta per essere compiuto, forse bisogna distrarre gli operai già al lavoro sulle ruspe, forse bisogna dirottare in segreto il corso del Tigri...
Ci sono davvero posti da salvaguardare, indipendentemente dalla loro rilevanza o meno ai preziosi occhi dell’UNESCO. Ci sono persone (spesso già in difficoltà) da tutelare, pezzi di storia che racchiudono non solo un popolo ma forse tutti i popoli, da conservare e supportare, luoghi così speciali da portare a sentire dentro i propri occhi che il confine della bellezza è stato di un poco smosso, energie tanto potenti da far sentire a casa perfino chi non sa dire alcuna parola utile, chi si presenta solo con uno zaino e la pelle troppo bianca. Ecco, è proprio un peccato cancellare da questo mondo già malconcio le cose belle che i viaggi ci permettono di conoscere e respirare.

mercoledì 13 aprile 2011

Caramelle Gommose in Mesopotamia

Prima di rientrare in Italia ho fatto una piccola scorta di caramelle, per recensirle nel blog. Il viaggio di ritorno però è stato lungo e già al terzo treno i pacchettini diminuivano; appena rientrata ho accettato numerosi impegni che mi hanno impedito di ricavare qualche ora per riflettere, assaporare e descrivere criticamente. Durante questa decina di giorni i pacchettini si sono svuotati. Così ora non ho più nulla da recensire. Ho fatto una scansione delle confezioni in modo da dare l’idea di quanto piccoli fossero i pacchetti e discolparmi almeno in parte per l’ingordigia. 

Mi piacerebbe però fare una considerazione generale sullo stato delle caramelle gommose nell’Anatolia orientale.
La prima constatazione interessante è che non sono diffuse, e nemmeno disponibili ovunque. Sono presenti solamente nei supermercati, non nei kioschi, non nelle bancarelle, non alle stazioni, non alle edicole, non al bazar: solo nei supermercati. I supermarket a quanto ho potuto vedere non sono diffusissimi, proprio per la vastità dell’offerta commerciale del singolo che gira col carrello, coll’asino, col tavolino; e si appoggia per terra, e apre la sua casa, e si accartoccia di lato della strada con mercanzie da lui prodotte o da lui riproposte. I supermercati sono nelle mani delle grandi catene (Migros - Carrefour – Dia - Oypa), e la scelta dei prodotti, così come la struttura del supermarket è del tutto affine a quelle occidentali.
Quindi le caramelle gommose, a priori, sembrano giocare il ruolo di costoso vezzo occidentale.
La qualità delle caramelle si è rivelata sorprendente, alcune erano leggermente dure, probabilmente perchè in pochi le acquistano, a parte questo il sapore intenso, la varietà interessante, le confezioni di varie misure (con magnifici pacchettini di 30g), le rendono decisamente appetitose e fieramente concorrenziali col mostro Haribo. A proposito di quest’ultimo, l’assenza del gigante tedesco nella scelta è stata liberatoria visto che in Italia, la Haribo, sembra lentamente conquistare il monopolio gommo-dolciario. Per concludere vorrei rifarmi al ricordo delle buonissime Jelibon Topik meyve sulu, piccole caramelline gommose ai gusti fragola, limone-arancia (tutt’uno), mela e ananas. Forma a metà sfera, diametro di sette millimetri, gusto ben differenziato e intenso per ogni tipologia. Colori bianco, rosso, giallo, verde. Consistenza morbida, ricoperte di granelli di zucchero più sottili del normale zucchero. Eravamo a Urfa, davanti ad alcune rovine, una sorta di parco nascosto con profondi canali (pericolosissimi nel buio) che lo attraversavano irregolari. Seduti sul muretto mentre arrivava sera. Tré caramelle al colpo, parole leggere già dimenticate, vento da dietro, gambe a penzoloni e un mondo in stand-by tra il gorgoglio di jelibon mela e il cigolio di un j.fragola.
Voto generale 8.5

martedì 5 aprile 2011

L'usignolo di Dyiarbakir


raggiungendo i Dengbej, foto di J.D.P.
La potenza della voce è qualcosa che si coglie perfettamente in un cortile, il terzo giorno di primavera, tra le mura di Diyarbakir, mentre scende il sole dall’altra parte e un çay riscalda le mani quanto basta. I cantastorie si passano il turno con uno sguardo e un grido, le loro voci hanno età diverse, la lingua curda è la stessa per tutti, la storia raccontata è come un poema, e parla d’amori negati e guerre perdute, di coraggiosi e sfortunati. L’usignolo di D. è un omino sottile, vecchio. Ha mani eleganti, scure, un anello al mignolo della mano destra, mano che muove come a indicare vie e conclusioni logiche. Si riesce a cogliere il piacere che prova cantando. Lo si vede quando socchiude gli occhi e gira lo sguardo verso sinistra lasciando che la voce si allunghi e solletichi la gola, alza un po’ il mento, per un attimo sembra abbandonarsi. La voce che utilizza è quella della superficie, è lei a dettare il ritmo, è lei a insegnare una lingua, a trapassare una storia.
Ha il cappello quasi calato sugli occhi, la mano sinistra gioca aritmica col rosario, le labbra sono piatte, alcune parole permettono d’intravedere la fila dei denti, che risaltano bianchi nella pelle color terra, alla faccia del compagno tabacco. Ha due solchi che sembrano tagli, due rughe che disegnano un volto nel volto. Questo piccolo viso interno sorride. Gli occhi sono del colore degli occhi dei ciechi, un glauco opaco (solo più tardi, alla fine del viaggio, capisco che questo è il colore del Tigri in certi giorni di vento). A lungo ipnotizza chi vuole ascoltare anche senza capire, poi passa il turno e si accende una sigaretta, la tiene con la destra e per sbrasare usa l’anulare, chiacchiera sonoro, beve un çay, di nuovo, anche senza cantare, racconta una storia.

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