giovedì 27 settembre 2012

sovrapposizioni temporali e spaziali dovute agli oggetti

Lavoro a un libro di Herta Mueller, ogni suo libro è un viaggio nella sua testa, difficile, duro, geniale.
Lavoro a questo testo, che è una serie di riflessioni sulla scrittura, sulla lingua, sulla libertà, e ne rimango drammaticamente ingarbugliata. E così guido la macchina distratta. La testa si è perduta nei concetti.
Oggi ho letto qualche riga che mi ha subito riportata al Kurdistan.

A me capita che siano gli oggetti a stabilire quando, come e dove possono riaffiorare nella mente situazioni e persone del passato. Loro, che rispetto a noi sono di tutt'altra materia, invulnerabile, e durevole nel suo essere inanimata, determinano il proprio ritorno nei nostri pensieri. Gli oggetti alzano il braccio per colpire a destra e a manca, ammiccano a ciò che è stato riemergendo casualmente.

Era sera, forse la penultima sera, o forse addirittura l'ultima. Il giorno dopo saremo partite, io per certo sarei partita, di C. non ero così sicura. Si andava da una casa all'altra a salutare, io ero stanca, e pensierosa, forse anche un po' annoiata dal non capire, dal dover farmi tradurre di cose che non sempre mi interessavano totalmente. Passiamo all'ultima casa, prima non vi eravamo mai state, e proprio per questo dovevamo passare, per non fare uno sgarbo all'ospitalità.
Entriamo, tappeti, divano, cai, cuscini. Obbligata a sedere sul divano siedo composta e statuina, non posso parlare. C. ascolta, interagisce, ogni tanto le tocco la spalla, dài dimmi che si dice, a volte traduce, altre si rende conto che sarebbe lungo e complesso e non determinante. Alzo lo sguardo, un po' scazzata perché comunque è l'ultima sera e proprio trascorrerla non capendo... dopo tutto un mondo a cui devo dire ciao... alzo lo sguardo, dicevo, e vedo appeso l'orologio blu, a forma di palla, che Paka aveva comprato un giorno d'estate davanti a un supermercato. Un orologio brutto, bruttissimo, color blu e argento, una pacchianata pazzesca, con uno schermetto digitale che riporta l'ora, un orologio che mai mi è piaciuto, ma che senza sofferenza ho tenuto appeso a casa per almeno quattro anni, un orologio tolto dalla parete quando ho voluto imbiancare per togliere dalla casa l'odore di fumo, il giallo del tempo, i segni dei poster, la presenza del passato. Ecco, l'orologio che non ho più rimesso è capitato qui, come se dallo scatolone delle cose mai riappese sotto la libreria nella stanza di mezzo fosse finito su questo muro giallo, nella stanza coi tappeti e i bicchierini da tè, di nuovo una stanza con l'odore di fumo e questa volta anche di tonico al tabacco.

mercoledì 26 settembre 2012

Everything in its right place

E di colpo lui diventa bello.
Di colpo il corpo diventa di carne, e vien voglia di stringerlo tra le mani.
E si muove, scomposto e perfetto.
È la bellezza di chi sta dentro a ciò che fa, di chi non cerca per forza ad ogni costo l'estetismo, è la naturalezza. Agio. Donarsi.
Ieri concerto, e sembra già una vita fa, perché non so, cambiano i posti e le persone e il tempo sembra premere sull'acceleratore. Ieri concerto in una Bologna calda venata di aria fresca a intermittenza tra le teste delle persone. Un concerto generoso, che non si è risparmiato nulla, che ha pescato brani del passato, dei passati, e di adesso.
E persone, millemila persone diverse volontariamente nello stesso posto, caldo o freddo che sia, pioggia o sole che picchi. E a me sorprende sempre tanta gente in un posto, come in certi festival affollati, dove si cammina sui bicchieri di plastica bevuti e gettati e schiacciati dalle masse. Millemila persone che sanno testi a memoria, che investono tempo e denaro per essere lì, e vedere tra una testa e l'altra qualcuno.
E quel qualcuno ieri sera era bello ed era lì, ed era una persona, (e no, non lo credevo una non persona prima), intendo che era proprio lui, con il corpo e la fatica.
E anche se lo spagnolo davanti è ubriaco e spagnolo, e anche se la figlia delle danze popolari ha una massa di capelli così crespi che mi grattugia il braccio, e l'uomo muro non si smuove di un centimetro, e gli innamorati sembrano volermi usare come parete e il gruppo alla destra chiacchiera... beh io sbircio tra una spalla e una testa, e vedo solo lui. E tutto è al proprio posto.

venerdì 21 settembre 2012

Sava

Passavo. Alla destra un negozio di scarpe che metteva al riparo il carrello espositivo scorrevole. Alla sinistra un odore. Ha iniziato a piovere, la pioggia ha enfatizzato l'odore e di colpo non ero più lì nella piazza XXX. Si tratta di sigarette scadenti. L'odore di sigarette scadenti mi riporta sempre nei Balcani, a Plavno, ai circoli per uomini. A Plavno c'era un uomo, Sava, il nome quasi come il mio. Età indefinibile, capelli tutti bianchi, occhi glaciali, barba anch'essa bianca sulla carnagione abbronzata dall'estate. La storia di Sava non la so, non la ricordo, so che era pazzerello però, che trascorreva gli anni entrando e uscendo da cliniche per malati mentali. Ma chi prendo in giro? Che ci fossero state cliniche per malati mentali nel villaggio serbo dell'entroterra croato nel '98? magari era solo un ospedale, così spero. Sava mi piaceva, e io gli piacevo. Sara, diceva con quella r particolare, e parlaparlaparlava fitto, di musica soprattutto, e a me sembrava di capire, giuro mi sembrava di capire. E poi mi offriva una sigaretta, e guai a rifiutare. E allora fumavamo insieme sigarette scadenti, a volte senza filtro; e bevevamo quel succo concentrato diluito nell'acqua. In questo cortiletto che ricordo tanto bene quasi fosse stata casa. Cementato per metà, con un tronco grande a fare un po' da panchina, e un tavolo al centro, a volte due se si era in tanti -e d'estate spesso si era in tanti, d'inverno, a pasqua, lì no, lì c'erano solo i veri affezionati, lì c'era chi non voleva essere altrove.

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