martedì 22 aprile 2008

MALEDETTA PRIMAVERA

Non si può rimanere tristi per sempre.

Continua a ripeterlo, come un mantra tranquillizzante lo sussurra tra le labbra, nessuno riesce a distinguerne le parole, guardandola sembra che preghi. Ogni volta che pensa di uccidersi accende una sigaretta e ripete la frase, guardando piccole nuvolette di fumo uscirle dalla bocca. Fuma solo quando pensa di uccidersi. Nell’ultimo mese ha fumato un pacchetto al giorno.

Era sempre stata un po’ instabile, fin da bambina, ogni cosa la turbava voracemente, ogni rimprovero era per lei un attacco alla sua persona, quando sbagliava si puniva da sola, le bastava considerare un proprio gesto “sbagliato” e smetteva di mangiare richiudendosi nel silenzio della propria stanza. Crescendo era diventata un più mite con se stessa e del tutto indifferente al mondo, aveva frequentato il liceo con risultati mediocri, avuto brevi e insoddisfacenti storie d’amore, iniziato e poi lasciato lettere, trovato un lavoro come commessa in una gioielleria e affittato un piccolo appartamento al primo piano del suo paesino.

Le piaceva l’inverno, specialmente quando nevicava: in quei momenti apriva la finestra e respirava l’aria gelida, la sentiva scendere ai polmoni, metteva della musica e se ne stava lì, incurante del freddo e del riscaldamento acceso, immobile ad ascoltare musica classica, con lo sguardo assorto dal lento scendere, con l’addome fresco di nuovi respiri, inerme fino a quando non si concludeva il cd; allora chiudeva la finestra e ritornava alla lettura. Leggeva moltissimo, per questo aveva scelto lettere; amava le parole altrui, amava i mondi fittizi in cui poteva rifugiarsi, divertirsi, rannicchiarsi, arrabbiarsi, vivere. Aveva da tempo accartocciato la propria vita per tante non reali. C’è chi trova la propria via di fuga nelle droghe, nell’alcool, nello shopping, nel ballo, nella bulimia. Lei l’aveva scoperta nei libri, in altre improbabili vite, nell’immaginazione altrui. Dopo qualche mese di università aveva capito che la passione trasformata in dovere perdeva le sue virtù, non poteva permettersi di perdere quell’unica vita, e così completò i documenti di rinuncia e continuò a leggere e vivere nelle parole.

La incontriamo mentre la primavera sta per arrivare. La primavera non le piace molto, quando era piccola, in primavera, aveva scoperto di essere allergica alle api e la disturbava pensare che qualcuno tanto “insensato” quanto un insetto potesse ferirla mortalmente. Ho virgolettato “insensato” perché dobbiamo pensare che era solo una bambina molto sensibile e che cercava semplicemente di giocare con il piccolo volatile bicolor, il fatto che questi poi l’avesse punta al braccio causandole una gita all’ospedale e l’iper-protezione genitoriale ogni giorno con bel tempo per almeno dieci anni dopo l’avvenimento, non poteva che irritarla e non farle riconoscere l’importante ruolo delle api nel mondo. Dunque non ama la primavera, apre la finestra e sente gli uccelli, rimpiange la neve e chiude veloce la finestra, non che il sole la disturbi, nemmeno gli uccelli, nemmeno i fiori, semplicemente questi fattori le sono indifferenti, o forse la fanno sentire più sola. Non che abbia paura della solitudine, anch’essa le è indifferente, semplicemente non le piace svestirsi, non le piace mangiare il gelato al parco, non le piace vendere gioielli ai nuovi innamorati.

Anestetizzata alla vita potremo dire, vorrebbe scomparire, vorrebbe non esserci.

È da un mese che fuma un pacchetto di sigarette al giorno, è da un mese che ogni giorno pensa di uccidersi, ha valutato moltissimi modi, del resto ne ha già sperimentato la maggior parte in molte delle sue vite: si è gettata sotto un treno, addormentata eternamente con i barbiturici, quindici incidenti stradali, dissanguata con delle lamette, annegata in due fiumi, tre mari e un oceano, impiccata a molteplici varietà d’alberi, è stata uccisa da alcuni cecchini, investita da almeno cinque macchine, una volta non le si è aperto il paracadute, un’altra le hanno gettato un asciugacapelli nella vasca da bagno, si è sfracellata al terreno dopo un volo di sei piani, sparata in gola, al cervello, al cuore e alle gambe, alcune volte è stata fatta a pezzi e gettata in ben quattro città diverse, una volta hanno venduto i suoi organi al mercato nero europeo. È già stata fucilata, ha messo la testa in forno, è rimasta chiusa in un frigorifero, calpestata da un elefante, sbranata da almeno cinque animali (uno de quali il cane del suo vicino di casa), e non molto tempo fa, mentre viaggiava con una carovana di zingari è stata colpita per sbaglio alla gola dal lanciatore di coltelli. Ha dunque una grande esperienza di morte alle spalle, ma questa volta, trattandosi proprio di una realtà che le appartiene le sembra più difficile. Non che abbia paura di soffrire, vendere i gioielli è per lei una tortura quotidiana, non ha nemmeno paura di lasciare qualcuno d’amato, si è ben guardata dall’amare qualcuno di carne, e non le importa assolutamente del dopo, è certa che la seguirà il nulla. Cosa allora la preoccupa? È semplicemente ambiziosa, vuole che la sua morte sia inedita, non vuole copiare nessun modo, vuole inventare. E così fuma sigarette in gran quantità e si ripete che non si può rimanere tristi per sempre, alla fine un modo lo troverà! Continua a documentarsi, ha interi quaderni di annotazioni e progetti, ma nessuno le sembra degno di realizzazione. L’idea giusta le venne un giovedì, per caso; aveva aperto la finestra per far uscire il fumo e tra i fiori del giardino aveva notato un’ape. Gialla e nera svolazzava sparpagliando polline, era piccola, ma per lei mortale. Iniziò a scrivere e fantasticare, farsi pungere nel giardino non sarebbe stato sufficiente, qualcuno passando poteva vederla e salvarla, l’ape magari non voleva pungerla il giorno prestabilito, magari una puntura non era sufficiente. Pensò e ripensò, sigaretta dopo sigaretta, preparò il tè e vi aggiunse lo zucchero e proprio in quel momento le giunse l’illuminazione: si sarebbe preparata un gin tonic, avrebbe cosparso il bordo del bicchiere di miele e avrebbe atteso che un’ape si appoggiasse su quell’invitante, dolce, piccolo cornicione, a quel punto, armatasi di coraggio avrebbe avvicinato il bicchiere alla bocca e avrebbe bevuto l’elisir di piacere e morte, l’ape sarebbe finita nella sua gola, per proteggersi l’avrebbe punta inpedendole di respirare mentre il bramato veleno faceva effetto. Le sembrava un piano magnifico, in solitudine, con il suo drink preferito, annientata dall’ancestrale minuto nemico! Sorrise compiaciuta, non aveva mai letto qualcosa di simile, la natura avrebbe vinto ancora, l’incancellabile istinto di un piccolo insetto avrebbe sopraffatto e compiuto la sua opera più grande, una morte nuova. La consapevolezza dell’ebbra morte le regalava buonumore, affidare alla natura il proprio suicidio le suonava mistico ed innovativo. Avrebbe attuato il piano nel fine settimana, sabato, o forse domenica. Venerdì andò al lavoro (il suo ultimo giorno di lavoro!) e tornando comperò miele, una bottiglia di gin, dell’acqua tonica, altre sigarette e un quotidiano locale. Quella sera non poteva leggere tanto era eccitata all’idea della propria poetica fine, a stento prese sonno verso le tre, dopo aver ripassato le semplici operazioni almeno cento volte; da anni non era tanto entusiasta per qualcosa. Il mattino seguente si alzò con un evidente sorriso, accese una sigaretta e sussurrò tra le labbra, mentre piccole nuvolette di fumo le uscivano dalla bocca “non sto più nella pelle, non sto più nella pelle…”. Non bevve il caffé, preparò il drink, aprì la finestra e lasciò entrare il sole, l’aria fresca, le mosche e un’ape. Contornò il bicchiere con il miele, si sedette sul divano e iniziò a leggere il giornale in attesa che l’ape eseguisse il suo compito. Gli articoli narravano tragedie insostenibili, blateravano di politica, reclamizzavano automobili e propinavano curiosi oroscopi, lesse il suo: “E' proprio la giornata giusta questa per farsi venire nuove idee e per iniziare nuovi progetti. Siete in tempo per organizzare tutto come si deve e per godervi in pace il vostro momento di gloria. L' importante sarà non correre troppo e non fare passi più lunghi della gamba.”. “Godermi il mio momento di gloria" sussurrò accarezzandosi le ginocchia, compiaciuta; anche gli astri la appoggiavano nel suo piano ingegnoso. Girò pagina, sempre tenendo d’occhio l’ape che svolazzava ignara del proprio destino, ma sempre più vicina al bicchiere, “eccoti”, esclamò vedendola appoggiarsi e trafficare veloce e precisa con le sue zampine. Veloce recuperò il bicchiere, lo avvicinò alle labbra e bevve un piccolo sorso di freschezza con ape annessa, la sentì nella bocca, e decisa fece per ingoiarla. Come previsto l’ape la punse. Riusciva ancora a respirare, forse l’aveva punta sotto la lingua, tutto il viso le pulsava tanto che era impossibile riconoscere l’esatto luogo avvelenato. Decise di tranquillizzarsi, riprese a leggere, l’occhio le cadde su un annuncio, si trattava di un concorso letterario. La finestra era aperta e il sole continuava ad entrare, guardò fuori e l’abete sembrò sussurrarle qualcosa. Non riusciva a capire le parole, né il loro significato, ma di colpo intese, l’albero le stava mostrando la sua via. Aveva vissuto tutte le sue vite tra le pagine di libri altrui, ora doveva fissare le sue pagine e essere artefice delle sue vite! Quanto sarebbe stato bello navigare e vivere tra i propri sogni, tra le proprie parole! Avrebbe potuto sperimentare altre mille morti, le più strane, le più imbarazzanti, le più cruente, avrebbe potuto decidere lei stessa chi era, come e dove, perchè non ci aveva pensato prima?!? Il viso pulsante non le impediva di sorridere, credendo di muovere le labbra sussurrò tra sé e sé: “vivere nelle mie parole, morire nelle mie parole, vivere…”

La vista iniziò ad appannarsi, si rese conto di avere pochissimo tempo. Corse in cucina (per quanto una giovane donna allergica alle api e punta in una zona indeterminata all’interno della bocca possa correre), aprì il mobiletto delle medicine (è sì, la nostra protagonista conserva le medicine in cucina, al contrario dei film americani che vengono propinati quotidianamente in tv, dove l’armadietto dei farmaci è sempre in bagno nonostante sia insensato se si pensa che nella maggior parte dei medicinali si dice: “tenere in luogo fresco e asciutto…”) e con la poca vista che le rimaneva cercò il siero, lo trovò e impacciata si fece l’iniezione. Con le poche forze rimaste agguantò il telefono e compose il numero d’emergenza, a quel punto svenne.

Ritroviamo la nostra protagonista in ospedale, è viva e con il viso ancora gonfio, apre gli occhi e come al solito vede il sole, li richiude e gioiosa si abbandona al potente fluido della sua fantasia, per la prima volta inizia a vivere.

sabato 19 aprile 2008

L ‘ I L L U M I N A Z I O N E

Quel mattino non si svegliò lento e svogliato come al solito, quel mattino aprì gli occhi e sorrise al giorno. Era presto come al solito, il tempo non era dei migliori, la primavera stentava ad arrivare, solo nel primo pomeriggio illudeva all’atteso cambiamento, ma ogni giorno era lo stesso, un po’ grigio, un po’ annebbiato, per molti piuttosto vuoto. Dunque si svegliò sorridente, pieno di energia, riposato. Si alzo e fece il caffé, non lesse i giornali e ripensò alla notte tranquilla. Era da mesi che non riusciva a dormire bene, sogni terribili lo svegliavano ripetutamente, sogni che si incidevano nella memoria, incubi indimenticabili, vermi che gli immobilizzavano il corpo, terremoti che lo seppellivano sotto le macerie, fiumi che lo intrappolavano sott’acqua fino a riempirgli i polmoni, roghi che lo carbonizzavano, voli che lo sfracellavano al suolo o sugli edifici. Quella notte nulla, nessun sogno, nessun risveglio nel sudore, nessuna conta delle pecore per riaddormentarsi. Bevve il caffé e usci a fare la spesa, a passeggiare, a respirare l’aria fresca e densa, a percepirsi come essere vivente in relazione al mondo. Si sentiva più bello, come se una sola notte tranquilla gli avesse cancellato le profonde occhiaie che da mesi gli facevano abbassare lo sguardo come trascinato al terreno dal peso della gravità che la perenne veglia colorava sotto i suoi occhi appannati. Si sentiva vivo e guardava il cielo neutro con speranza. Come tutti sappiamo è il nostro modo di porci al mondo a influenzare il rapporto che abbiamo con il mondo stesso e infatti quello stesso giorno il nostro protagonista fu investito da una generosa fortuna. Non parlo di piccole cose, come trovare dei soldi per terra (cosa che potrebbe più facilmente accadergli guardando a terra piuttosto che scrutando il cielo), o trovare parcheggio davanti al lavoro (cosa che fa sempre piacere, ma che cambia solo il corso di una giornata, non dell’intera vita); quel giorno di falsa primavera Giorgio incontrò Dio. Camminava a testa alta, sveglio e riposato, era andato a comprare qualche provvista, ma improvvisamente nel negozio era entrato un uomo con una strana maschera sul viso gridando a tutti i presenti (lui, la commessa del piccolo alimentari e un prete) che dovevano sdraiarsi e non muoversi. I tre, spaventati e piuttosto sprovveduti, avevano fatto esattamente quanto richiesto; Giorgio, con il naso contro al pavimento sporco, tremante e confuso iniziò a pregare. Era la prima volta che si trovava in una situazione simile: il rapinatore aveva una pistola e maneggiava con il registratore di cassa, la commessa piangeva rumorosamente, il prete non si muoveva, nemmeno il suo respiro era percepibile. Giorgio pregava silenzioso e un po’ affannato, come se capisse che i suoi minuti erano contati, pregava Dio di mantenerlo in vita, pregava che tutto finisse, si scusava per i peccati commessi, pregava per la salute di sua madre ormai vecchia. Di colpo si udì solo un mistico silenzio, una luce sovrumana inondò tutta la stanza e uno strano calore partì dalle viscere di Giorgio. Si chiese se stesse per morire, se gli altri percepivano le stesse stranezze, se stesse dormendo e come al solito fosse giunto il momento in cui il sogno si trasforma in incubo. Dal silenzio universale che lo circondava non giunse nessuna voce, ma nella sua mente, di colpo, come se qualcuno scrivesse a macchina comparivano le risposte ad ogni domanda. Lente e regolari comparivano le lettere che insieme componevano le parole, che raggruppate formavano le risposte alle sue domande.

N O N S T A I P E R M O R I RE. G L I A L T R I N O N P O S S O N O P E R C E P I R E. N O N S T A I D O R M E N D O.

Ma allora che succede? Si chiese Giorgio senza voce.

S E I S O T T O L A M I A P R O T E Z I O N E. N O N D E V I T E M E R E. D A O G G I S E I U N U O M O N U O V O, H A I U N A N U O V A L U C E.

L’aria d’oro che lo circondava sparì di colpo, così come la visualizzazione del dialogo nella mente, così come il silenzio immacolato. Attorno a lui sentì odore di pulito, il chiacchierio di alcune infermiere, il ronzio di alcuni macchinari medici. Solo quando la somma dei quattro sensi gli fece apparire chiaro che era in un ospedale aprì gli occhi, la testa era fasciata, un camice semiaperto copriva a stento le sue nudità, l’infermiera si avvicinò, gli sorrise e gli disse: “Stia tranquillo, ora sta bene, è svenuto nel negozio di alimentari e la commessa ha chiamato un’autoambulanza. Ha solo un lieve trauma cranico, ma già da domani, dopo alcuni accertamenti, potrà tornare a casa.”.

Giorgio sorrise come da mesi non faceva, aveva in sé una nuova luce.

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