sabato 29 dicembre 2012

La notte premeva contro il finestrino

Ecco: la fine dell'anno, le vacenze, il natale... insieme alla solita tragica misantropia, insieme alla consueta infelicità e senso d'inadeguatezza, insieme alla certezza del bisogno di un posto totalmente mio in cui potermi perdere senza dare spiegazioni e senza l'obbligo di ritrovarmi... mi hanno portato (con anche altre cose belle) un'autrice. Nina Berberova. Lucida, sottile, chiara, a tratti semplice nel dire cose complesse, nel fare il punto della situazione.
Per caso mi è capitato tra le mani L'accompagnatrice (folgorante!), un libercolo che in un centinaio di pagine è in grado di raccontare con grazia una storia.
Che focalizza punti di vista e descrive situazioni e centra dei sentimenti e li allarga all'uomo, e li dice con maestria e freschezza.

La notte premeva contro il finestrino, qualcuno barcollava nel corridoio, qualcuno mi baciava le mani, leggermente, con delicatezza, finalmente qualcuno mi guidò fino al mio scompartimento. La notte premeva contro il finestrino, il treno correva a precipizio, io sentivo la vita premermi addosso e mi precipitavo in essa, in quell'ignoto ovattato.

sabato 15 dicembre 2012

Cercare è trovare.

Ultimamente su ogni treno c'è la polizia. Le braccia ingiacchettate, spalline ben visibili, guanti: uno indossato da una mano che regge l'altro. La mano nuda apre la porta scorrevole tra i vagoni, e quella ad anta tra il bagno e la cabina. Camminano avanti e indietro, da Verona a Bolzano, da Bolzano a Verona. Passeggiano guardandosi attorno, e sembrano dire: tranquilli, ci siamo noi. Al loro passaggio mezze persone abbassano gli occhi, l'altra metà li sfida con lo sguardo. Loro osservano, cercano. (Nelle lingue slave, perlomeno quel paio da cui mi lascio affascinare, il verbo cercare e il verbo trovare sono lo stesso verbo, il primo nell'aspetto imperfettivo – cioè del processo, il secondo nell'aspetto perfettivo – quello dell'azione compiuta) Cercano. Sembrano elefanti tra le ceramiche, se si guardasse solo al loro sguardo e non alla divisa che più che rassicurare manda in panico, farebbero tenerezza, perché provano a essere gentili, camminano e cercano ma sembrano non volerlo fare. C'è una tensione innaturale nelle loro movenze, come dire che tutto va bene ma avere una pistola in mano. Come sentirsi dire che non si sarà toccati dalla stessa persona che sta torturando qualcun'altro.
Sorridono con la bocca, senza mostrare i denti, esaminano con gli occhi.
Carnagione troppo chiara o troppo scura. Vestiti fuori moda, soprattutto scarpe ginniche di colori sgargianti e tute sportive in acetato. Suoni di lingue sconosciute, taglienti o di gola. Ciglia lunghe e sguardi profondi, o forse occhi cristallini e distanti come la Russia. Cicatrici sul volto. Veli sulla testa.
Scrutano, camminano, vedono, si fermano. In ordine chiedono tre cose. Documento – permesso di soggiorno – biglietto. Non ho mai sentito una domanda ulteriore, ma ho il dubbio che arriverebbero a chiedere la ricevuta del pagamento delle bollette di casa. Perché sono certa che vogliono trovare qualcosa che non va. Sono certa che non concepiscono la legalità se la carnagione è troppo scura.
Così, appena uno sguardo è troppo azzurro o troppo cioccolato si fermano. Prima domanda, e il sospetto dà il documento. Seconda domanda, e il sospetto dà un foglio – ma è la fotocopia, sbraita quello più giovane, sì ma se porto l'originale e lo perdo?, chiede il sospetto – se lo perde va in commissariato e le rilasciano una copia, la legge è chiara, bisogna circolare con l'originale. E intanto gli sguardi si alzano gli ipod si stoppano e le orecchie si tendono, e tutta la carrozza segue la conversazione. Allora il vecchio in blu d'ordinanza dice: ci segua, e lo straniero: ma le ho dato tutto, e il giovane: venga di là. E il trio va davanti alla porta dei bagni, e parla uno e parla l'altro, e qualcuno telefona a qualcuno, documenti in mano, sguardi che s'interrogano. Poi rientrano, il sospetto forse non è più sospetto, i mastini sorridono ai “clienti” (e vorrei dire passeggeri, ma purtroppo trenitalia ci chiama clienti, e non passeggeri) e cercano qualcun'altro. Di solito, se il documento è ok e il permesso è originale e tutto è a posto, la polizia chiede il biglietto. E qui rimango sbigottita, perché non hanno nemmeno il timbratore per convalidare, non solo polizia ferroviaria, ma proprio polizia... e chiedono il biglietto del treno. E io trovo pazzesco e poco rassicurante, nonostante i sorrisi e nonostante le divise, che su ogni treno ci sia la polizia che cerca gli stranieri, solo e solamente gli stranieri, e che soprattutto, negli stranieri, cerchi una ragione che avvalori il loro cercare.

giovedì 13 dicembre 2012

Umore maledettamente variabile

Come ogni inverno inizia l'insonnia, la voglia di guardare serie tv giorno e notte senza pensare assolutanmente neanche un po' alla vita vera. La voglia di sepellirsi nell'altrove nonostante la perenne e disabilitante claustrofobia. Oggi l'umore fluttua tra la festa (nella mia testa) e il dramma (sempre nella mia testa).

mercoledì 5 dicembre 2012

Inizia il freddo

In treno.
Avevo freddo e dormicchiavo, davanti a me in diagonale una signora con una giacca verde, in stoffa. solo il seno ad indicare che non era un signore.
Sui quattro sedili alla destra invece due stranieri di carnagione chiara e una donna magra magra e spettinata con cane giovane e molto bello.
Dormicchiavo, avevo freddo.
Sognavo che mi si spiegava russo, i verbi di moto, e spiegandomi le cose mi si carezzava il petto sopra i vestiti, il gelo mi carezzava il petto, a ogni spiegazione. Ondate carezze ghiacciate sul petto a ogni coppia di verbi.
Poi mi sono svegliata, il cane mi guardava come se capisse.

Amarezze - Lista della sensazione di profonda inutilità – finisce anche questo novembre

  • quando corro passo metà corsa a pensare alla morte, l'altra metà a chiedermi perchè gli operai sulla ciclabile alle sette di mattina siano già così maschilisti e fastidiosi nonostante io sembri tutto tranne che attraente.
  • Quando dici nostro, più della metà delle volte io non ne faccio parte.
  • Non voglio aspettare più nessuno
  • quando una persona cara è in ritardo, io chiamo e non risponde, dentro di me scatta un mantra: di certo, se fosse successo qualcosa l'avrei sentito. E con questa sciocca bugia mi tranquillizzo.
  • Questo mese sono stata un soldatino, tutto fatto nei tempi, tutto come si deve. La corsa le lezioni in lavoro i compiti. Il risultato? Nessun risultato. Semi sul cemento.

mercoledì 21 novembre 2012

Non entro mai nella stanza chiusa, raramente apro l'armadio che profuma di vecchia lavanda.
Oggi mi hanno parlato della nonna, spesso mi dimentico che vivo nella sua casa, ho ridipinto le pareti, spostato i mobili, e questo così tante volte che ormai la nonna non è più proiettata da nessuna parte dai ricordi. A volte, solo a volte sul tavolo della cucina, mentre fa una crostata, col mattarello pesante, e sul ripiano in legno. Una montagnola d'ingredienti e sulla cima ciak ciak, un paio di uova fresche aperte e versate una alla volta con una mano sola – mi guarda e mi chiede di spostarle gli occhiali appoggiati lì vicino, che sennò s'infarinano. O appollaiata su una sedia, mentre mangia in una tazza bianca dalle decorazioni blu un carciofo col cucchiaino e guarda telenovelas sudamericane.
Un giorno, ero alle elementari, ho chiamato un'amica per chiederle i compiti. La nonna era lì seduta vicino a me, e giocava con le cose nel mio astuccio. La nonna era una da astucci e comparti, divisori, sacchettini e borsettine dentro alle borse e fazzoletti profumati e stirati in quadrati perfetti. Era una da tabelline e poesie recitate senza dubbi, da partite alle carte tutto il pomeriggio sotto la pergola. Frugava nel mio astuccio, giocherellava, ha preso in mano un evidenziatore e mi ha chiesto cosa fosse. Un evidenziatore rosa le ho detto. L'ha provato su un angolo del giornale, le ho spiegato a cosa servisse ed era felice. E sorridente ha espresso un concetto che io ricordo ancora e che a tratti ho usato come motto della mia vita: che vale la pena di vivere se a sessantanni ancora scopre cose nuove, e chissà cosa inventeranno l'anno prossimo. E io penso di aver riso, e poi quando la nonna è morta di aver pianto tutte le mie lacrime pensando a quello che mai avrebbe scoperto. E certi giorni ci penso, quando scrivo una mail, quando m'imbatto in una foto dello spremiagrumi di Stark.
Oggi mi hanno parlato della nonna e dei rapporti che c'erano tra le famiglie.
Aiuto. Schietto aiuto. Sorreggersi.
Io sono una sfegatata fan dell'individualismo, rinchiusa dietro a inviolabili cancelli di solitudine, forza, paure, speranze. Sono quella che non c'è mai sulle foto di gruppo, perché non mi piacciono i gruppi, non riesco a relazionarmi con tante persone insieme, non mi piacciono le dinamiche del tutti per uno. E non è cattiveria, è piuttosto paura, desiderio di completezza, poca pazienza.
Però quando sento i racconti del passato li ascolto con un luccichio negli occhi, e mi accorgo che mi manca qualcosa. Mi manca quel colore giallo raccolto dell'infanzia, che è il colore delle foto dell'infanzia, e anche dei miei ricordi pieni di adulti in campagna, della vendemmia insieme e io che provo a guidare un trattore, e di amici che fanno legna insieme e poi se la dividono, e di porte appena appoggiate e mai chiuse a chiave.

giovedì 8 novembre 2012


Rubare attimi, rubare giorni, scavare nel tempo come a mani nude nella terra.
Scavare ora dopo ora, guardare il buco nella terra del tempo, sentire un'unghia spezzata e un braccio affaticato, eppure gioire vedendolo già piena di noi.

lunedì 29 ottobre 2012

Non sono sola

Io e il mio piccolo dramma ci svegliamo di primo mattino.
Io e il mio piccolo dramma andiamo a correre.
Io e il mio piccolo dramma andiamo al lavoro, poi prendiamo il treno; mangiamo una fetta di pizza e poi ci avviamo a lezione.
Io e il mio piccolo dramma camminiamo sotto il sole, tra la gente. Facciamo un paio d'ore di russo, i compiti, beviamo dell'acqua.
Oggi non sono sola e temo che il piccolo dramma non sia per niente stanco.

giovedì 25 ottobre 2012

Il nemico, ma non quello vero.

Poi c'è quel momento in cui abbassa le difese. Quell'attimo in cui di colpo tutta la stanchezza sale in superficie, sul viso. E l'altro, il nemico con la n minuscola, ci appare per quello che è, un uomo. Quell'istante in cui prima di aprir bocca il respiro va più in profondità e poi esce come respiro e non come insulto. Quasi come resa. No, un armistizio piuttosto, un abbassare le armi fino a domani, almeno fino a domani.

giovedì 27 settembre 2012

sovrapposizioni temporali e spaziali dovute agli oggetti

Lavoro a un libro di Herta Mueller, ogni suo libro è un viaggio nella sua testa, difficile, duro, geniale.
Lavoro a questo testo, che è una serie di riflessioni sulla scrittura, sulla lingua, sulla libertà, e ne rimango drammaticamente ingarbugliata. E così guido la macchina distratta. La testa si è perduta nei concetti.
Oggi ho letto qualche riga che mi ha subito riportata al Kurdistan.

A me capita che siano gli oggetti a stabilire quando, come e dove possono riaffiorare nella mente situazioni e persone del passato. Loro, che rispetto a noi sono di tutt'altra materia, invulnerabile, e durevole nel suo essere inanimata, determinano il proprio ritorno nei nostri pensieri. Gli oggetti alzano il braccio per colpire a destra e a manca, ammiccano a ciò che è stato riemergendo casualmente.

Era sera, forse la penultima sera, o forse addirittura l'ultima. Il giorno dopo saremo partite, io per certo sarei partita, di C. non ero così sicura. Si andava da una casa all'altra a salutare, io ero stanca, e pensierosa, forse anche un po' annoiata dal non capire, dal dover farmi tradurre di cose che non sempre mi interessavano totalmente. Passiamo all'ultima casa, prima non vi eravamo mai state, e proprio per questo dovevamo passare, per non fare uno sgarbo all'ospitalità.
Entriamo, tappeti, divano, cai, cuscini. Obbligata a sedere sul divano siedo composta e statuina, non posso parlare. C. ascolta, interagisce, ogni tanto le tocco la spalla, dài dimmi che si dice, a volte traduce, altre si rende conto che sarebbe lungo e complesso e non determinante. Alzo lo sguardo, un po' scazzata perché comunque è l'ultima sera e proprio trascorrerla non capendo... dopo tutto un mondo a cui devo dire ciao... alzo lo sguardo, dicevo, e vedo appeso l'orologio blu, a forma di palla, che Paka aveva comprato un giorno d'estate davanti a un supermercato. Un orologio brutto, bruttissimo, color blu e argento, una pacchianata pazzesca, con uno schermetto digitale che riporta l'ora, un orologio che mai mi è piaciuto, ma che senza sofferenza ho tenuto appeso a casa per almeno quattro anni, un orologio tolto dalla parete quando ho voluto imbiancare per togliere dalla casa l'odore di fumo, il giallo del tempo, i segni dei poster, la presenza del passato. Ecco, l'orologio che non ho più rimesso è capitato qui, come se dallo scatolone delle cose mai riappese sotto la libreria nella stanza di mezzo fosse finito su questo muro giallo, nella stanza coi tappeti e i bicchierini da tè, di nuovo una stanza con l'odore di fumo e questa volta anche di tonico al tabacco.

mercoledì 26 settembre 2012

Everything in its right place

E di colpo lui diventa bello.
Di colpo il corpo diventa di carne, e vien voglia di stringerlo tra le mani.
E si muove, scomposto e perfetto.
È la bellezza di chi sta dentro a ciò che fa, di chi non cerca per forza ad ogni costo l'estetismo, è la naturalezza. Agio. Donarsi.
Ieri concerto, e sembra già una vita fa, perché non so, cambiano i posti e le persone e il tempo sembra premere sull'acceleratore. Ieri concerto in una Bologna calda venata di aria fresca a intermittenza tra le teste delle persone. Un concerto generoso, che non si è risparmiato nulla, che ha pescato brani del passato, dei passati, e di adesso.
E persone, millemila persone diverse volontariamente nello stesso posto, caldo o freddo che sia, pioggia o sole che picchi. E a me sorprende sempre tanta gente in un posto, come in certi festival affollati, dove si cammina sui bicchieri di plastica bevuti e gettati e schiacciati dalle masse. Millemila persone che sanno testi a memoria, che investono tempo e denaro per essere lì, e vedere tra una testa e l'altra qualcuno.
E quel qualcuno ieri sera era bello ed era lì, ed era una persona, (e no, non lo credevo una non persona prima), intendo che era proprio lui, con il corpo e la fatica.
E anche se lo spagnolo davanti è ubriaco e spagnolo, e anche se la figlia delle danze popolari ha una massa di capelli così crespi che mi grattugia il braccio, e l'uomo muro non si smuove di un centimetro, e gli innamorati sembrano volermi usare come parete e il gruppo alla destra chiacchiera... beh io sbircio tra una spalla e una testa, e vedo solo lui. E tutto è al proprio posto.

venerdì 21 settembre 2012

Sava

Passavo. Alla destra un negozio di scarpe che metteva al riparo il carrello espositivo scorrevole. Alla sinistra un odore. Ha iniziato a piovere, la pioggia ha enfatizzato l'odore e di colpo non ero più lì nella piazza XXX. Si tratta di sigarette scadenti. L'odore di sigarette scadenti mi riporta sempre nei Balcani, a Plavno, ai circoli per uomini. A Plavno c'era un uomo, Sava, il nome quasi come il mio. Età indefinibile, capelli tutti bianchi, occhi glaciali, barba anch'essa bianca sulla carnagione abbronzata dall'estate. La storia di Sava non la so, non la ricordo, so che era pazzerello però, che trascorreva gli anni entrando e uscendo da cliniche per malati mentali. Ma chi prendo in giro? Che ci fossero state cliniche per malati mentali nel villaggio serbo dell'entroterra croato nel '98? magari era solo un ospedale, così spero. Sava mi piaceva, e io gli piacevo. Sara, diceva con quella r particolare, e parlaparlaparlava fitto, di musica soprattutto, e a me sembrava di capire, giuro mi sembrava di capire. E poi mi offriva una sigaretta, e guai a rifiutare. E allora fumavamo insieme sigarette scadenti, a volte senza filtro; e bevevamo quel succo concentrato diluito nell'acqua. In questo cortiletto che ricordo tanto bene quasi fosse stata casa. Cementato per metà, con un tronco grande a fare un po' da panchina, e un tavolo al centro, a volte due se si era in tanti -e d'estate spesso si era in tanti, d'inverno, a pasqua, lì no, lì c'erano solo i veri affezionati, lì c'era chi non voleva essere altrove.

giovedì 9 agosto 2012

Fermo la mano

Luci accese – luci spente.
Una piccolezza nelle foto nei disegni, un vivo o un morto – un vuoto o pieno nella realtà, certe volte.
Appena finito Cronache di Gerusalemme, di Guy Delisle. Un fumetto semplice nella forma, umile nel proposito, ma molto pieno di spunti, nozioni, dettagli.
Mi piacciono i dettagli, mi piace chi nota una scritta su un braccio, un volto affilato e barbuto. Chi guarda ogni tanto i graffiti sui muri. Mi piace anche chi anziché dare lezioni di vita o di storia racconta le piccole cose, un mazzo di chiavi che cade nella fessura delle porte scorrevoli di un ascensore, il trovare sempre un museo chiuso, il rinunciare, talvolta, a ciò che si sarebbe voluto fare perché la quotidianità non lo consente proprio così come era stato immaginato. È dolce, il disegnatore disegnato, è dolce il suo sguardo mai giudicante sebbene attento.
Quindi mi piace, lo dichiaro senza alcuna autorità ma benvolentieri un reportage a fumetti ben riuscito, l'ho letto con entusiasmo per il tratto nitido e morbidamente squadrato e mille accuratezze verso il lettore... eppure. Qualcosa, qualcosa di inconsistente stona, una sensazione, un odore: la distanza. È un reportage a fumetti che racconta un anno di vita a Gerusalemme, il conflitto, i posti di blocco, i luoghi (tanti luoghi, tanti luoghi, e sempre un piccolo sé che li disegna nel disegno), le abitudini, lo shabbat, le pasque, tanto tutto... ma con una distanza, di certo propedeutica, di certo saggia necessaria. Purtroppo, per me pretenziosa, curiosa, impertinente – una distanza un briciolo spiacevole: una moglie fantasma, un'emotività appena accennata. Una sorta di abitudine al vivere e staccarsi nel modo meno doloroso possibile dai luoghi. Ecco, ci son riuscita a identificarlo, è questo il piccolo superficiale dispiacere che ho avuto nella lettura, il non affezionarsi dell'autore, il non dare e non prendere da un posto quel qualcosa in più; ma di certo faccio l'errore che sempre rimprovero agli altri, lo scambiare il racconto per la vita vera. Quindi chiudo qui, e nelle luci accese o spente leggo tutto il prezioso non detto.
p. 332, Cronache di Gerusalemme


mercoledì 27 giugno 2012

Holy Others - Asobi Seksu - Trails


Certi testi nascono nelle notti solitarie, certi testi sono solo frammenti di una lista -lunga e inutile- che escono con la canzone giusta, inevitabilmente impostata sul repeat.
  • Una notte ero stesa su una strada di villaggio, in un paese remoto della Bosnia. Era notte, era estate. Vicino a me c'era A. un'amica di sempre. Si guardava il cielo, forse a tratti si dormiva, parlavamo di libri di sicuro. Forse l'aria della notte era umida e fresca. Forse, nella prima casa dove sono stata nella quale bisognava togliersi le scarpe all'ingresso, qualcuno cantava o suonava la chitarra. Di certo qualcuno si dava la buonanotte, perché poi, rientrando piene dell'emozione del tempo insieme, del tempo sereno, del fresco come pausa al caldo isterico del giorno, abbiamo dovuto fare pianissimo per coricarci.
  • Nell'odiata città una notte andammo in bici. Ancora non sapevo andare senza mani. Le strade erano pulite e vuote, vuote, splendidamente vuote. Così vuote che la luna si rifletteva sul ciottolato. Io davanti, col cappotto leggero in pelle bordeaux, e i capelli che si strecciavano e ingarbugliavano e volavano. Lunghi, color luce. E vie contromano, e discorsi che non so più, e un vecchio noi fatto di gioco. E l'odiata città per un attimo era casa.
  • Il mare che fa rumore. Che è nero e giallo nelle notti di autunno. E che puzza e profuma insieme all'entrata della casa. Sul muretto che separa il cortile dalla spiaggia, punzecchiata da una pianta d'aloe prego che nessuno mi tocchi una spalla. Prego che il mondo resti immobile dov'è e mi lasci lì, a guardare il nero, a vedere pezzi di luna come vele all'orizzonte. Non voglio più parlare, né ascoltare. Non voglio fare l'amore, non voglio dormire con nessuno, non voglio essere come sono. È bello sentirlo a ogni onda avvicinarsi. È potente la sensazione di poter chiudere gli occhi e cancellare tutto. Scrivo un nome per ogni onda. Le spalle si fanno man mano più leggere.
    Anche oggi sono sopravvissuta a me stessa, penso soddisfatta.

martedì 26 giugno 2012

Un çai, mille çai, in attesa del corpo.

Un villaggio di donne in attesa, nelle stanze donne che piangono, che urlano, che pregano.
Il villaggio, quando un guerrigliero muore, si ferma.
Il villaggio, quando un guerrigliero muore, lo aspetta, chiuso nel dolore.

Donne nelle stanze piene di tappeti, i capelli nascosti, gli occhi gonfi. Le voci interrotte, ogni attività interrotta. Nel villaggio c'è tempo e spazio per il dolore. E il dolore è vissuto in ogni sua fibra. Lo si sente arrivare e lo si accoglie, mai da soli, mai da soli - come per ogni cosa. Nel villaggio il dolore è di tutti. E una mano stringe un altra mano, e una donna tiene salda nella realtà un'altra donna. E poi una carezza sul capo appoggiato alla spalla. E un çai, mille çai, in attesa del corpo.

mercoledì 13 giugno 2012

Apo // _____appunti 1#


Il materasso è appoggiato per terra, perpendicolare rispetto ai due letti.
Sul materasso giocano un bambino e una ragazzetta, sono fratello e sorella, lei avrà una decina d'anni, lui quattro circa.
Lei con le dita compone dei numeri, lui li deve dire. Loro parlano turco, il curdo lo capiscono, i genitori parlano curdo e turco, a Istanbul anche chi vuole parlare curdo parla turco.
Parte la ragazza con la mano aperta e lo guarda con aria di sfida.
Beş, cinque.
Aggiunge un pollice e un indice dell'altra mano.
Yedi, sette.
Toglie quattro dita.
Dört, quattro. (l'errore non viene colto, passa inosservato)
Apre entrambe le mani.
Attimo di silenzio e conteggio interiore... On! (dieci)
Güzel, bravo!
Poi mette indice e medio a mo' di V di Vittoria e lo guarda furba, Adesso ti frego sembra sottintendere.
Il bambino la guarda e risponde veloce: Iki, due.
Lei alza gli occhi, schiocca la lingua e ridendo sotto i baffi gli dice: Yok, Apo!
foto presa in prestito da FB.

domenica 10 giugno 2012

Il momento giusto

Parte il muezzin, le acque del Tigri cambiano colore a ogni cambio di luce, nel giorno sono marroni o verdi, al crepuscolo sono glauche come gli occhi dei saggi, la notte sono nere e sembrano feroci.
Parte il muezzin ma è giorno, le acque sono chiare e fresche, si è fatto un picnic sulle sponde, una coperta, bottiglie d'acqua per fare il cai bollendola su un falò, qualche pomodoro e cetriolo, un po' di carne del giorno prima. stendiamo la coperta sulla sabbietta, sotto un gelso di more dolcissime, cadenti e fin troppo mature. Il bambino va a pesca di granchi, chi gioca con l'acqua, chi prepara il tè sotto la calura, chi legge o chiacchiera. I vicini di albero ci donano una pentola di bulgur, qui funziona così, sorprendentemente, si condivide il cibo con tutti. ricambiamo con delle prugne verdi e acide, erik.
Mangiamo, fumiamo, riposiamo. Poi, all'improvviso Lui ci saluta, sta partendo. Il sole è a metà nel cielo, sembra un pomeriggio come un altro, sembra che niente debba finire e lui parte dal bambinuzzo pescatore e uno a uno ci saluta. Era qui da due giorni, un qui discutibile, perché l'amore doveva esser già finito qualche mese fa, ma anche lei era felice che fosse qui, per chiarire e parlare ancora, per essere vicini e salutarsi...
Ci saluta e vien da piangere anche me, ché è una persona bella, ché leggo negli occhi cose buone, ché indirettamente è parte della mia vita già da qualche anno.
Lui è sul ponte, in alto, sopra il Tigri che veloce spinge a sud; lei è sotto, a bordo del fiume. Piangono entrambi, soprattutto dentro, ma un po' anche fuori, si mordono il labbro, rughe sul mento. Si struggono perché finisce un amore, proprio adesso. Si pone l'etichetta fine. Provano un sentimento amplificato, di un amore che c'è ma non può compiersi, perché non è tempo, diranno tra sé e sé.
Lui guarda giù, la maglia a righe verdi e nere, un po' di pancetta nonostante l'età giovane; ha la pelle scura, gli occhi cioccolato, le sopracciglia che quasi si uniscono, lo sguardo buono; fa un cenno di saluto, il cuore pesantissimo.
Lei è giù, ventosa, azzurra, bianca, i capelli volano ricci e biondi, è piena di energie. Gli occhi sono rossi per il dispiacere. Forte è la convinzione di star seguendo il proprio destino. Forte è la fatica del seguire questa scelta mille volte rimandata.
C'è un filo che li unisce, che dal ponte va al fiume, lo vedo persino io, sono sguardi e sentimenti, è la totalità simbolica di qualcosa che si allontana e s'allenta fino forse a spezzarsi, appena finisce il ponte, appena in tempo -cinica aggiungerei.
Lui vorrebbe fermarsi, correre indietro, rifare il ponte, scendere per la strada di ghiaino e sabbia e more succose, vorrebbe raggiungerla sulle rive e abbracciarla, e prometterle di diventare tutto quello che lei vuole. Forse anche lei per un attimo teorico vorrebbe adesso che si fermasse, che tornasse in dietro, di sotto, che l'abbracciasse, e diventasse esattamente chi lei vuole. Ma se tornasse, se si fermasse, voltasse, scendesse... il sentimento si ghiaccerebbe in un solo istante. Lui diventerebbe un macigno, il peso di una persona che non la lascia andare. Se lui rimanesse, adesso, il distacco struggente di un amore passato diventerebbe l'incubo delle nuove spiegazioni di un infinito lasciarsi.
Ecco, lo sanno entrambi, anche per questo il filo si tende e l'amore rimane sospeso nell'aria, con tutta la sua forza e la sua dignità. E infatti si salutano con le lacrime agli occhi, e lasciano intatto il sentimento passato, la verità di un amore che è stato.

venerdì 1 giugno 2012

ıl vıllaggıo Parte 1/prıme due persone

1 La mamma da cui vivo è minuta e fiera. Porta vestiti di velluto pesante, il capo coperto di stoffa. Ogni risvolto del vestito brilla color argento. Nel villaggio le donne sono più eleganti che in città, hanno abiti preziosi, vivono in case dai tappeti morbidi e dalle lenzuola di seta. La madre da cui vivo è seconda moglie. I figli sono tredici, solo tre ultimi suoi, la prima moglie è morta. La mamma da cui vivo è piccola e tutta d'un pezzo. Cammina senza oscillare, passo dopo passo un po' come scivolano le giapponesi, le spalle e la schiena diritti, lo sguardo fiero. La mamma mi ha presa sotto la sua ala, mi vuole bene e me lo fa capire ogni volta che puö. Con tuttı e' severa, con me e' molto dolce. Ierı con ago e fılo mı ha fatto un buco all'orecchıo. Il fılo e' lılla e dı cotone grosso. Mentre lo faceva soffıava nel padıglıone, l'ago scorreva nella pelle, ıl filo scorreva tra le cartilagini. Come un'iniziazione, un rito.
2 İl migliore amico dell'innamorato della migliore amica è bello. Ha un corpo ben disegnato, un sorriso furbo, un colore arrogante. Ha la barba, i capelli neri, la pelle scura, le braccia muscolose di vita. Ha gli occhi che solo al sole sembran curcuma, le ciglia lunghe. È un combina guai, di quelle persone che a volte senza volerlo sono goffe e rompono le cose, scivolano inaspettatamente, si cacciano in situazioni improbabili, la stessa categoria di persone però che ne ride, che si fa una risata sull'errore. Lo conosco così, insieme combiniamo un guaio, piccolo; insieme ne ridiamo di gusto. Siamo sulla riva del fiume, il fiume va guadato, non si posson togliere le scarpe (il perché è ignoto), le pietre su cui saltare sono di certo troppo scivolose e rade. La migliore amica attraversa a cavallo, l'amico dell'innamorato della migliore amica riesce a saltare e mi guarda, accetto subito con lo sguardo di saltare come lui ha fatto. Mi tolgo la borsa di stoffa blu, ne allaccio i manici e mi preparo a lanciarla. La tiro in alto, con un largo margine sul fiume, lui alza le braccia per prenderla spingendola per sbaglio nel fiume. La borsa cade e il blu si fa nero, la borsa scivola e lui pronto s'abbassa s'allunga si sporge, la ferma la prende. Ridiamo, come due pazzi sulle due rive del fiume ridiamo di gusto.

E se dovessı morıre quı? (appuntı dı un gıorno dıffıcıle)

E se dovessi morire qui? E se dovessi morire qui, schiacciata da un cavallo alla fine di un giorno difficile e di una bellissima passeggiata in montagna? O forse cadendo da un dirupo, o sbattendo la testa su una pietra. Se dovessi morire qui dovrebbero trasportarmi fino al villaggio e da lì trovare una macchina e portarmi boh, in ospedale? Si riportano in patria i morti? Dove si mettono? Forse mi lascerebbero al villaggio e qualcuno andrebbe per la strada finché il telefono non prende e da lì avviserebbe la famiglia, e la famiglia forse lo direbbe a Diego, Anna dovrebbe avere il numero. Non è la caduta ad avermi colpito, è quello che ho visto cadendo. Ho visto sopra di me un cavallo e una persona, l'ho quasi sentito perdere l'onda così come l'ho persa io, aggrappandomi a lui e trascinandomelo dietro. E non ho avuto la prontezza di spostarmi, neanche un po'. È stato come un prepararmi al peggio. Due fragili braccia a coprire il viso, gli occhi che spiano nella croce. E ho pensato: No, non voglio morire in un villaggio del Kurdistan, non voglio morire qui, senza D, senza A, senza famiglia. Non voglio morir così, schiacciata da un cavallo. Non son pronta, niente è pronto a che io muoia. E infatti son qui, a provare a dire quello che ho capito. Ho capito che se uno vuole vivere almeno un po' deve stare attento, e avere rispetto di sé, e non buttarsi nelle mani di chi non ha idea di quali siano i suoı limiti. È stata una giornata lunga e difficile, in molti momenti ho creduto di morire, questo però è stato forte, e quel fianco destro di cavallo lo vedo ancora oscillarmi davanti, con C appesa. Ho avuto paura e se ci penso lo sento nella pancia, proprio lì dove sarebbe atterrato, sento una fitta di spavento, una fitta di come è facile non esserci più. Sono stanca e tutto il corpo è rivestito di freddo e di dolore, la pelle è bruciata dal sole e la schiena è lì che accoglie la botta della caduta, e il gomito sanguina, e le caviglie fanno male. Penso che se sopravvivo a cinque giorni così sarò pronta per tante cose. Penso di voler sopravvivere qui con tutte le mie forze. Non so se oggi ho dimostrato la mia forza o la mia debolezza, non lo so nemmeno nei confronti di me stessa.

giovedì 17 maggio 2012

Il Trentino è sfacciatamente rigoglioso in questi giorni.

Il Trentino è sfacciatamente rigoglioso in questi giorni. Ne pedalo il lungofiume, fronde di lussuria intensa, il masso dell'acqua che spinge verso sud. I rami nascosti nel verde succoso, le montagne non più azzurre, la roccia è ormai solo scheletro invisibile. Arrogante il vento freddo sconfigge il caldo sole, smuove i pollini, sfida le foglie ben appese. Il Trentino è pieno in questi giorni, come chiedesse di essere munto. Pedalo o cammino, la giacca ben chiusa, l'aria però entra lo stesso nella testa. Mi preparo all'arsura. Riempio di verde gli occhi prima di partire, respiro a fondo l'ultimo freddo di stagione. Lo zaino è ancora perduto nella stanza, i vestiti puliti e sporchi insieme chissà dove. La partenza sembra lontana, la partenza sembra a ridosso. Mi preparo alla sospensione, al Tigri che scorre glauco, ai papaveri sulle montagne di confine, a una lotta ancora sconosciuta, persino a qualche nostalgia.

giovedì 10 maggio 2012

Lista

- Parto, a breve, per Hakkari e dintorni. Forse dormo sui letti giganti che stanno sui tetti.
- Ieri sera dormivo sul divanetto della sala di registrazione, la testa appoggiata sul cuscino rosso. Sognavo mia sorella. Prima di dormire camminavo nella città, non sentivo nessun freddo. Prima di camminare pensavo alla disperazione. Come si fa, mi chiedevo, a cantare con la disperazione nella voce senza sentirla dentro per davvero. Perché qualcuno può? è solo un timbro di voce? è tanta la disperazione che trapassa in tutto, anche in quello che non nasce dentro? è finzione?
- Oggi i treni hanno avuto un forte ritardo, e tutta la giornata è stata una corsa sotto il sole. Un arrivare sempre un minuto dopo. E adesso che sono così stanca gli occhi non si chiudono più.
- Il desiderio qualche giorno fa è riaffiorato potente. Così, di colpo. Un pacchetto sul tavolo della pizzeria. Lo guardavo, volevo proprio proprio farmi una sigaretta, e fumarla. E allo stesso tempo non volevo cedere, non volevo riprendere a fumare. E alla fine l'ho fatta, l'ho accesa e ne ho fumati tre tiri.
- Ho tagliato il prato, un giorno recente. Non l'ho tagliato tutto, perché non c'era tempo, ne ho tagliata solo la metà sotto il sole, quella più alta e umida. E le scarpette erano verdi, e l'odore era forte, e la sacca si riempiva ogni due metri. Ma la cosa bella, la più bella per davvero, era l'ordine. Procedere ad angoli retti e lunghezze diverse, rispettare l'ortogonale ma creare incastri. E l'erba tagliata faceva da contorno a cento aree speciali. File più alte e file più basse, e voler riempire di chiaro ogni rettangolo, solo seguendo l'ordine gerarchico della testa.
- E poi , dove tutto sembrava storto, ma eravamo sempre noi. Dove il dentro usciva violento. Dove il freddo e l'umido non davano tregua, dove le stanze si rimpicciolivano o si riempivano, e per noi, per noi, per noi, sembrava non esserci abbastanza tempo, abbastanza spazio. dove la fronte sembrava uno straccio sgualcito, dove piccoli momenti di tregua sembravano attimi di paradiso, dove un raggio si sole nel giallo faceva subito intimità, dove l'uomo nero era sempre in agguato.
- E infine i libri. I libri potenti abbastanza da confondere le carte in tavola e le immagini nella testa. Libri così visionari e duri e trasversali da cullare nell'incubo, da portar via. Le parole abituali non hanno valore a certi livelli profondi dell’anima. Cerco di definire esattamente le mie crisi e non trovo che immagini.

giovedì 12 aprile 2012


Lui parlava e parlava e lei lo ascoltava. Seduti vicini difronte a me. Adulti, sulla soglia tra l'essere adulti e l'essere vecchi. Lui parlava di libri e lei gli carezzava il braccio destro con entrambe le mani. Lui raccontava una trama e lei gli passava la destra sulla gamba accavallata. Lei bella, capelli castani, occhi di miele, carnagione scura, unghie lucide e cortine, una borsa a bauletto. Lui capelli bianchi e voce sottovoce, vestito con pantaloni a costine verdi. Amanti, entrambi più me, di Marai. Poi frugo nella borsa e cerco un fazzoletto, e nello stesso istante anche lei, mi da la precedenza per soffiarmi il naso, come se non lo si potesse fare in contemporanea. Poi a mezza voce sorridendo: Si è proprio tutti raffreddati. -È così, dico, ché stavolta voglio parlare che Marai mi piace, che domani c'è la festa e i treno ci porta nella stessa direzione, che magari conoscete i nostri libri...

lunedì 9 aprile 2012

Tatjana, appunti sull'altrove vicino


Tatjana ha la mia età, forse un anno in più, una giovane di una trentina d'anni. È aperta e solare, parla male l'italiano. Ci incontriamo in treno, in uno di quei giorni in cui l'altrove fa irruzione in casa, nel quotidiano e soffia su braci perenni. Tatjana si siede sul gruppo di sedili della sinistra, io siedo sul gruppo a destra. È buio fuori, T. mi guarda, chiede l'ora, saranno le nove poco prima forse. Si guarda intorno, torno al mio libro.
Non ho il biglietto, esclama ad alta voce.
La guardo, testa tra le spalle: Il controllore è già passato, magari non succede niente.
Dove scendi? Chiede con voce squillante.
Pioltello rispondo, e lei: anch'io.
Si alza e si siede al mio fianco, quasi sulla mia borsa se non mi sbrigo a spostarla. Cosa vuole, mi chiedo nella testa, il treno è quasi vuoto, io sto leggendo, mi parla, mi si siede a fianco, non ha il biglietto, e tra le mani rovinate qualche sacchetto di plastica. Da qui almeno vedo se arriva, risponde un attimo dopo quasi capendo il mio silenzio. Provo a rilanciarmi nel libro, scritto da un giovane cinese nostro coetaneo, che ha nome e cognome uguali. Ne ho lette un centinaio di pagine, sono a un quarto, e ancora non so se mi piace o non mi piace, sembra descrivere le contraddizioni di una cultura che richiede ambizione e dedizione ma non lascia spazio affinché tali qualità giungano a tempo debito, le pretende; ma ci sono così tanti riferimenti a opere di cinese classico o a giochi di parole complessi che lo trovo difficile, soprattutto oggi che il treno mi porta nella triste periferia milanese, oggi che ogni tre per due mi chiedo che c...o sto facendo, se la direzione di questi anni è quella giusta, bla bla. Così metto il biglietto a segnalibro, mi appoggio quasi al vetro con la testa, guardo Tatjana e le chiedo di dov'è. Romania mi risponde, Romania dove chiedo un po' insolente, ma mi sembra che voglia parlare.
Craiova, conosci? Conosci la Romania?
Solo dai libri, rispondo, solo da certi autori, solo infanzie libere e piene di nonni, e meloni nei campi, e se non oggi domani, e fughe di famiglie, e credenze popolari.
Mi guarda strano. - Vivo nel campo, tu di dove sei?
Trento, c'è un campo a Pioltello?
Sì, vicino, adesso scendo e poi al secondo binario c'è un altro treno, una fermata e subito son al campo.
E com'è il campo, fatto di tende o con roulotte?
Ci sono tende e roulotte e case in lamiera. Adesso inizia a non essere più freddo, ma qualche settimana fa... e le braccia s'abbracciano e il collo sparisce col gesto, poi torna su. Le unghie sono corte e un po' sporche, la pelle è scura ma non troppo, ha una maglia rosa, dei jeans, scarpe da ginnastica, capelli raccolti e un po' ribelli, occhi cioccolato, lineamenti piacevoli. Ci guardiamo riflesse nel finestrino, proviamo a capire quanto manca a Pioltello, la stazione più triste del mondo. Siamo stanche. Siamo stanche e siamo donne e abbiamo una trentina d'anni e sediamo vicine nello stesso treno e ho come la sensazione che non abbiamo niente da perdere.
Sei sposata? Mi chiede.
No no rispondo quasi spaventata, e tu quando ti sei sposata?
Avevo sedici anni, ma perché tu no, sei bella, non vuoi?
No, forse non voglio, mi va bene così, però sono innamorata.
E lavori?
Sì, lavoro e studio un po'. Tu?
Io passo sul treno e lascio i biglietti e faccio l'elemosina, un giorno io un giorno mio marito. È faticoso, e poi non spendo i soldi per il biglietto e ho paura che ci sia il controllore. Oggi è tardi, di solito ritorno un po' prima, così chiamo mio fratello dal telefono degli africani.
Ah, intendi dalle stanze di computer e telefoni;
Sì, ma chiude alle nove e mezza e mi sa che non riesco. Posso chiamare dal tuo telefono?
In Romania?
Sì, ma faccio presto.
È proprio urgente?
No, non è urgente.
Se non è urgente allora preferisco di no, ho dentro solo qualche euro. Quanti anni hai? le chiedo. Trentuno, tu? Trenta. Ci sorridiamo.
Hai bambini?
Ho tre bambini, due maschi di otto e cinque anni e una bambina di tre. Tu hai bambini? Rispondo di no, mi guarda quasi triste. Ma i tuoi bambini adesso dove sono? Al campo, con mio marito, lavoriamo un giorno io un giorno lui.
E riesci a guadagnare qualcosa?
Mah, soldi mica tanti, ma a volte qualche oggetto o un po' d'elemosina, oggi una signora mi ha dato questa. E dicendolo apre una delle de borse e spunta una maglietta viola imperlinata di dubbio gusto. Un po' sorrido un po' cerco di capire se la maglietta le piace o no, e lei anche sorride e prova a capire la stessa cosa. E di colpo siamo io e Tatjana. Due coetanee che si trovano a parlare delle cose di ogni giorno, che nonostante le vite diverse del tutto tuttissimo diverse... non so, non la so finire sta frase, ma è qualcosa di forte, di strabiliante.
E i capelli, li tieni sempre corti? Mi chiede vedendomi sistemare la molletta. No, fino a qualche anno fa erano molto lunghi, poi avevo voglia di cambiare. E tu?
Io li tengo lunghi, ma qui li ho sempre legati, ché in treno e in campo si sporcano, ma in Romania li tengo sciolti. Torniamo la settimana prossima lì, per Pasqua.
Ti manca?
Mah, magari certe cose, ma lì non c'è lavoro non c'è niente.
Beh ma neanche chiedere i soldi in treno è proprio un lavoro, non riuscite né tu né tuo marito a trovare niente in giro?
No, ha guardato, ho cercato ma niente, almeno qualcosa alla fine qui c'è.
Ma i bambini vanno a scuola? In Romania sì, qui no, ma torniamo spesso in Romania.
E come tornate? In macchina, c'è un autista che paghiamo e torniamo sempre in macchina. E vorrei chiedere di più, sulle tariffe, sulle cose. Invece chiedo se secondo lei i pargoli saranno già a dormire quando arriverà. Lo sguardo si fa stanco, spero di sì risponde, sono un po' preoccupata perché Marja ieri non stava bene, per quello oggi è rimasto mio marito, così se qualcosa non va la porta dalla zia. Lascio cadere il discorso, chi sia la zia e perché lei non la possa portare dalla zia sono cose personali, immagino faccia parte delle dinamiche famigliari. Anche io ne ho di strampalate di dinamiche, e poi il treno sta ripartendo, la penultima fermata è passata, T. riprede a respirare, sorride, adesso anche se lo vediamo e mi butta giù sono arrivata, le sorrido anch'io, e mi chiedo se magari le possa dare un passaggio in macchina al campo, cosa possa regalarle di mio, a vestiti mi sa che vado peggio della maglietta perlinata. Ci spostiamo verso l'inizio del treno, siamo nei vagoni finali. Mi chiede se abbia la valigia pesante, dico no, parto precedendola, apro porte attraverso corridoi, lei dietro fa pressione per fare più veloci, al mio non riuscire ad aprire fa leva con forza, prende la mia valigia e dice: sì che è pesante, e me la toglie di mano e va avanti rapida, e apre porte e chiude porte, e a un certo punto le dico che forse siamo abbastanza avanti, e ci fermiamo. A Pioltello dove vai? Mi chiede, dormi lì? No no, è una fermata presso cui il mio compagno può venire a prendermi, per quello scendo lì, poi andiamo a casa. E a dire casa penso che va al campo. E m'immagino un fuoco e gente attorno a darle in benvenuto, non voglio pensare che stia andando al freddo mezzo all'aperto, la bambina malata. Apro la valigia e prendo una crema da viso e le do la crema profumata per la piccola Marja e l'annusa e dice mmmm. E mi ringrazia, e quasi siamo a Pioltello. E parliamo di pelle, della pelle chiara e del vento e dell'inquinamento e della pelle un po' più scura segnata dal sole. Ma Marja ha la pelle chiara e la crema andrà bene. E me la immagino Marja che la mette con le dita sporchine, sta crema profumata. E intanto la voce metallica avvisa che ci siamo, e ci avviamo alle porte e scendiamo, e parallele ci avviamo alle scalette del binario e vedo il mio compagno che aspetta e lo raggiungo e quando quasi ci siamo le dico Tatjana, è stato bello questo pezzo di viaggio, papa, noapte bună, che son parole che m'aveva insegnato prima, e sorride e mi dice, è lui? E io sì, e li presento, e poi ci salutiamo, e dico al mio compagno che quella è Tatjana, e lui mi chiede se ci siamo incontrate per caso e rispondo che sì, ci siam conosciute per caso e che vive nel campo. E saliamo in macchina e la sera è già notte e sono stanchissima ed emozionata, e ho così tanta voglia di un fuoco all'aperto, come quel giorno prima di salire al monte, quel fuoco imbastito all'ultimo con più benzina che legna, ai piedi del Nemrut.

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Al campo qualche giorno fa c'è stato un importante incendio;
mi rincuora sapere che in questa Pasqua Tatjan e famiglia sono in Romania.

venerdì 30 marzo 2012

in treno fine marzo, appunti di un viaggio nello spazio tempo

È alto. Ha la carnagione scura, ha la barba non troppo lunga, ben pettinata. Porta una veste gessata che arriva fino alle ginocchia e ne sottolinea le linee asciutte, sotto pantaloni fino ai piedi completano l'abito. Ha un copricapo a cilindro, orientale. Ha le mani molto grandi, è disperato. Siede di fronte a me, scuote la testa e con la destra si tocca continuamente la fronte, il punto medio tra le sopracciglia. A Peschiera con un italiano stentato mi chiede se siamo a Desenzano. Passa il controllore, guarda il mio biglietto, si rivolge all'uomo e gli dice: “ancora qui?” con rammarico e fastidio insieme. L'uomo seduto s'aggrappa in tutta la sua altezza alle parole, vi si aggrappa con gli occhi, con le mani e con le unghie, e prova ad alzarsi oltre il pensiero, a dire un problema, a comunicare un'urgenza una necessità vitale... con quelle cento mille parole d'italiano che conosce, troppo poche. Non riesce, s'interrompe scoraggiato. E vorrei leggergli il pensiero e suggerirgli come dirlo. Il controllore allora parte in quarta: “non ho trovato la tua valigia, questo treno l'ho portato io da Milano alle 16 e venti, è persino partito in ritardo...” e l'uomo “...in ritardo” e mette sta parola nel sacco delle centoun parole. Continua il controllore “una volta arrivati a Verona ho controllato le ultime tre carrozze e ho chiesto ai pulitori di controllare pulendo il resto del treno, e non han trovato niente. E oggi anche un ragazzo ha dimenticato il giubbino, - e il nostro uomo aggiunge giubbino -  e un altro la borsa dello sport, ma insomma anche voi dovete tenervi le vostre cose, e comunque cosa centrano le ferrovie, basta che passi uno e si prenda quello che trova...” e l'uomo aggrotta le sopracciglia, e la mano sulla fronte e lo sguardo affranto, ma forse anche un po' di paura negli occhi, di averla fatta grossa, di non sapere più che fare. E il controllore parla con la signora sui sedili a sinistra, che intanto chiede cos'è successo, e che quando il controllore continua nel controllo guarda l'uomo con dolcezza, e gli dice: “deve rivolgersi alla polizia ferroviaria” e l'omone esausto la guarda e guarda a a terra e ripete “polizia”. E penso che di certo non ha capito cosa la signora intendesse dirgli, e che s trattava di un buon consiglio. E vorrei dirglielo io, spiegargli, ma mi sembra così stanco che se aggiungo una parola crolla, che quel sacco per oggi è pieno. Si alza, si siede, si alza, si siede, tocca quasi con la testa sui poggia valigia. Rallenta il treno, guardo l'uomo e gli dico: “siamo a Desenzano”, “grazie” mi risponde stanco, e la sua zeta somiglia a una esse, e spero che non ci fosse niente di tanto importante in quelle valigie.

lunedì 26 marzo 2012

La stupidera dell'extraterrestre

A volte ci penso, alla gioia estrema e ingiustificata.
l'ultima volta che l'ho vista non è stato dal vivo, è stato al cinema.
forse il momento più bello di un film che non mi ha detto né dato tanto quanto credevo.
si tratta dell'ultimo terrestre, e il momento delle gioia, quello che ancora mi smuove qualcosa nella pancia quando ci penso, è il momento in cui l'aliena, che frequenta il padre del protagonista, gioca col cane e col padrone del cane.
l'uomo tira un bastone, e lei e il cane lo rincorrono, e il cane lo prende e lei gira su se stessa, alza la testa e  guarda il cielo ad occhi chiusi, alza le mani e sembra dalla gioia alzare tutto il corpo.
una gioia ingiustificata, una gioia animale polemizzerei se fossi in vena, ma non lo sono, mi piace pensarla come la gioia disumana, la stupidera extraterrestre.
spero di trovare presto un piccolo video, spero di aver presto sotto mano questo fregolio estraneo e sufficiente (e qui si capisce quanto basti poco) a ribaltar gli umori, almeno qualche volta.

lunedì 19 marzo 2012

auguri papà!


Mai andato a udienze, mai forse nemmeno assistito a una recita delle medie, o forse sì, non lo so perché mai ho ritenuto una recita delle medie o le udienze una parte basilare dell'essere papà, mio papà. Anzi mi è sempre sembrato un assurdità che un papà fosse “bravo” se corregge i compiti e assente se mettersi sui quaderni non gli piace.
Il mio papà non è uno da udienze, e non è neanche uno da spettacolo il pomeriggio, perché il pomeriggio lavora, da sempre (e con rammarico già temo per sempre, visto l'andazzo sociale). Il mio papà non è uno da coccole o da ti voglio bene, è uno da liti durante la cena, da riparare la macchina o la caldaia o recuperarmi nel bel mezzo del niente o da occuparsi di revisioni e assicurazioni e riparazioni e imbiancamento e organizzazione del mondo secondo uno stile passato, codificato e che sempre funziona. Il mio papà brontola sempre, dà pizzicotti e fa la lotta per giocare, dice le preghiere e crede in Dio, e ci crede per davvero. Il mio papà ha i denti storti e il sorriso più sincero che io conosca. Ha gli occhi azzurri e i capelli scuri, ha nei deliziosi sulle braccia abbronzate da guidatore e quasi niente peli su quelle stesse braccia. Il mio papà dorme senza pigiama, soffre il freddo e il mal di schiena, ama la liquirizia e il legno. Il mio papà, se lo chiamo per dirgli che gli voglio bene, risponde spaventato convinto che abbia fatto un incidente, perchè lo sa che gli voglio bene, e non ha bisogno di sentirselo dire al telefono. Guida lento e preciso ogni mezzo gli capiti tra le mani, è paziente e dimesso quasi sempre, certi giorni di malumore è il più insopportabile del mondo, ottuso stanco e chiuso. Il mio papà ha occhiali dalla montatura gialla a volte rossa. A volte con la testa appoggiata sulla mano sembra avere sulle spalle tutto il peso del mondo. Il mio papà certi giorni ha la stupidera, la domenica guarda mela verde, colleziona radio d'epoca e vecchie cartoline, va a dormire presto, è metodico, ha paura dei pericoli, vede il pericolo negli oggetti, nelle cose, nelle azioni.
Il mio papà ha i denti storti e il sorriso più vero che io conosca.
L'ho già scritto, lo so, ma questa frase vale tutto il pezzo, forse tutto il blog... :)

venerdì 16 marzo 2012

Oggi è morto il cane bello (appunti di ieri)


Oggi è morto il cane bello! Entra fin troppo turbata una donna bionda con la ricrescita dimenticata. Gli occhi spalancati, chiede del prete, il proprietario. Il prete siede nella sala fumatori, con la moglie, una donnona bionda e attaccata al denaro. Appena vede la turbata viene nella nostra sala, guarda il barista con cui sto parlando e dice: fai un drink a Magda, hanno chiuso il bel cane. La bionda s'avvicina a dove siedo e prende anch'essa uno sgabello, puzza di alcol, il trucco è sbavato, la pelle segnata dal tempo, il rossetto è troppo rosa e la giacca è di un troppo bianco già grigio. Mi guarda, Oggi è morto il bel cane. Mi dispiace dico imbarazzata, quasi pronta a chiederle come si chiamasse, se fosse ammalato. Il barista posa whisky cola sul banco, e torna a parlarmi. La donna c'interrompe e biascica di stelle e chiede alcune canzoni specifiche, Piotr paziente entra nella sala controllo, nonché cucina e magazzino, e mette nella playlist le canzoni che ha chiesto. La raggiunge un'amica, la abbraccia e le chiede cosa sia successo. La bionda ripete la frase di rito, l'altra prova a consolarla, poi ordina una birra e ci rinuncia: In questo stato non ti si può parlare. Piotr mi guarda, Andiamo a fumare? Piotr sa che non fumo, ma ai non fumatori non è vietato stare nelle stanze fumatori, tanto per chiacchierare. Andiamo a fumare. Siedo sullo sgabello, il posacenere su un ginocchio, si parla di Kantor, no, forse no, forse si parla del centro della Polonia, la Polonia ha un centro geometrico, e lì svetta un monumento. Una statua, forse fatta da sfere, giace sull'epicentro della Polonia. Poi di colpo mi dice: Stara cipa, (vale la pena non tradurlo, ndt) un'ubriacona che dice di essere la star del Bel cane, il locale nella Slawkowska, e ne fa una scena del genere. Il dito indice si tocca la tempia. Arriccio le spalle, Ognuno ha il suo sentimento. Ma con al testa son già lontana. Perché una vita fa ci sono stata, al Bel cane, era un giorno di festa, non ricordo se san Valentino o la festa della donna, una ricorrenza comunque, e a lungo aspettai nel locale quello che poi sarebbe stato un mio compagno, e lui si presentò con dei fiori, vestito tutto elegante, e io pensai, Dio no - e i fiori e una camicia!. 
Ma la testa va ancora più lontana, perché essere la star di un bar è una sconfitta a priori, e io la immagino, con la scollatura generosa, i jeans stretti che finiscono a ridosso di zeppe rosate, e i capelli sempre un po' sporchi, che con la ricrescita sembrano sporchi anche quando son puliti, e che alle prime note delle solite canzoni si agita e ballicchia tra una birra e altre cento birre. Che ammicca coi giovani inglesi che han letto su qualche guida della vita notturna che è un posto figo. Che saluta come fratelli i pazienti bodyguard straziati da ciò che vedono ogni notte. Che si pulisce le unghie con lo stuzzicadenti che tratteneva la kanapka. 
Torniamo al banco, ognuno coi suoi pensieri, apriamo la grande finestra anche se fa freddo, è solo mezzogiorno. Un qualunque mezzogiorno a est.

giovedì 15 marzo 2012

La classe - appunti


oriente
la mano davanti alla bocca a ogni sorriso, la testa che da sotto guarda in su d'abitudine,
il nero dei capelli non è corvino, è castagno, è noce. E sotto la luce, sotto qualunque luce s'accende di chiaro.
Le matite sono a mina, gli astucci dei bottoncini, i corpi sono linee, fossette come gioielli sui tondi tondissimi del viso.

Ucraina
il seno è a punta, la voce affilata e auta, i glutei alti, i vestiti: da mercato, troppo stretti, improbabili, il naso trafigge, i capelli tirati nell'alta coda, l'essere donna: finalizzato alla stabilità domestica.

Amazzonia
la voce si espande forte, il sorriso è grande, il corpo ha un'energia pericolosa, gli occhi sono vispi. La forza è l'elemento chiave, tutto, un po' arrogante dice: qui non c'è nient che possa spaventarmi, non sai dove sono cresciuta.

Russia, la grande russia
1- capelli biondi media lunghezza, occhi vitrei, voce profonda e decisa, che comunica e non chiede. Gentilezza, franchezza, nessun fine secondo.
2 - Programma fitto il tempo è poco. Evidente superiorità nelle conoscenze, nella perspicacia. Viso dolce, tondeggiante, colori caldi, labbra lisce, una treccia raccoglie i capelli e fa il giro della testa.

Ungheria
come tutti i ragazzi ungheresi, bruttino, alto alto, capelli castani, pelle chiara, brufoli, gentile, una gobba sul naso.

Grecia
voce impercettibile, come la cantilena di una vecchia. Distacco potente, epidermico, reciproco. Lentezza.

domenica 11 marzo 2012

Domenica sera in periferia


Tutta la colonna C è accesa, di certo corrisponde alle cucine. Una cucina sotto l'altra, impilate come tazzine. La scuola di fronte è spenta da due giorni. Il lampione davanti ha la luce arancio, quello un po' dietro ha una luce rosa. La colonna A con balcone è intermittentecome le insegne dei film e le lucette comprate ai cinesi. Solamente quelli del quinto piano fanno festa. Gli altri, e io, e il covo di formiche dalle belle speranze, aspetta.
La domenica sera, in periferia, si aspetta il lunedì pur non volendolo. Si aspetta di andare al lavoro per non rimanere col proprio miserabile tempo. Per non continuare ad aspettare. Due persone sulla strada camminano veloci, anche stanotte ghiaccerà. Il cane al piano di sotto abbaia al loro passaggio. Lo fa ogni volta.
Nella periferia vive la gente della città che non vive in città, in uno dei cento grandi palazzi, su uno dei quindici piani, in uno dei sedici appartamenti per piano. Chi vive nella periferia non sa come si chiama il cane della signora del piano di sotto. Non sa chi siano i bambini che parcheggiano sempre le bici sul cancelletto che dà sui bidoni. Non sa che Piotr del VI-A domani ha un esame, e che la lucetta arancio che esce dalla finestra è l'abatjour che gli ha regalato Ania. Non sa che nel grande palazzo c'è un'italiana qui a casaccio alcune settimane per studiare. Non sa che la signora che fruga nei bidoni vive al terzo piano del IX-C, che soffre di artrite, che suo marito è cieco, che i figli forse sono via, forse sono via. 
Chi vive nella periferia sa che la domenica sera è straziante. Sa che c'è una luce di un nero mai totale, del nero sbiadito di certe vecchie maglie, lavate troppo, lavate nel modo sbagliato. Lavate nel modo sbagliato.
Chi vive in periferia forse, la domenica sera, si stordisce di televisione alcol noia lavori inutili. Chi una fredda domenica sera si trova a casa da solo sbrina il freezer pur di non lasciarsi svenire, pur di non dover ammettere che allora è proprio tutto qui. Proprio tutto qui. Tutto un riempire il tempo. Il lavoro o lo studio per passare le giornate, le persone per non restare soli, cucinare dipingere lavare la macchina aspirare casa passeggiare leggere comprare scegliere i vestiti e limarsi le unghie e. Tutta una grande costruzione per riempire un tempo fatto per essere riempito.
E la domenica sera il meccanismo s'inceppa, la domenica sera è vuota, non fatta per essere riempita. E la periferia s'addormenta una stanza alla volta, e invoca il sonno, e invoca il lunedì.

martedì 6 marzo 2012

Zgubiona

http://www.drozdz.art.pl/
Mi sono seduta sulla M. Faceva freddo e il nero su bianco confondeva gli occhi come in certi giorni che non si può correggere, che le lettere si mischiano, che le parole sono una linea. Essere dentro la pagina, essere dentro la parola. Simboli. Simboli diversi da lingua a lingua. Interi sistemi costruiti nero su bianco. Interi sistemi di simboli bidimensionali artificiali codificati potentissimi.
Mi sono seduta sulla M, e giuro che poteva essere una R. E tutt'attorno capovolte o diritte, equidistanti, sopra sotto davanti dietro e su entrambi i lati. E ci sarà una parola di senso? Magari in diagonale, magari da destra a sinistra, magari da un alto che è il sopra a un basso che è il sotto. Un sole, una via di fuga, un ciao. Non riconosco nulla. Estranea a casa, dentro l'altrove, perduta. Gioiosamente abbagliata. Appoggio una mano sulla ę l'altra sulla z, un piede sulla n. Ecco, posso fare parole col corpo. Non si tratta più di geometria, è una danza.
Metto il corpo. Tolgo il limite della contemporaneità.
Adesso posso fare tutto.

domenica 4 marzo 2012

Secondo giorno qui

Mi alzo presto. Vado a letto presto. Ieri ho letto una rivista, senza dizionario. Fra freddo, ma non freddissimo, è che ho abbandonato una primavera che prendeva la rincorsa. Ma qui è inverno ancora.
Ieri passeggiavo per Kazimierz, a volte sogno di avere un piccolo appartamento in alto, in un palazzo qualsiasi di questa zona, un appartamento senza mobili, fors eun tavolo, e tappeti per terra, e la vasca da bagno in centro casa, magari protetta solo da un paravento. Ho scritto in questi giorni, cose che posticipavo da tempo, impegni già presi e realizzati in ritardo. E poi ho pensato e camminato. A volte in tram cerco nei visi le linee diverse. Vorrei capire cosa fa di una persona uno straniero. La lingua, i colori, i gesti, i vestiti. Cerco di togliermi gli occhiali di chi conosce questo posto e provare a immaginare cosa penserei se non filtrassi. La stessa operazione che a dir la verità molto spesso faccio nel villaggio. Guardo i rapporti tra i bambini e gli adulti, e divento insofferente. Gli adulti così fortemente proiettano azioni, desideri, ordini, sui bambini, da far accapponare la pelle, da credere che un gruppo di bambini lasciato solo, se potesse, a volte vivrebbe meglio. E poi continuo a pensare a come sia pura follia l'assoluto abbandno, la naturale fiducia, che un bambino ripone nel mondo che gli adulti creano per lui. E mi rendo conto, un'altra volta ancora, che giusto e sbagliato proprio non sono connaturati, non sono degli universali, non sono, semplicemente non sono giusto e sbagliato, ma costruzioni e riflessioni sulle costruzioni e credenze sociali e religiose e raffronto con la propria esperienza personale; un miscuglio insomma, un orribile miscuglio di mediocrità.

Ma adesso mi metto in pausa e vado al museo dell'arte e della tecnica giapponese Manggha chè c'è una mostra sul vento del monte Fuji.

domenica 19 febbraio 2012

La cerimonia della sparizione (appunti sull'adulterio)

La cerimonia della sparizione inizia con un profondo respiro.
Di solito è mattino.
A volte è dolorosa.
Lo sguardo interroga lo spazio e cerca segni da cancellare.
 Li trova e li cancella o li confonde.
La sparizione è reatroattiva: sparisce la persona, spariscono le tracce.
Lo sguardo interroga e la mano raccoglie.
Tutto viene messo in valigia: i vestiti puliti e quelli appena usati, la biancheria sporca, il deodorante, il libro appena sfogliato, il caricabatterie.
Raccolti i fazzoletti caduti a lato del letto. Riposte le candele accese nella sera. Lavate le tazze del caffè. Buttate le bottiglie aperte. Il pavimento viene pulito, le sedie tornano composte, gli asciugamani messi a lavare, i preservativi nascosti, rassettati i cuscini del divano non usato.
La sparizione avviene in silenzio, spesso è veloce.
Più è veloce meno è dolorosa.
Oggi è stata metodica e veloce. Ma oggi è stata dolorosa.
Ogni cosa al suo posto, meglio ogni cosa come era. L'importante è che io non sia.
Come se non fossi. Errore cancellato. Pericolo di verità scampato.
Eppure nell'assenza era, il tuo profumo.

lunedì 30 gennaio 2012

Le cose della vita.

Oggi ho ricevuto un grande dono. I doni più grandi son quelli dal nulla, senza motivo, da nessuno. Quelle cose che il caso ci fa incontrare. Essendo la persona più fortunata del Trentino sono piuttosto abituata ai doni del caso, persone di solito, o parole. Persone belle, parole belle, ogni tanto un libro. Questo è il dono di oggi, un libro, un gioiello. Un'ora o poco più d'immersione.
Si tratta di Servabo, di Luigi Pintor. Quattordici capitoletti di qualche pagina ciascuno, il ciclo di una vita e forse di un'epoca. Si apre con l'odore dell'infanzia, quella stessa infanzia di campagna, in questo caso però di Sardegna, e ci accompagna nella guerra, nel dopoguerra, nelle redazioni dei giornali, nei progetti, nell'amore anche, nei dolori della vita, nei cicli delle cose e dello stesso mondo. Non ci sono eroi, non ci sono nomi, non ci sono date. Non ci sono vendette, non ci sono duelli né strazio. C'è e ci viene regalata una riflessione sulla vita da un uomo che ha ceduto alla tentazione di voltarsi indietro e restituire alle cose una durata che di per sé non hanno (per usare parole sue), ci viene stesa davanti agli occhi e e tra le mani tutta una serie di punti d'arrivo tanto semplici quanto, proprio perché così semplici, difficili da cogliere, da accettare, da confermare.
Vorrei scriverlo, vorrei segnarmi questi punti e uno a uno impararli, scriverli sul muro per tenerli presenti; è che non sono i miei punti, non sono il mio frutto. Stringo il libro al petto però e sospiro innamorata e toccata, curiosa e lungimirante, bambina che sguardo in alto e occhi accesi vive il domani come futuro intero e insieme donna che occhiali appannati e occhi miopi guarda un po' da sopra quanto accade e si chiede a che punto è.

mercoledì 25 gennaio 2012

appunti sui giorni senza pioggia

Il troppo.
Ho cose da dire oggi. Ho parole per dirlo, son sicura. Si tratta di cercare, di capire e poi forse di dire e far capire. Pioggia, una vita senza pioggia, da giorni e giorni niente pioggia, e non manca a nessuno. A me manca la pioggia. Un minuto di pioggia. Un secondo di pioggia. Una goccia di pioggia che s'incastra nel sopracciglio. Una goccia fresca, fredda addirittura, che arrossi il viso, che bruci col freddo, un minuto.
La fatica ha motivo d'essere, così il dolore. Vivere. Cercare. Voler sentire. Voler sentire. Voler sentire qualcosa a ogni costo. Provocare. Spostarsi un passo troppo in là. E il punto non è il passo, è il troppo. E il troppo è quello che si cerca. Troppo perché senza troppo a volte non basta.

Essere l'uragano.
Non si tratta di due uomini che si distruggono in x minuti.
Non si tratta di dimostrare la propria forza, non si tratta solo di soldi.
Sono sicura che si tratta di altro, si tratta di sé. Di superare quel limite. A ognuno il suo, per i pugili è più evidente, per gli sportivi in generale lo è.
Corse sotto la pioggia e addominali e flessioni e salti alla corda. E tute per sudare e alimentazione controllata e svegliate all'alba, e astinenza, spesso. Comandi, durezze, unghie che si rompono, corpi che sanguinano, ginocchia che pungono, denti che sempre più stretti si stringono, dolore solo nello sguardo, solo nell'istante della fitta.
Per cosa? Chiunque potrebbe chiedersi per cosa, per chi? Ma quella medaglia, ma quel riconoscimento, quei soldi valgono davvero tutti i sacrifici?
No, di sicuro no. I sacrifici, me ne sono convinta col tempo, hanno valore in sé, hanno valore anche e soprattutto se fini a se stessi. I riconoscimenti, i soldi la fama le medaglie, sono il contorno, il necessario sostentamento. Il vero è dentro. La vittoria è dentro. A qualcuno basta che la vittoria sia dentro. E io sono  convinta che siano questi i veri vincitori, anche quando l'incontro è con se stessi e anche quando si tratta solo di una corsa che continua anche su quella salita che mozza il respiro.

domenica 22 gennaio 2012

c'era un vento caldo che pareva poter guarire chiunque da qualsiasi male

Il ristorante era proprio sul mare
c'era un vento caldo che pareva poter guarire chiunque da qualsiasi male.
 
(Gipi, Appunti per una storia di guerra)
Mi sembra di poterlo sentire tra le dita, il vento caldo. Chiudo gli occhi. Lo scirocco viene dal sud, porta il sapore di tè neri dolcissimi col latte, e il sibilo delle tende del deserto. Abbasso il volto, sento i capelli tremare. Lascio che soffi forte e cancelli le montagne carceriere.

venerdì 20 gennaio 2012

Una donna, carica di borse e sacchetti, si era alzata e aspettava vicino alla porta la fermata successiva. Dai suoi pacchi fuoriusciva un tubo di aspirapolvere.


Fuori campi verdi si alternavano a impianti industriali. Continuava ad avere il respiro affannoso. Il fiato appannava il finestrino. Si appoggiò indietro e passò la mano sul vetro, sulle chiazze fresche di condensa. Da bambina si divertiva ad alitare sui vetri e a disegnare dei visi. Guardò fuori. Piccoli insediamenti galleggiavano in mezzo a orti urbani. Lì in ogni angolo vivevano persone, persone che si alzavano e andavano a dormire, bevevano caffè e vino, tagliavano il pane in fette, si preparavano le borse, partivano e tornavano a casa. Portavano a spasso il loro cani, le loro storie. Davano da mangiare ai conigli e annaffiavano le bordure, raccoglievano l’insalata e i fiori. Erano affamate e sazie. Si amavano e si uccidevano. E il tram attraversava ogni giorno le loro vite come un film, un film che nessuno vedeva.
Si guardò intorno. Un vecchio seduto dietro il conducente sonnecchiava, con in grembo una cartella marrone. Aveva le mani screpolate e abbronzate. Di fronte, un po’ di sbieco, due giovani dinoccolati nascosti dietro storti berretti da baseball si baciavano e sprofondavano dimentichi di sé in quell’abbraccio traballante di tram. Una donna, carica di borse e sacchetti, si era alzata e aspettava vicino alla porta la fermata successiva. Dai suoi pacchi fuoriusciva un tubo di aspirapolvere. [Overath, Nahe tage]

E tutto accade in contemporanea, vengono diagnosticate malattie e curate malattie, e si fanno incidenti e si bacia qualcuno per la prima volta, e piove e c’è il sole, e gli aerei sono in ritardo e ci si annoia all’aeroporto mentre qualcun altro aspetta un vagito. Tutti in attesa della notizia. Tutto in contemporanea, giorno e notte, bello e brutto, dolce e amaro, in tutto il mondo, in tutti i mondi. Quante volte, mentre fumiamo una sigaretta sul tetto ci accorgiamo che lì sotto, per le strade, camminano decine di persone, borse in mano, bambini in mano, lacrime agli occhi, incidenti stradali, chiavi nel portone, fazzoletti al naso, baci sulle guance, parolacce che volano, pensieri che si intrecciano. Quante volte, in treno, il nostro vicino guarda fuori dal finestrino e ci chiediamo perché abbia quel cerotto sull’indice o quel tatuaggio sul collo o quello zaino così grande… chissà dove va, chissà cosa cambia. Non siamo i soli - non siamo il centro, nemmeno quando il dolore più grande ci distrugge. Siamo tutti mondi che si incrociano, magari per sbaglio, mentre tutte queste notizie si diffondono, dilagano, sovrastano. E non sono notizie da niente, sono notizie che cambiano vite intere, continuamente, fanno deragliare, incasellare, straripare, ovunque-chiunque. Beh, ogni tanto, solo ogni tanto, o forse più spesso di quanto mi accorga, con un moto del tutto ramdom, la notizia capita a me, bella o brutta che sia, e a me tocca il cambiamento. [Cinque pedine, S.P.]

Ecco, l'abbiamo visto tutti, e tutti l'abbiamo percepito come una scoperta, come un qualcosa di grande e incredibile. Un mondo di formiche, persone, abitudini, emozioni - ognuno la sua vita, ognuno il suo mondo. L'abbiamo scoperto e non abbiamo più potuto dimenticarlo, perché la sola idea di pulsione e strade che s'incrociano e binari che deragliano e gli amori le lingue i supermercati. La sola istantanea consapevolezza di quanto tutto sia grande e complicato, ingestibile e incredibilmente potente fa sentire (paradossalmente e inevitabilmente) vivi.


giovedì 19 gennaio 2012

ospedale giorno 1 _appunti sull'impotenza

Il piccolo signore sdraiato sul grande letto, che poi non è un vero letto, è una sedia, una sdraio in pelle con schienale inclinabile. Il piccolo vecchio sdraiato e vestito di grigio e abbandonato alle sue mille pieghe. La pelle che s'arrotola su se stessa, il signore scompare dentro la sua pelle, la carne si ritrae la pelle s'accartoccia. La dottoressa gentile di colpo lo guarda mentre aspetto seduta il mio turno, gli offre una coperta “meglio, grazie”risponde il signore, grato e abbandonato alle cure in una rilassata impotenza.

Un'immagine, un momento, una chiave: la rilassata impotenza. L'impressione che si ha guardando chi sa di non aver potere e lo accetta senza lottare. Di chi si affida all'altro perché non può fare altro.
Il signoruzzo aspettava fuori dalla stanza, una signora lo spingeva su una sedia a rotelle, la moglie forse, capelli grigi, la permanente, vestiti beige, un fare energico. L'ha accompagnato dentro e poi è uscita ad aspettare fuori la fine delle trasfusioni. E il vecchio dentro era di colpo solo, sulla sedia a rotelle, impotente. Avrei potuto spingerlo a destra e sinistra, magari avrebbe riso. Ha aspettato in silenzio, nemmeno un cenno. Poi l'infermiera l'ha issato sul letto, sulla poltrona, e lui era lì, sembrava quasi che scivolasse giù, ma forse scivolava solo nei vestiti. E chissà perché, ma l'infermiera gentile ha pensato che forse aveva freddo. E aveva freddo. Sono rimasta colpita da quella che chiamo rassegnazione, ma che forse è semplicemente abbandono alle cure degli altri.

giovedì 12 gennaio 2012

odi et amo

così è.
sono proprio combattuta nei miei sentimenti verso D'Annunzio.
ne ammiro la coerenza, il potere, la seduttività, il grande naso, l'imprevedibilità, il carisma, l'indagine nascosta delle sue parole, in ognuna delle sue parole, la sua audacia.
ne odio l'arroganza, l'intolleranza, l'esuberanza, l'egocentrismo, la scrittura così pesante e intricata, le descrizioni minuziose e l'amore altrettanto minuzioso del superfluo.
Eppure guardo questa foto fatta in gioventù e provo grande tenerezza, e sorrisi e anche voglia di mordergli una spalla.
1. forse la scienza della vita sta nell'oscurare la verità
2. la carne non è, se non uno spirito devoto alla morte
3. il mio cervello è alimentato dal fuoco degli inguini
 .









e di lui scrive Ettore Janni:
E c'è in lui, per questo come per tutto, qualche cosa d'un fanciullo, nell'ardore delle predilezioni, nella candida ed elegante ferocia dei suoi disdegni, nella gioia e nell'orgoglio di vivere, nella immutata agilità fisica, nella superba fede in sé, nella freschezza perenne della sensazione o del pensiero, nel gusto di oltrepassare un limite e di abbattere un ostacolo, nell'amore profondo e semplice del costruire e del distruggere.

domenica 8 gennaio 2012

una giornata di libeccio


Una giornata di Libeccio è perfetta per andare in barca a vela.
Me lo ha suggerito un pescatore, in un gennaio color aprile.
Forse vecchio, eppure sembrava giovane, era vestito d'autunno, e chiacchierava. M'ha persino raccontato che nei giorni di bora, nella sua fanciullezza, ci si teneva per mano, grappoli di bambini, stretti stretti, e i centrali volavano, spinti dalle raffiche trattenuti da braccia come fili.
è iniziato tutto su un tram, no, prima, stavamo aspettando il tram, e lui aveva gli occhi rossi e parlava con l'amica di un'amica. Lì sì, sembrava già vecchio alla fermata del vecchio tram che fa un'unica tratta tutta in salita. Ho fatto i due gradini e lui era lì, quasi incerto se salire o meno, ma anche l'amica dell'amica era incerta, e alla fine siamo saliti tutti. Anche il tram è salito, lento, luminosissimo.
e poi è iniziata la passeggiata e il ghiaino sotto i piedi e la voglia di correre non fosse per gli stivali e la borsa e il cappotto blu. E la passeggiata era piana, e le foglie marroni sotto i piedi, e il mare a stendersi azzurro e giallo sotto agli occhi, e le rocce sulla destra, o a volte le terrazze al loro posto. Un paradiso, un'isola.
E poi la passeggiata sembrava finita, ma lui era lì e s'era ricongiunto e ha chiesto se si voleva continuare, e non si poteva non continuare, le gambe spingevano gentili, ai lati la roccia veniva morsa e massaggiata e esplorata e imparata dagli scalatori, e già si parlava della scalinata dei pescatori. E mi pareva proprio d'aver la gioia di vivere nelle gambe.
Così camminavamo, la cara amica, l'uomo del mare, l'amica dell'amica, l'amore.
Camminavamo un po' parlando un po' in silenzio. Camminavamo attraversando i paesi, parlando di vecchi confini, lasciando i raggi scaldare il cammino. E poi la scalinata ci ha portati in autunno, stretta e legnosa, odore di piante senza nome, di terra umida, di pietra lisciata dalla salsedine, le mani si tenevano e gli occhi ringraziavano il mondo per la bellezza che è. Alla panchina il panorama s'è aperto, il pescatore mangiava cioccolato, il sole baciava i visi, il vento era cheto, le piante silenziose, i tetti riposavano distanti, il mare frusciava senza sosta, come certe foglie d'ontano scosse dal vento.
Nessuno s'è mosso per un istante. Tutti gli occhi erano chiusi, l'anno era appena iniziato eppure il tempo era già senza unità di misura.

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