giovedì 29 dicembre 2011

Appunti sui demoni pre fine anno

Ognuno ha i propri demoni, spesso piccoli.
I demoni non hanno unità di misura, o ci sono o non ci sono.
Il codice binario del demone: 0-senza/dorme 1-c'è.
I demoni dormono.
Poi uno gratuggia il formaggio e il demone si sveglia.
Uno pulisce il gas e il demone dirompe nella vita.
Uno accende la macchina per andare a fare la spesa e il demone lo blocca nel parcheggio, sguardo perduto, macchina accesa.
Ho conosciuto un uomo senza una mano. Ho subito pensato che il suo demone fosse lì, poggiato sul moncherino. Sbagliavo, il demone era il pensiero della sorella, forse lesbica.
I demoni altrui non vanno mai, mai giudicati.
Dei propri demoni vale la pena condividerne solo la forma, sono tanto intimi e dormienti da non interessare.
Una persona può avere più demoni, a volte tutti spenti.
Certe volte i demoni si svegliano tra loro, basta che uno si desti e l'uomo è fottuto.
Ecco, oggi mi s'è svegliato un demone.

mercoledì 28 dicembre 2011

La Jolanda (appunti su via Roma)



Premessa: la Jolanda, qui in questo testo, non è una vagina, è una donna immortale.

Oggi la Jolanda aveva le calze sottili nere o forse gambaletti sotto ai pantaloni lucidi neri. Aveva sandali che mostravano le unghie laccate di un colore sul magenta coperte dalla calza sottile, si trattava di sandali oro con zeppa. Nonostante questo la Jolanda non è una peripatetica. Stava scopando lo spazio all’entrata tra la porta e l’inferriata. La Jolanda è la parrucchiera di via Roma. Ha i capelli platino corti e ricci, il viso molto bianco, quasi senza rughe, labbra sottili e rosse come quelle delle donne dell’est a teatro, trucco sugli occhi sorprendentemente leggero. La Jolanda esiste da sempre, e credo che per sempre esisterà. Ci vanno solamente le vecchie delle via, ci andava la nonna, la accompagnavo, e la Jolanda era già lì, già vecchia. E nel negozio l’odore di lacca, la luce di seconda mano che entrava dai vetri oscurati o forse con tende in trasparenza, ma scure. Divanetto a grandi fantasie sul marrone. Sedie marroni girevoli e specchi ben lucidi, e i caschi, i magnifici caschi bianchi, come uova giganti a pettinare donne Calimero (Priscilla si chiamava la Lei del Calimero? Aveva anche lei un uovo in testa?) sedute in fila con rivista pettegolezzo in mano. Ci accompagnavo la nonna ed era ogni volta l’esperienza più noiosa della mia vita. Non capivo di chi si parlasse anzi sparlasse, non capivo chi fossero le persone sulle riviste, i pettegolezzi erano sempre non detti, il parlare allusivo fin da allora mi sembrava scorretto, fingevo sempre di non sentirlo, non mi piaceva pensare che la nonna era cattiva. Sulla finestra c’era un giglio, credo di plastica. Poi la nonna è morta e la Jolanda ha avuto una cliente bimensile in meno. Quando passo e spio verso il basso (il negozio è qualche gradino sotto il livello della strada) ci sono sempre una o due vecchie. Mi chiedo se anche le nuove vecchie vadano dalla Jolanda, o se una volta morte le sue vecchie una a una sarà costretta a chiudere.

lunedì 26 dicembre 2011

questa sera

In certe sere il libro sbagliato, incubi a catena anche se tutte le luci sono accese, anche se il libro non è dell'orrore. Non capire più il vero e il sogno. Occhi sbarrati. Ogni rumore un sobbalzo del cuore.

E lei, anche lei scrive?

Slavenka Drakulic Il gusto di un uomo, Il saggiatore, Milano, 1996

martedì 20 dicembre 2011

Strenne...1

Ogni libro di Mattotti che mi capita tra le mani è un viaggio. Sarà per questo che tra l'uno e l'altro devo lasciar scorrere tempo e libri e vicende della vita. Oggi però mi è capitato tra le mani Fuochi, e mi sa che era il momento perchè mi ha subito portata via.
Ho accuratamente evitato l'introduzione di Daniele Barbieri. Ho aperto a pagina 9 e sono partita.
La protagonista è un'isola. Sant'Agata. Eppure la protagonista sono anch'io. È il dentro.
Si tratta della lotta tra la natura e la meccanica. Tra il verde e il ferro. Tra l'istinto e il dovere. (E qui accenno a una riflessione illuminante fatta poco tempo fa con un'amica illuminata: l'istinto è razionalissimo)
Il conflitto è tra ciò che si era e ciò che si è, tra gli altri e il sè.
Ecco, troppe cose. Eppure Fuochi è davvero tutto questo. E anche se non si fa, non si fa mai, aggiungo una parte finale, ché tanto chi lo prenderà (il libro) potrà goder di mille cose, e chi non lo prenderà potrà in questo modo beneficiare di un'immagine di per sè assolutamente bella.

lunedì 19 dicembre 2011

Trst (9 appunti)

1. Stivali nell'acqua, acqua negli stivali, cammino evitando le pozanghere, cammina la testa leggera sotto i lampioni retrò.
2. Al mare. A fianco del mare guardo il mare. È azzurro blu e giallo. Trema. 
3. C'è un uomo dalla barba lunga dai capelli lunghi, usa una macchina fotografica con l'obiettivo lungo quasi fosse un fucile.
4. Nel caffè entra la luce solo dalla finestra sulla destra. Entra come un fascio. Solo qualche ora.
5. Entri, sorridi, Che strano entrare qui e averti qui che sfogli libri, dici. Fossette dappertutto, che ricchezza, che bellezza.
6. La domanda difficile mi coglie di sorpresa. Vorrei dire, uffa, l'arroganza è la prima difficoltà che chi corregge si trova ad affrontare, uffa, i ritardi sono la piaga di chi prova a vedere i capitoli come un libro più che come settori, uffa, le pressioni e i ricatti sono il cancro del potere. Ma parlo di traslitterazioni, anche quelle a volte fan perder la pazienza. Ma su, dentro al testo è sempre un'altra storia, c'è la logica delle lettere degli spazi dei significati, col testo non ci si può mica arrabbiare!
7. Le mani curate, l'aspetto curato, la pelle giovane, il naso quasi a punta, gli occhi vispi dietro gli occhiali. E subito m'intimidisco.
8. Passeggiamo bicchiere in mano. Il sole sulla destra anche stavolta. Silenzio. Solo un uccello vomita suoni quando si ferma ogni tre passi.
9. Quattro frecce accese scandiscono il tempo. Manca il giallo. Saluti. Oddio anche quest'anno è successo, anche quest'anno la magia. Niente neve, freddo poco, vino tanto. Libri belli, persone vive. Persone. Non editori, non architetti, non commessi. Persone. Idee. Emozioni motore. Mare. Fogli macchina. 
Ricordare: 1."questo silenzio ha sbagliato tavolo" - Omar Lara 2.http://fierabazlen.wordpress.com/

lunedì 12 dicembre 2011

buon viaggio!


Corso Buenos Aires era fredda. Eppure era bella, ampia, le macchine sfrecciavano, le macchine erano più rassicuranti delle donne impellicciate di corso Napoleone. Cercavamo un caffè dove decidere, dove sederci e appoggiare a uno schienale le schiene stanche dall’asfalto, le menti stanche dalle contraddizioni della realtà, di colpo palesate con violenza sotto gli occhi, di colpo scagliate contro il corpo come grandi borse cartonate piene di regali. Il periodo di natale è veleno. Milano a natale è veleno. Cercavamo il caffè e abbiamo trovato un caffè dove tutti bevevano tè. E poi ho deciso quello che era da decidere, e allora la pancia si è rilassata. E mentre uscivamo la signora filippina senza età mi è parsa la persona più gioiosa, gli auguri ripetuti quella volta in più, il sorriso anche quel secondo dopo. Durata d’improvviso come testimone di verità. Come simboli fuori di un dentro. Siamo usciti e di colpo il dover decidere che fare era sparito, il peso della scelta aveva ceduto alla pigrizia, al desiderio nascosto. E si camminava, e ora c’era tempo e la notte poteva anche durare mille anni. Avevo scelto e potevo sballare gli orologi. E c’era un negozio di borse di cuoio e di fronte uno di prodotti i bellezza, e all’angolo la città del sole, e anche se era domenica il macellaio era aperto e addobbato come un gioielliere, e vicino al macellaio boa di struzzo rosa, e rossi, e blu, e neri. Cascate di piume, e maschere, e colori cotonati a far da tenda, a sbarrare l’entrata, come nella caverna magica. Ci pieghiamo e sbirciamo ed entriamo. Gli occhi s’allargano, perchè tutto non ci sta, dentro agli occhi. Costumi per lo più, e una disco ball gigante, e vetrinette di vestiti gioiello, e piume. E un signore con un cappello, e la cadenza di chi interpreta volentieri un ruolo. La voce di chi guarda dall’alto, di chi non si può scalfire. Tre due uno, bla bla, che meraviglia, ti piace è, sì. Poi usciamo, perchè è stretto e fitto, e il signore occupa il suo spazio e è come se parlasse dall’alto, come se si aspettasse qualcosa, e io ho paura delle aspettative delle persone, anche se sono piccole, anche se sono simboli. Ma mentre pieghiamo la testa e tra i manti cerchiamo la via ecco che dall’alto la voce sicura e di colpo gentile esclama senza ironia: buon viaggio! E corso B.A. diventa solo BA, e almeno per me finalmente sparisce il natale e comincia il viaggio.

lunedì 5 dicembre 2011

La ragazza straniera


A volte mi chiedo se ci vedremo invecchiare. Tremo alla sola idea. Tutta una vita in un posto. Tutta una vita incrociarsi senza mai scambiarsi una parola. Senza sapere i reciproci nomi. Vedere proiettati su lei istanti che avrebbero potuto essere in parallelo, miei.
Parlo della ragazza straniera.
Quando sono rientrata qui, dopo svariati anni distante, sono giunta con il mio compagno, che allora era un ragazzo dell’est. Ci siamo stabiliti, senza troppa convinzione, nel vecchio appartamento di famiglia, l’affitto era al limite delle nostre limitate possibilità e l’appartamento era libero da subito. Io stavo lavorando alla tesi, e davo ripetizioni a studentelli, il mio compagno lavorava in una fabbrica e rientrava solo la sera. Le mie giornate erano lunghe, a volte buone, quando potevo lavorare, a volte frustranti, quando non mi riusciva di scrivere e non avevo studenti. Non avevo una macchina e per questo per ogni spostamento prendevo l’autobus. C’è una fermata non molto distante da casa, qualche minuto a piedi, è lì che l’ho vista la prima volta. È lì che anche ora la vedo spesso. È lì che ci siamo guardate interrogative, nessuna ha aperto bocca. Credo sembrassimo sorelle. Di certo entrambe sembravamo ragazze dell’est. Capelli lunghissimi e biondi, entrambe viso tondo, bianche bianche, occhi chiari, sorriso con fossette. Stile diverso nel vestire, questo sì. Ricordo che indossava jeans attillatissimi, un maglioncino di lanetta a righe orizzontali, lungo appena fino all’ombelico, ballerine marroni. Colpiva subito. Ricordo anche di essermi guardata intorno quella volta e d’essermi chiesta se le persone facessero paragoni tra noi, vista la somiglianza. Aveva un difetto nei denti, non saprei descriverlo, un difettuccio, di quelli che fanno sorridere in modo mite e candido. Di quelli che non penalizzano ma addolciscono.
Dicevo che lì l’ho vista la prima volta. Viviamo nella stessa via, nonostante questo non ho idea della casa in cui lei abiti. So che ha avuto un bambino, o una bambina, ma questo già un paio d’anni fa. Ancora mi ricordo, almeno sei sette mesi dopo il primo incontro l’ho vista con la grande pancia. M’è preso un colpo. Ha un bambino mi sono detta. E tu? E io no, anzi siamo un po’ in crisi col mio compagno dell’est, e comunque bambini anche no. E poi un giorno li ho visti passeggiare insieme, e spingere il passeggino, e avevano quell’aria felice che hanno i genitori stranieri, perchè i genitori italiani hanno sempre l’aria di non divertirsi, quando hanno un bambino, ogni volta che li vedo lei ha lo sguardo tirato (e io giuro che prego spesso il Dio finestra che figli o non figli non mi dia mai lo stesso sguardo cattivo che hanno certe madri a dieta di cibo e di sonno e di sigarette e di vino bianco [...] dopo il parto), e lui ha lo sguardo vittima che non vorrebbe essere dov'è. Beh, il loro sguardo era diverso, tipo “guarda il mondo Misa”, tipo “dai andiamo a sederci al sole che ho la termos e beviamo qualcosa di caldo”. Belli insomma. Anche se lui non lo ricordo neanche un po’. E poi la vedo ogni tanto fare la spesa, scende con le borse, direttamente dal centro commerciale. È una di quelle ragazze che portano le giacchettine in camoscio corte alla vita. E gli stivaletti mezzo tacco. E quando è inverno hanno la coda alta, e forse non l’ho mai vista ma la immagino bene anche con una fascia, negli inverni freddi che le sembreranno miti. Io nel frattempo ho tagliato i capelli e comprato una macchina, e il mio compagno dell’est è di nuovo all’est. E ho cambiato lavori e ho finito la tesi e riinizio presto una tesi. E lei mi vede correre, a volte la mattina, perchè prende l’autobus quando passo per immettermi nella ciclabile e lì correre una mezzoretta. L’ho vista anche stamattina, che per un disguido non avevo la macchina. Abbiamo aspettato in silenzio l’autobus, come quella volta, e come quella volta siamo salite. Però oggi ero sicura, nessuno ci ha scambiate per sorelle.

domenica 4 dicembre 2011

La fine del mondo (rilettura di un'immagine di viaggio)

Immagine di Marika Bertoni


Ha fatto un sogno: le toglievano la lingua. Non quella rosea, nella bocca asciutta. Le toglievano la lingua dalla testa. Rimanevano solo concetti. Nessuna forma possibile. Suoni come latrati, come cigolii. Simboli come macchie, come pozzanghere. E il concetto pulsava e feriva nella testa, voleva uscire senza poterlo fare. E il concetto bucava, senza mai poter uscire. “Ma Dio, Dio mi capisce?” pensava la vecchia nonna nel grande letto sul tetto, all’ombra dell’ulivo secco. Occhi sbarrati, pelle sudata. Il sonnellino pomeridiano le ha portato un incubo. Scesa in casa ha attraversato il corridoio, si è lavata alla fonte e nella stanza della preghiera ha parlato con Dio.
I guerriglieri lì sulle montagne proteggono una lingua, una cultura, una famiglia. Lottano come una vita fa perchè non sanno in quale altro modo possono lottare. Sciarpa stretta sulla testa, sulla faccia e sul collo, pantaloni che cadono un po’, scarponi pesanti, armi inadeguate, ma pur sempre armi. I guerriglieri qui non sono cattivi, sono figli, fratelli, mariti delle figlie e quindi anch’essi figli, sono donne innamorate, sono vecchi intestarditi, sono chi non ha alcuna intenzione di cancellare la propria identità. I guerriglieri sono tanti, un tot per famiglia, tra le famiglie che possono, che hanno cuore. I guerriglieri sono famiglia dei martiri, i guerriglieri sono i futuri martiri forse. I bambini quindi giocano ai guerriglieri, senza cattiveria, senza preconcetti. I bambini del kurdistan forse sanno già tutto e ascoltano silenziosi nei letti sui tetti i discorsi dei grandi, le parole che sfuggono dalle fessure delle porte, dai buchi dei proiettili nei vetri. I bambini assorbono senza giudizio, sono quello che sono accettano quello che hanno. Il loro altrove è dentro. Zara, pollice alla bocca e sguardo distante guarda fuori, pensa. Zara mi ha mostrato i suoi disegni, di sera. Li ha fatti con Gira la moda. Li guardo uno a uno, mi concentro sui dettagli, sui colori, mi fingo sorpresa. No. Sono sorpresa. Anni 13, sandali bianchi laccati sopra i calzini marroni. Parla tre lingue. Chissà in che lingua pensa. Di certo guarda fuori e pensa che deve andare a scuola anche il sabato, finché può soprattutto. Avrà difficoltà ad uscire dalla Turchia, avrà difficoltà a realizzarsi in una Turchia che danneggia i curdi, che ostacola le donne, che inonda i villaggi. Mi ha dato tra le mani un album di disegni da guardare, si tratta di figure femminili vestite con abiti da lei disegnati o incollati, il suo portfolio. Di colpo ho pensato: nessuna chance di essere stilista. Nessuna. Sfogliavo pagina per pagina il malandato quaderno, guardavo con una commozione forse immotivata forse del tutto fisiologica quella bambina-ragazza. Quella futura madre di famiglia, se tutto va bene. A volte tutto va bene. Alla madre di Zara, koçer illuminata tutto va bene. Mai tanta serenità e allegria ho visto in una persona. Mai tanto calore ho provato al primo sguardo. Con l’ipad nelle orecchie, libri nelle valigie e amati nel mondo ho invidiato la gioia della giovane già madre che curva lavava i piatti sul pavimento. Ho invidiato sorpresa il suo viso disteso, il suo credere in Dio, la sua fiducia nel suo uomo. È la donna più felice del mondo, ho pensato, e ho bevuto un altro sorso di tè.

domenica 20 novembre 2011

io e Tempesta


Io e il bambino siamo sulla spiaggia, spingo il passeggino nell’acqua, ma non nella parte profonda.
Il passeggino è un carrellino, come quello per trasportare i libri.
Io e il bambino non parliamo con la voce, abbiamo una sorta di linguaggio segreto, nella mente.
Il bambino mi è stato affidato. È arrivato come un pacco, con una lettera.
Nel mare nuota un po’, anch’io. Il tempo è brutto ma non è freddo.
Poi dobbiamo rientrare. Mi guardo attorno non lo vedo. 
Lo chiamo con la mente, sbuca da sotto un’onda e mi raggiunge. 
Il bambino forse somiglia a Tempesta, un bambino che conobbi tempo fa, nelle pieghe della Mesopotamia. Sbuca da sotto un’onda e mi raggiunge. 
Sale sul carrellino e insieme c’avviamo a casa. 
La strada è molto trafficata, e di macchine e di persone. 
I semafori scattano veloci, l’omino verde salta in rosso quando siamo a metà corsia. 
Acellero per passare, una macchina bianca suona il clacson arrabbiata. 
Io e il bambino alziamo le spalle. 
E con la mente ci diciamo: Sì. 
E così iniziamo a correre, tra le persone, tra i semafori, e io mi aggrappo al carrellino passeggino come fosse uno skate. E ridiamo, io e tempesta ridiamo di cuore. E al nostro fianco un ragazzo ci guarda, e corre, e inizia una finta gara, di colpo su corso Rosmini, quasi a raggiungere il Mart.

domenica 6 novembre 2011

Inventio (nel senso latino che unisce inventario e invenzione) senza scopo (nel senso che niente aggiunge o toglie a una sensata visione del mondo)


Ho tagliato i capelli di corsa, l’altro giorno. Così in fretta che ho solo rasato le parti laterali mantenendo intatta la lunga ciocca, legata da una molletta nella parte centrale. Non l’ho davvero mantenuta intatta, col rasoio per sbaglio ho appena preso un ciuffo, ho sentito il rasoio inceppare, ho spento, recuperato la borsa e perdifiato corso verso il treno.
Leggevo, vagone pieno, circa l’una, al mio fianco una signoruzza occhiali su punta del naso più catenella, davanti a me due giovani di colore, di fronte a sinistra (io sedevo controverso)  quattro giovani chiacchieronsuperficialfastidiose piene di borse cartonate coperte da loghi di note marche. Con naturalezza ho tolto la molletta per poggiare la testa sul sedile e lasciarmi addormentare qualche minuto. Quel dormire abbandonato, breve e pieno di sogni, con la testa che cade e si rialza in loop. Tolta la molletta però ho visto la prima bionda guardarmi e strabuzzare gli occhi. È l’acconciatura punkcasuale, ho pensato quasi con fierezza, sempre bello shockare le benpensanti. Poi abbasso lo sguardo sulla maglia e puf, lì giace un fitta ciocchettina di capelli, finalmente rilasciati dalla molletta dopo lo spregiudicato taglio errato. Arrossisco, faccio per toglierli dalla maglia di lana, ma sono tanti, si sparpagliano, non sono lunghi, mi sfuggono. Smalto rosa Poochie continua a guardarmi bocca aperta. Bene, mi dico mentre anche le altre girano perplesse il viso, inizia lo show. E piango in silenzio. Raccolgo i capelli dalla maglia, li butto nella tasca cestino metallica sotto il finestrino, e ogni gruppetto dorato gettato respiro più a fondo, ogni passaggio di mano il peso della vita che cresce, preziosa bellezza buttata. Sì, la malattia è terribile, bisogna combattere e farsi forza, bisogna accettare che sono solo capelli. Che sono solo capelli, e le lacrime scendono. E piano li tolgo tutti, e ogni tanto uno sguardo triste ai sedili di sinistra ormai silenziosi e turbati. Sì, perchè non tutti hanno una folta chioma, perchè magari, tu sciacquetta pronta a criticare il tagliopunkcasuale, non hai pensato nemmeno per un minuto che forse...; e mentre prendo un fazzoletto dalla borsa per asciugarmi gli occhi penso Ecco, forse è brutto scherzare su queste cose, ma pensa a cosa pensa adesso. Magari che sto morendo, magari che la vita ha una fine, che l’aspetto a volte cambia anche senza che lo vogliamo, che c’è chi sta peggio, che l’unghia scheggiata non è un dramma così grande, che come insegna Paulo Coelho bisogna vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, e essere se stessi...
E ammetto che un po’ ghigno dentro di me, che il teatroinvisibile non è morto e che lo si può portare avanti con un po’ d’improvvisazione; penso che il mio cinismo e la mia intolleranza verso le persone sfiorano i limiti di guardia, che il lettore Anonimo sarà pronto ad attaccare un uso poco delicato della malattia per scopi non specificati. E a questo lettore, che già non tollero, rispondo che si tratta dell’effetto ipotiposi, una rappresentazione della realtà più vivace della realtà stessa, ma anche che forse non è la realtà, è solo l’immaginazione; e aggiungo anche, tirandomela un po’, che l’argomento con cui si anticipa la mossa dell’avversario (l’intollerabile lettore Anonimo) per difendere e attaccare, è la prolessi.

lunedì 17 ottobre 2011

legno, ricordi senza vernice


Sono cresciuta in mezzo al legno. È l’elemento che unisce passato e presente, è mio padre, è la mia terra. Ricordo la segatura tra le dita, la carta vetrata bordeaux di diversi spessori e ruvidità, le assi di diverse lunghezze e sfumature appoggiate al muro del garage. Ricordo trapani, e circolari, e seghetti. E portapacchi della macchina sempre carico di tavole impilate. Vengo dalla terra del legno. A scuola col traforo perimetravo cuori per la festa del papà, della mamma, per natali e san valentini, vi attaccavo un gancetto, vi dipingevo una scritta con qualche stella alpina di decoro. Sono cresciuta nel legno, non mi hanno mai spaventata le schegge nelle dita, e l’odore dell’impregnante mi fa sempre pensare al papà, vestito in blu, chino sui cavalletti con un pennellino, e anch’io che voglio metter la vernice, ma no che ti sporchi, dai solo una spennellatina, solo una, giuro. E giù di vernice, senza lasciare nemmeno un angolino scoeprto. Anche adesso veste col camice blu, a volte lo guardo e con gli occhiali risponde da sotto in su, che sembra un Geppetto. Un giorno mi ha fatto una montatura per occhiali in legno, la conservo ancora sopra a qualche libreria, è in legno d’abete, non ricordo bene perchè l’avesse fatta, ricordo che abbiamo riso molto, forse era il periodo iniziale, quello in cui scoperta la miopia mi rifiutavo di mettere gli occhiali. Quando ero adolescente, per un periodo ho pensato di voler imparare la sua arte, così un pomeriggio sono scesa nel suo studio, che chiamarlo studio sembra una presa in giro, meglio laboratorio, officina. Si tratta di un luogo suo, gli attrezzi appesi, ma anche per terra, e nelle scatole, alcune di legno altre di ferro. Le vernici in alto sulla vecchia credenza smaltata di azzurro, le chiavi inglesi appese in ordine decrescente sulla parete in fondo, e cassettini, centinaia di piccoli cassettini con viti diverse e chiodi diversi e giunture diverse non so che cos’altro. Tutto diviso e ordinato in quest’ordine meticoloso e poco comprensibile. E i morsetti fissi al banco in ferro, che sempre sono stati la mia passione, come mani prensili e immobili, e forti. Sono entrata, un pomeriggio delle vacanze di natale mi sembra. Facciamo una scatola per i miei cd?, gli ho proposto. Ma come la vuoi questa scatola? Mi ha subito detto. La voglio fatta da noi, il resto non m’importa. La voglio di legno. E così abbiamo fatto la scatola, ma non l’abbiamo finita, perchè volevo dipingerla e poi mettere una vernice trasparente, ma non l’ho mai dipinta, sostenendo che le cose non devono per forza dove essere fatte e completate dall’inizio alla fine, che a volte ci si può prendere del tempo per pensarle, per capirne destinazione e tono. Le solite vie di fuga? Forse. E forse è per questo che scrivo un blog e non scrivo libri, e che non sistemo mai le cose. Paura di un definitivo. Paura di una forma immobile. Come se la vernice finale stabilisse che la scatola è così e così deve rimanere. Paura della vernice finale. E poi ha qualcosa di primitivo e maledettamente importante la consapevolezza del tempo che passa e rovina, e colora. Il tempo che segna. Che insegna anche, certe volte. E poi il legno che fa il suo corso e subisce non solo gli anni ma anche la pioggia e l’umidità e la polvere, che s’impregna d’odori e cambia il colore. E poi è solo una scatola. Ma giuro che un giorno di questo natale torno in laboratorio e imparo i nomi, magari non di tutto, solo degli oggetti nei cassettini, di qualche attrezzo, solo un pomeriggio a disturbare e coccolare, ad ascoltare e invertir le chiavi, vestita anch’io col camice blu, a finger che la segatura sia sabbia, a carezzare le vene di un asse di ciliegio, a casa.

giovedì 13 ottobre 2011

è sera e sembra notte (bozzetti di note emotive)


1
Abbiamo ucciso un’ape nella scanalatura della porta della camera. Era sera, sembrava notte. Stavamo ricoprendo il piumone col fodero a fiori, gli angoli sono i più importanti per farlo bene, perdi l’angolo opposto all’entrata nel sacco e perdi tutto, e devi riiniziar da capo. Abbiamo ucciso l'ape e rivestito il piumone. Che bello, ho pensato, che bello foderare insieme il grande piumone.
2
Scendiamo dalle montagne, in fondo al cielo c’è un colore acceso, dove blu e giallo si incontrano e si mischiano senza diventare verde, rimanendo blu e giallo. Scendiamo barcollando nella jeep, pochi appoggi tra le mani, io siedo sui morbidi panni sporchi, tu su un sedile di legno. La giornata è stata lunga, difficile, sofferta, ma anche divertente. Scendiamo nella sera che sembra notte sulla jeep, ti guardo e mi guardi, e di colpo il nostro sembra un amore segreto, fatto di sguardi nel buio, nel blu e nel giallo, un amore ripreso da una vecchia cinepresa e proiettato con qualche sbavo, con qualche tremolio. E non possiamo baciarci perchè con i balzi rischiamo di romperci i denti, ma i tuoi occhi come quelli dei gatti son luminosi, e come i gatti così mi sembra di vedere i tuoi baffi sorridere. Il giorno è quasi finito e dormiamo insieme e condividiamo un amore segreto.

lunedì 10 ottobre 2011

chiusi il libro... chiusi gli occhi

Distruggete le muraglie! smobilitate gli eserciti! riempite i fossati! sotterrate le armi!


Il rumore della brina, ma anche il silenzio del freddo e il mondo che continua anche quando ce ne dimentichiamo [no, non avevo sbagliato numero, semplicemente il ragno della vita non mi chiedeva consiglio per continuare a sviluppare con pazienza e immaginazione la sua tela di storie], e l'essere sopraffatti dalla ricerca di qualcosa, da un bisogno che muta nel tempo e nello spazio, e l'amore altro - sono i fili tesi tra le pagine, nella vita.
è un libro che riflette il dentro, con illustrazioni che amplificano e dilatano il senso della parola, il suo significato ma anche la sua interpretazione, e con frasi che illuminano, che tacciono, che sembrano appoggiare chiavi su un vassoio d'argento, a volte senza avvertire sulle porte che possono aprire.





Il rumore della brina, Mattotti & Zentner, Einaudi 2003

giovedì 6 ottobre 2011

impronte digitali

Bevo un drink, ma prima pulivo il bagno, a fondo.
Non riesco a scrivere né a leggere con la casa così sporca dall'assenza, dagli impegni, dal disinteresse, dal disordine.
È tempo di sfregare, di detersivi, di cambiare il posto dei mobili, di svuotarli.
È tempo d’accogliere l’autunno e di vuoto, di vento nella bocca, nelle stanze.
Così, ancor prima di svuotare la valigia ho iniziato a pulire il bagno, perchè è la stanza più piccola e perchè le piastrelle, i pavimenti i sanitari sono bianchi, e perchè la polvere e l’umido insieme sono talmente tristi. E così col vestito nero e le scarpe rosse ho messo i guanti in lattice e ho iniziato a pulire ogni centimetro, la vasca il water, il bidet il lavandino, lo specchio, la lavatrice. Le piastrelle sulle pareti, i porta sapone, i ripiani, le antine interne ed esterne dei mobili, poi la porta. E mentre pulivo la porta, strofinandola con la spugnetta, così vestita coi guanti in lattice, ho realizzato che ora, di certo, in tutto il bagno non c’è più alcuna traccia di P., forse nel resto della casa, mi sono detta. Ma ho imbiancato dopo la partenza, e poi ho pulito, e poi si è risporcato, e poi ho pulito.
E quindi realizzo che forse non ci sono più impronte digitali, nel gelso. Che il tempo ha cancellato ciò che rimaneva. Qualche oggetto nella scatola ancora, qualche foto sgualcita, ricordi mediati dagli anni, forse dentro a qualche libro rimane un indice leccato, ma in fondo non leggeva quasi mai.

venerdì 30 settembre 2011

bene e male non fanno media, ma schizofrenia emotiva

Turbata affranta nostalgica commossa toccata malinconica tesa nervosa agitata emozionata spaventata stanca innamorata. Innamorata forse li comprende tutti, forse comprende tutto. Innamorata di persone e di città, col cuore in subbuglio per le partenze e per i ritorni. Innamorata di una lingua e di una cultura che mi fanno sentire a mio agio anche imperfetta. Innamorata di una persona che mi fa invece sentire perfetta.
Scende dietro ai tetti questo ennesimo sole. La scuola di fronte è già chiusa. Il cielo s'ingiallisce proprio lì dove rimbalzano i camini. Domani torno. La parete di edera gigante non mi dà più il buongiorno, i negozi chiudono alle sette, la gente non è capace di star bene senza farsi male. Voglio un posto nel dentro dove poter riposare. Voglio corstruire ore di vuoto innocente. Voglio portare a casa le nuove persone. Voglio potare il gelso, affinchè ricresca più forte. Sto bene e male insieme, e non è brutto. Sto bene e male insieme, e non è come essere a metà, è molto molto più bello.

lunedì 26 settembre 2011

En passant (appunti di viaggio)


Pantaloni grigio-verdi a vita alta-altissima, cintura sottile, nera, la fibbia nascosta da un rimbalzo di pancia. Camicia a righe gracili bianche e blu, capelli grigi, orecchie grandi (qualcuno m’ha insegnato che le orecchie non smettono mai di crescere). Non vedo il viso, mi volta le spalle, ma gli vedo le dita.
La mano resta sospesa a mezz’aria, sotto, in piedi, la regina nera nel fazzoletto bianco, qualche pedone, una torre marrone chiaro. Pollice e indice quasi a toccarsi, sorvolano la scacchiera, ondeggiano incerti tra la regina e il cavallo, poi la mano s’abbassa.
La regina di un passo si sposta in diagonale.
Suona il telefono, e una e due e tre volte.
Si alza dalla panchina, si scusa:
- sì va bene, ma possiamo vederci dopo? Adesso sono proprio occupato. Sì sì domani va bene, anzi è meglio, è meglio se parliamo domani.
Si gira verso di me, ha baffi bianchi come quelli di Walesa, le sopracciglia folte e spettinate. Si siede nella stessa posizione di prima, sporto in avanti.

È un pomeriggio assolato, la Vistola rumoreggia. Si crea un cerchio attorno al tavolo, si fermano persone a guardar la partita, solo uomini. Capotavola 1: maglia gialla, occhiali dalle lenti gialle, e dalla catenina anticaduta, pantaloni marroni, sandali e calzini; la testa appoggiata ai palmi delle mani. Capotavola 2: uomo senza età, dai venti ai cinquanta, aria trasandata, zaino spesso sulle spalle, maglietta macchiata, sgualcita, occhiali dalla montatura sottile, naso affilato, figura minuta, scarpe in pelle con suola rasoterra. Vicino ai giocatori altri due uomini di mezza età che dimostrano almeno dieci anni in più, capelli brizzolati, corpo in sovrappeso, sguardo concentrato. Il tavolo è avvolto nel silenzio.

Col pugno si regge la testa l’antagonista. Ha il viso sottile, rughe sul mento, sulle guance, sulla fronte, sugli occhi, le abbra anch’esse una linea, l’ennesima piega.
Guarda stupito la mossa, rapido replica, sorride. Scuote la testa, che sia meraviglia?

Tutto si ferma, otto persone guardano fisse il quadrato dei quadrati fatto di marmo. Guardano in silenzio, mi sembra di vedere i loro occhi che spostano le poche pedine rimaste, che ripassano mosse. È evidente che gli scacchi sono una sfida tra i se stessi, prima che con l’avversario.
Attorno tutto si muove. Ibernato solo il tavolo degli scacchi.
Passano macchine coppie bambini tram barche, volano uccelli e aerei e una mongolfiera, là in fondo, rotolano palle cadono borse fremono di brezza leggera gli scialli.
I due giocatori, gli osservatori, spostano pedine col pensiero.
Scorre la torre bianca, avanza il pedone nero, l’alfiere sfianca il cavallo, la regina mangia l’alfiere, il pedone spodesta la regina, No!, daccapo.
Scorre la torre bianca, cavalca il cavallo nero e calpesta il pedone, scappa la regina s’avvicina al re, ma ecco l’alfiere che punta, No, ancora no, daccapo.
Scorre la torre bianca, scivola...
Come se ogni partita di scacchi contro un avversario ne contenesse cento, silenziose, con se stessi.

Ecco, il baffo ha mosso. La ruga risponde rapida, aveva previsto. Di nuovo la mano sospesa a mezz’aria, il polso piegato inclinato abbandonato come un braccio che pesca orologi nella grande scatola del lunapark.

La luce si riflette sui pezzi più chiari, i morti che giacciono fuori dal campo.
Gli occhi scorrono veloci, precisi, calcolano e ricalcolano. Di nuovo la mano sorregge il viso sulla guancia destra, e di nuovo il baffo di spalle aspetta prima di muovere, e un altro uomo dall’alto di ferma a sbirciare, anche lui a giocare. Il pedone nero quasi raggiunge il bordo avversario, labbra sottili alza gli occhi dalla scacchiera, sono azzurri come l’est, le sopracciglia si moltiplicano sulla fronte. Anche il baffo per un attimo alza la testa e si guarda attorno, l’orecchio arrossato dal sole, la ventiquattrore sciupata sulla destra, la giacca accasciata sulla sinistra.
Inizio a chiedermi se mai questa partita finirà. Suona l’orologio del castello. Nessuno lo sente. La mano pinza che sembra impiccata sfiora la corona, poi s’innalza ancora, muove il pedone. Viso rugoso affilato fa un lungo sì con lo sguardo, accenna a un sorriso. Ha visto. Fa la sua mossa e incrocia le braccia.
(punti importanti: tutto si muove attorno, i giocatori sono congelati - immobili; ogni oartita contiene centinaia di partite giocate con se stessi)

venerdì 23 settembre 2011

Pani Jesien

Oggi inizia l'autunno, e il più semplice dei caffè si è trasformato in un pomeriggio magico.
Credo che sia questo il punto, credo che sia questa la chiave dello star bene, del mio star bene. Un caffè che si trasforma in un dibattito, in una festa, in incontri emozionanti. Strade che si riempiono di sole, e occhi azzurri a guardarmi. E Pani Jesien che porta i fiori. E il sapore del sidro. E di colpo reazlizzo che se devo scegliere un luogo in cui stare bene, in cui tornare spesso, in cui lasciarmi scivolare dentro me stessa... beh, questo luogo non lo scelgo, ma mi sceglie, ed è la polonia. Ho assaporato un giorno bello, che mi fa stare maledetamente bene. Un pomeriggio che vale un'intera vacanza. Un pomeriggio a parlare, semplicemente a parlare. Un parlare che è sfida, conquista, soddisfazione, tentativo, scambio, carne. Che è lotta per dire ciò che sono, tra le battute, tra le interpretazioni, tra gli aiuti, tra la benevolenza e gli scherzi e l'apprezzamento, e i dubbi.
Inizia l'autunno. Inizia l'autunno. Inizia l'autunno. E difficile mi è pensare a un pomeriggio migliore.

giovedì 22 settembre 2011

BEZ gramatyki


La testa troppo piccola. La sento che prova a ingrandirsi senza successo. La sento che si tira si riempie si gonfia, come i corpi dei morti nelle acque del Prut.
Poi dolorante cede. Poi pulsante si stacca.
S’addormenta.
La testa è troppo piccola, oggi, per tutte queste parole nuove, per queste costruzioni grammaticali che da fuori provano a ordinare il dentro.
Le orecchie ingoiano ogni suono.
La bocca mangia lettere nuove.
Gli occhi significano altri simboli.
Le parole scappano da una parte all’altra, cambiano i casi a seconda dei suoni, le finali si staccano del senso per farsi solo musica.
[Dire qualcosa mentre si e' rapiti dall'uragano Ecco l'unico fatto che possa compensarmi di non essere io l'uragano]
Le parole, almeno le mie, se ne fregano della grammatica.
NB: non imparare mai la grammatica interiore – non imporre mai al pensiero una forma canonica

mercoledì 21 settembre 2011

doppia lamentazione

Anche oggi, così come ieri, così come a maggio dell'anno scorso, così come forse durante tutto il corso degli studi, mi chiedocome sia possibile che:

1. ogni corso di lingua tenda a banalizzare il pensiero dello studente e canonizzarlo.
Dobbiamo proprio tutti parlare nello stesso modo? con le stesse perole? zitti e senza mettere in discussione nulla?

2. ogni corso di lingua porti avanti una serie di stereotipi tra maschile e femminile da nausea. Certo, siamo adulti e capiamo che sono solo esempi, ma insomma!, perchè mai bisogna continuare a lavorare su cose utili solo all'insegnamento e non allo sviluppo di un modo personale di esprimere idee in una lingua.[riflessione che divaga: tutto il tempo rimangono nascosti nei libri di scuola i vecchi stereotipi]

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a parte il mio insegnante bigotto e noiosetto (nonostante abbia un solo anno in più di me), a parte gli esempi mai rappresentativi di un'apertura verso altri modi di vivere o di pensare... sta succedendo qualcosa in Polonia. Sui giornali si parla di donna, e non se ne parla per suggerire l'ennesima dieta, se ne parla in termini altri, di libertà personale, di assistenza da parte dello stato, di diritti e bisogni.


Se ne parla in modo cinico su alcuni giornali, speranzoso su altri. C'è stato da poco il Kongres Kobiet [Congresso delle Donne] a Varsavia, ancora sto cercando di capire di cosa si è discusso, a che punto di è arrivati, qual è stato il confronto internazionale che ha comportato e offerto. I prossimi post forse riguarderanno questo, e le caramelle gommose, chiaro.
Mi preme però un’ultima cosa; visto che con un lamento si apre questo post con un lamento si chiude. Intendo infatti segnalare il blog della carfagna, che ha partecipato all’evento.
Succede sempre così, faccio per non farlo poi lo faccio, mi dico no, non visitare il suo blog che ti si chiude lo stomaco, non leggere i post fatti come compitini che niente aggiungono alle tue conoscenze e alla tua visione del mondo, no S. ti prego non guardare quella foto plasticosa con sorriso politico a mortificare con la sua sola apparenza gli ideali che si spera almeno nasconda (visto che non li sostiene ne suggerisce). E invece ci cado sempre e ogni volta puf, ne rimango proprio amareggiata. Mi fermo qui, tanto se avete occasione di leggere il post si chiarisce tutto da solo, anzi no, ecco un accenno:

“Ho raccontato ai miei colleghi europei come l’Italia è intervenuta in talsenso, finanziando la realizzazione di asili nido, garantendo orari di lavoropiù flessibili, introducendo sempre più la figura delle tagesmutter, recependola Direttiva 54 in materia di pari opportunità sul posto di lavoro. Il tuttoper far sì che le donne si possano sentire sostenute nel difficile compito difar coincidere i tempi della famiglia con quelli lavorativi. A proposito dipartecipazione delle donne alla vita del Paese, i colleghi europei hanno dimostratoparticolare interesse in merito alla nostra legge sulle “quote rosa” nei cda:un’ulteriore dimostrazione del fatto che l’Italia in materia di pariopportunità non vuole restare alla finestra e che, anzi, un buon lavoro non puòche dare buoni frutti.”

tre cieli di oggi (appunti sull'ambiente)


Oggi il cielo era bianco. Ho camminato nella zona ebraica. Claudicante e mediamente sovrappensiero. Ho preso un tram. Sedevo nella direzione opposta a quella di marcia. Qualcuno sedeva dietro a me. Sentivo i suoi capelli sul collo. Se avessi buttato forte indietro la testa ci saremo fatti male.
Oggi il cielo era bianco quasi grigio [come denti d’inverno], ho corso nel bosco vicino casa, attraversato un parco, affiancato un torrente che sfociava nella Vistola; il vento freddo sulla pancia, dietro al collo, il verde e il bianco e il grigio tutto intorno. Il fiume grande si stendeva ai miei piedi.
Oggi il cielo era grigio e ho fatto il giro dell’isolato, per capire gli autobus, le fermate, i negozi, le persone. Era quasi l’ora della nostra cena italiana, ma non c’erano finestre aperte e telegiornali a tutto volume, non c’era rumore di posate sui piatti e grida di madri ipertutto. C’era un mite odore speziato a destra, e un grill improvvisato nel parchetto del ping pong.

domenica 18 settembre 2011

Ritorno - Riappropriazione - Ricerca (RRR parte 1 ovvero Alef)

Un terrazzino di piante mi riporta a me stessa.
Un pomeriggio col sole che scende, la mano che tiene una mano, un posto che ferma il tempo.
Il tavolo grande di legno, tovaglioli bianchi e lisci di stoffa, posate pesanti.
Liquidi dorati nei bicchieri davanti al sole, ambra?
Ho perso i suoni, ho solo i colori, di colpo i muscoli non sono tesi, di colpo non ho più fretta, di colpo capisco che sono padrona di me, che non mi ha poi del tutto la contemporaneità.

Ho perso le conversazioni, non ricordo le parole, non ricordo le storie.
Solo una lettera che è un numero, che è un nome, che è poi l'inizio, l'inizio del viaggio, l'inizio del Ri.
Alef

giovedì 8 settembre 2011

Regole per discutere.


In questi giorni ho studiato molto, in ritardo e con non poca sofferenza e difficoltà [di comprensione, di memorizzazione, di concentrazione, di (x)zione], gli argomenti, le dimostrazioni, le fallacie, i para argomenti... gli strumenti necessari per ragionare.
Strumenti per ragionare. Com'è possibile vivere tutto questo tempo e pensare tutti questi anni e parlare e discutere e confrontarsi... senza queste conoscenze basilari delle regole e strutture logiche e non?, magari con una conoscenza ingenua e poco affilata, ma comunque non sufficiente. Com'è possibile scoprire oggi di essere tante volte caduta in fallacia con me stessa?
Mi chiedo come sia possibile laurearsi in campo umanistico senza essere stata plasmata dagli strumenti per ragionare, mi chiedo perchè insieme alla grammatica, alle elementari, non si studino le argomentazioni e le dimostrazioni, la logica, la retorica, la dialettica, l'analisi delle costruzioni di pensiero.
Certo qualche libro in funzione di un esame non mi ha dato ciò che vorrei, ma mi ha perlomeno dato la consapevolezza di poter volere qualcosa.
Sto per ultimare, ma proprio alla fine di uno dei testi ho riletto un'affermazione che mi ha quasi commosso, e delle regole che proverò a interpretare e diffondere. Inizio da qui.

“Sono regole da seguire quando la ricerca della verità è impresa collettiva, fatta di discussione ma anche di onestà intellettuale e di rispetto per il punto di vista espresso dalla controparte, di confronto ma anche di dialogo”
Preliminari alla discussione
  1. Ogni argomentazione ha una sua sede opportuna. Per esempio, non serve discutere contro una legge del codice della strada con un vigile che è tenuto ad applicarla; la legge, eventualmente, va controargomentata in sede di proposta di modifica legislativa.
  2. L'argomentazione dev'essere adeguata al contesto socio-politico-culturale in cui è proposta. Per esempio, non ha senso argomentare in nome del valore supremo dell'uomo davanti a un consesso di religiosi, per i quali il valore supremo è rappresentato, invece, da Dio.
Apertura della discussione
  1. Il contributo alla discussione dev'essere presentato in modo adeguato alle modalità di scambio linguistico (principio di cooperazione).
  2. Ognuna delle parti deve interpretare le espressioni dell'altra nel modo più accurato e pertinente possibile (principio di carità interpretativo).
Discussione
  1. Le parti non devono utilizzare formulazioni oscure, tali da generare confusione; se richiesto, i termini devono essere definiti e le premesse devono essere esplicitate.
  2. Ognuna delle parti non deve ostacolare l'espressione o la critica di punti di vista.
  3. La parte che ha esposto una tesi è obbligata a difenderla se l'altra parte lo richiede.
  4. La critica deve vertere sulla tesi  e non su chi la sostiene.
  5. Una parte può difendere la propria tesi solo portando un'argomentazione pertinente.
  6. Una parte deve utilizzare solo argomenti logicamente validi, o la cui validità logica sia dimostrabile mediante l'esplicitazione di una o più premesse.
  7. Schemi argomentativi accettati e correttamente applicati non possono essere disattesi.
Chiusura della discussione
Se un punto di vista non è stato difeso in modo conclusivo, chi lo propone deve ritirarlo.
Se un punto di vista è stato difeso in modo conclusivo, chi vi si oppone non deve più metterlo in dubbio.
(La frase e le regole sono tratte e leggermente riassunte da Strumenti per ragionare, di Giovanni Buoniolo e Paolo Vidali)

martedì 30 agosto 2011

il sorriso sapeva di terra bagnata


Ci sono saluti, anche semplici saluti, che colgono nel segno. Si tratta di quanta è la gioia che li compone, di quanto strette le mani serrano il volto, di quanto restano le labbra appoggiate alla guancia. Si tratta di libera familiarità, di comoda familiarità. Di soddisfazione forse. Ci sono saluti che al posto di buonviaggio sanno di benvenuto. Sì, un ciao che vuol dire ti accolgo, anche se non è previsto un vedersi, un rivedersi.

lunedì 29 agosto 2011

E' il tempo che scorre lungo i bordi / Siamo io e te appoggiati su queste sedie


Flash della discesa nella notte, la notte.
La strada buia, illuminata solo dal faro. La strada lucida, aveva piovuto fino a poco prima, sarebbe piovuto anche poco dopo. E foglie bagnate. Come lumache distese sull’unica corsia. I rami pesanti, ogni foglia come un sacchettino di pioggia. Un soffio di vento svuota i sacchettini, rialza i rami, piove solo sotto gli alberi così. Lì dove prima non pioveva. Punge l’aria fredda della notte.
Incastro le mani tra le mie gambe e le tue gambe. Mi aggrappo al tuo bacino e so di non volere nient’altro.

Flash delle luci verdi, la sera eppure già dopo.
Il locale ha luci verdi e gialle e muri imbottiti di gomma piuma e ricoperti gomma verde e bianca, e specchi barocchi e tavoli di vetro che sembra cristallo. Il locale ha gente distratta come avventori. Gente che si è dimentacata a casa, che è lì solo per non essere altrove, solo perchè piove. Ecco le ragazze un po’ sdraiate si fanno fare una foto da un adulto con la barba crespa e la pancia che ha smesso di trattenersi. Ecco il gruppo di amici patinati ha finito la pizza e si fa un drink educato. Ecco tavoli vuoti e la cameriera stanca, i menù ben strutturati, il bar fosforescente. Bevo un delizioso long island, parliamo di qualcosa che mi fa ridere, rido, ridi, è solo venerdì, abbiamo solo trent’anni, e tutto un mondo da spiare e da capire.
La pioggia ha smesso, la musica ricomincia. Mi aggrappo al tuo sorriso e so di non volere nient’altro.

Flash dell’attesa, la notte un attimo prima.
Immobili per non far scattare la luce.
Immobili per godere di un temporale rumoroso e luminoso.
Immobili per fermare il tempo.
Il baule chiuso sul tavolo di legno, dentro qualche libro, qualche soldo, forse un asciugamano.
I caschi sulla panca di legno, e il fischio del vento nelle orecchie e lo scrosciare dell’acqua anche. 
Parole appese alla grondaia.

Flash del giorno prima, sulla strada per piana a larghe curve.
La strada scorre indietro riflessa sulla tua testa argentata.
Cambia la prospettiva, il fuoco risiede nel tuo ipotalamo.
Le case, le macchine, tutto quello che ci lasciamo alle spalle riprende una vita senza colore.

lunedì 8 agosto 2011

La donna nera (appunti interiori del prossimo percorso)


Io ce l’ho ben presente, l’uomo nero. Anche la donna nera. Quelli delle fantasie. Quelli che arrivano se non si è bravi. So anche che non è che siano neri, è solo che sono nell’ombra, e si sa, le ombre sono nere. (questo e si sa, bla bla bla, l’ho rubato a qualcuno, non è mio). Comunque le ombre sono nere, o grigio scuro che sembra nero. A volte so anche chi sono, gli uomini e le donne nere. La mia è una donna nera arrabbiata. La donna nera è una parte di me. È la forza del chiodo arrugginito che prova a bucare la tela senza farcela. È la forza che spinge non volendo davvero rompere e distruggere, solo forse dirompere.
Paura di noi stessi, inculcata fin da bambini, paura dei lati oscuri. Paura delle posizioni forti. Paura del non canonico. Paura dell’inquietudine rintanata nell’ombra. Perchè son convinta che d’ombra non sia fatta ma solo colorata rannicchiata fino a far male.
La mia donna nera sono io che mi fingo non accanita verso come va il mondo.
La mia donna nera sono io in cucina.


“Eravamo la cornice di un romanzo medievale
Noi gli eletti
riuniti in una casa che cadeva a pezzi
immersi nel silenzio dei pomeriggi d'agosto
e fuori
fuori la peste”


venerdì 29 luglio 2011

vado a prendere qualcosa da bere... vuoi qualcosa?


Appena concluso pillole blu, è pomeriggio, oggi sembra primavera, sole aria calda, come se fosse la prima aria calda dell'anno. Il tetto in costruzione davanti al gelso è quasi terminato, la finestra è aperta e lucente come un dio ideale. Appena concluso Pillole blu e sono qui a blaterare di dei e stagioni. 
Sono senza parole. 
Sono raddolcita, conquistata, sciolta. Commossa, forse intimorita. Come al solito ho l’impressione che nelle piccole cose stiano le grandi cose e che un universale metalinguaggio sia applicabile ad ogni gesto, ad ogni esperienza. Per significarla nuovamente. Questa, mi dico spesso, è una delle chiavi. E così fa questa storia d’amore, nel gesto dice. Disegni di gesti parlanti forse.
E tutto scorre naturale come la vita, ma dietro vediamo la storia, una storia. Così anche nella realtà forse no? C’è chi parla di unire i puntini a posteriori. E questo fumetto lo fa, unisce i puntini a posteriori, ma lo fa senza saperlo, è proprio nel suo farsi che i puntini si uniscono e disegnano un amore. E in questo caso, questo amore ha proprio il sapore della vita, quei dettagli che fanno la vita stessa, che la compongono come ingredienti sostanziali.
Si scherza nudi a letto e lei dice: vado a prendere qualcosa da bere... vuoi qualcosa?-
È un niente, ma è un niente su cui si poggiano i momenti belli di qualunque amore.
Si sente nella bocca, negli occhi, questa materia reale. È un testo bello, è molto più che bello.


C'è anche un'altra parte che mi tocca, che parla d'incontri e di bambini e di timori... 
mi rincuoro in una frase "ho capito subito che sarebbe andata bene... ma in quel momento non sapevo che forma avrebbe preso la cosa... - due vignette più in basso - d'altronde anche oggi..."

mercoledì 27 luglio 2011

Abbiamo sconfitto il caos

Concludo in questo istante Gottland, di Mariusz Szczygiel (traduzione di M. Borejczuk).
È notte. È estate ma sembra autunno. Anche il libro è un po’ così e confonde le carte. Non si sa più da che parte guardare, si è dentro a qualcosa. Si ha la testa piena di dettagli. Tutti i dettagli formano un insieme complesso e ricco e ben inquadrato. Ma è troppo bello fermarsi sui dettagli, almeno per me, e così non riesco a vederne l’insieme. Forse mi servirebbe una rilettura.
È un libro divertente, e il fatto che lo sia è paradossale, perchè narra della Repubblica ceca sotto il regime, e lo fa in modo disincantato, argomentato, severo quanto serve. È un libro ben scritto, una scrittura densa di fatti, di carne mi verrebbe da dire, no anzi, una scrittura piena di domande e di ricerche e qualche risposta mai servita ma sempre nascosta tra i fatti. Allora forse carne non è la parola giusta, è una scrittura chiara, schietta, irriverente. Una scrittura che, magari per mio amore personale magari per temi trattati, associo al Cataluccio del Vado a vedere se di là è meglio e al Kundera dei libri “didattici”. È un libro, questo di Szczygiel, che insegna tante cose senza volerle insegnare, che dice e apre mondi che vanno poi approfonditi, è un libro di aneddoti storici, è un libro di persone, anzi, di Persone, con un nome un cognome una storia o magari solo un ritratto, un capitoletto, il tempo di una chiacchierata, il tempo di una porta sbattuta in faccia. È un libro complessivamente incompleto e proprio per questo aperto. (desidero però far notare che ogni capitoletto è chiuso con grande maestria, ognuno ci dona di quei finali al bacio, quelli che si può poggiare il libro e gustarsi l’ultima frase).

Cose mie da approfondire:

-Adattamento come forma di autodifesa di fronte a una minaccia onnipresente (riflessione sul soldato Sc'vèik)

-The plastic people of the universe

-Charta 77

-Kafkarna

-Literarni brak


giovedì 21 luglio 2011

Forse dovevamo capirlo subito


-         Forse dovevamo capirlo subito che non poteva funzionare.
-         In che senso non poteva funzionare?
-         Ma sì, non può funzionare, siamo stati degli stupidi, avremo dovuto capirlo, avrei dovuto capirlo, soprattutto dopo...
-         mi stai lasciando?
Silenzio
-         non è che le persone si lasciano e si prendono, non abbassiamoci anche noi, ti prego, al linguaggio pieno di virus usato dalla tv e dai fumetti, si investe in relazioni, si assecondano stimoli e impulsi...
-         ma che dici? Ci sono fumetti scritti benissimo, ma tu, al solito, ti metti in cima alla sedia e guardi giù. E quello che ti sembra diverso dal tuo stile diventa irrimediabilmente peggiore.
-         Non cambiare argomento, oppure sì, cambialo, fai quello che vuoi. No comunque, non voglio lasciarti perchè non ti ho preso. Per un periodo abbiamo provato a stare insieme ma non funziona e non ho intenzione di accanirmi per fare in modo che funzioni. Forse abbiamo nature incompatibili, o se non è così non so, di certo non vogliamo le stesse cose. Mi sembra di percepire nitidamente, a volte, la fatica che fcciamo.
-         Perchè ci giri intorno, perchè fingi di addolcire una piccola che così si fa ancora più amara. Perchè butti la colpa su entrambi anzichè ammettere che ti sei stufato? No, tu mi guardi dalla tua sedia e dici che abbiamo nature diverse, che percepisci che facciamo fatica a stare insieme. Facciamo. Così dici. Ma io non faccio fatica, e se la faccio magari mi va di farla, è lecito voler fare fatica, no? Una buona parte della nostra cultura del cazzo è basata sull’idea che è sacrosanto e giusto fare fatica...
-         Perchè hai bisogno di sentirti rifiutata? Perchè mi obblighi a farti soffrire? Perchè non guardi alla realtà e non ti togli le vesti della vittima? Non ti sto rifiutando, e mi rifiuto, scusa la ripetizione, di rifiutarti. E non solo perchè sei tu, in generale non potrei mai rifiutare qualcuno, è del tutto fuori luogo, poco etico, incivile. Non si rifiutano le cose, figuriamoci le persone. No, mia cara, non ti sto rifiutando, sto piuttosto dicendo che la nostra relazione non funziona, è affaticata e pregna di dinamiche sbagliate, e io non ho abbastanza amore e pazienza e tempo da investire nel recupero di questo rapporto.
Silenzio
-         ok, credo che basti, credo di aver capito. E sì, ora credo anche di essere ferita abbastanza da starmene zitta e lasciarti andare. Ah no, scusami, non posso lasciarti andare visto che sei figlio del libero arbitrio. (risata amara, labbro che scende a sinistra, occhi che si colmano di lacrime).

Lui ha ragione, lei sapeva che sarebbe finita così. Avrebbero dovuto accorgersene da subito. Forse se ne sono accorti da subito. Ma le cose si mettono a tacere in amore, no? Mai si colgono i piccoli segni. Si evita di riconoscere quella smorfia che da subito ci irrita. La si evita fino a quanto tutto il viso non si fa smorfia. E allora l’amore finisce e scompare il viso. Forse funziona sempre così. Loro non hanno scuse. Non ne hanno nemmeno bisogno visto che la cosa è nata sviluppata e finita tra le loro mani. E noi? Siamo attenti o abbagliati? Fingiamo di non riconoscere che non può che finire? O forse ci crediamo davvero? E lui, che sembra così saldo, diplomatico e corretto, lo è davvero? Non si sta nascondendo dietro alle parole? Avrà sofferto anche solo un istante per la fine di questo amore? E poi ogni cosa fa storia a sé, ogni rapporto è gestito a due, o a tre, ogni persona è un mondo di... bla bla bla.

mercoledì 20 luglio 2011

Lista della corsa sotto il sole

- A volte ho l'impressione di percepire il mondo in modo binario, un mondo di azioni divise tra il reversibile e l'irreversibile. / Per quando riguarda il reversibile nutro una fastidiosa indifferenza. Per quanto riguarda l'irreversibile mi ci trovo in mezzo, incapace di decidere per il troppo peso delle conseguenze.
- Siede su uno scoglio, su una montagna, sul cornicione di una casa, su un balcone, su un masso. Siede in alto sopra le cose (magari anche le case) siede e sta lì a pensare. E le sembra di fare un esercizio, l'esercizio del non buttarsi giù; perchè forse è difficile stare in cima e non ascoltare il desiderio di lanciarsi.
- A volte mi ti proibisco per volerti. Questa frase è nata dalla percezione di come il proibito divenga irrefrenabile desiderio proprio perchè proibito. Intendo provare a svilluppare uno stile di vita, un percorso esterno, in cui proibendomi il dovere lo faccio diventare viscerale necessità.

martedì 19 luglio 2011

Mavi

immagine tratta e modificata da In una lontana città
Ho sognato che sfrecciavamo tra i laghi
poi ho capito che ero sveglia
come un'ape non regina indirizzavo le curve, immaginando spavalda di grattar la terra col ginocchio!

mercoledì 13 luglio 2011

pensieri nel mezzo

oggi che le parole sono chiuse col lucchetto nella testa, di nascosto persino dal pensiero, e si uccidono senza badare alle conseguenze.
In questo giorno di lutto del razionale. Sono nelle gallerie del vento, in silenzio.
Qui dove la natura vince. Dove irrompe.
Cammino sperando di non incontrare la fine.
Sento il peso dello smalto sulle unghie.

Il lago si fa di liquido metallo, le nuvole, le montagne, tutto è sui toni del piombo, per un attimo ancora un po' di sfondo bianco, lontano, un po' di verde ai bordi, per ricordare che il mondo è a colori.
Poi puf, inizia la tempesta.

così ho camminato
così ho sentito il peso dei vestiti aumentare passo dopo passo
così ho smesso lenta di sentire il freddo
e gli occhiali scivolavano dal naso gocciolanti
e i capelli erano spugna
e l'acqua colava tra le gambe sulle braccia tra i seni
e l'abito militare era d'un verde sempre più scuro
e le scarpe ad ogni passo si inzuppavano
e il quaderno, alla fine, aveva tutte le pagine incollate.

Il silenzio ha di nuovo i denti


Casa vuota, e grande. Apro le finestre, le porte. Vorrei sentire il vento, vorrei pioggia fitta a bestemmiare nel cielo. Invece tutto rimane sospeso nell’aria. 
Il caldo, il caldissimo, la lucidità, i ricordi. 
La conversazione del pomeriggio, le ombre dei giorni scorsi, l'amore della notte passata.
Tutto fluttua confuso. Smetto di vedere bene. Mi addormento.
Mi sveglio di colpo, proprio quando nel fumetto la zia stava facendo una fotografia importante. Che fotografia? Sono confusa, mi fa male il collo per la posizione sbagliata del sonno nel pomeriggio.
È ancora tutto sospeso, la testa a rilento schiaccia le tempie, nemmeno le macchine in lontananza fanno compagnia. Il mio letto sembra ora un campo da calcio abbandonato.
Casa vuota, il silenzio ha di nuovo i denti, il silenzio mi mangia le cosce.

martedì 28 giugno 2011

Stazione centrale (appunti E,3 - considerazioni sulla grande città)

Gente che scorre verso l'uscita come un fiume irregolare. Tacchi, scarpe ginniche, scarpe basse. Nere, a punta, eleganti. Sandali, sabot. Quest'anno vanno indubbiamente di moda le zeppe, come ogni anno forse. Sul pavimento di marmo il ticchettio diventa soffice per gli altissimi soffitti, diventa cotonato, diventa gocciolio di foglie. Guardo la gente dalla metà in giù, non m'interessano oggi i loro visi, nemmeno dove scappano, già credo di sapere da chi. Cammina buffa la gente, cammina in modo personale. Forse c'è più naturale manifestazione della personalità camminando che non parlando, vestendo, agendo. Come se la camminata fosse tanto un prodotto del corpo e riflesso dello stile di vita da rendere piuttosto difficile una manomissione (manipolazione?) esterna della stessa. Intendo dire che la camminata delle persone è spesso involontaria, incontrollata, anche quando la persona è posata, anche quando la testa esercita un controllo su tutto e filtra il sé per meglio presentarlo alla società... forse la camminata ne resta fuori, dimenticata. Come il ciuffo di capelli che dietro alla testa esce impertinente dallo chignon. Cammina buffa la gente. Non solo chi sta sui trampoli e trascina un trolley sfidando lo scheggiamento del recente smalto sugli artigli della destra, ma proprio in generale. I piedi a volte sono a papera, il bacino è in avanti, in dietro, ondeggia. Il corpo ha una posizione che curiosamente sembra innaturale. C'è chi trascina un piede dietro l'altro, chi marcia, chi alza molto il ginocchio, chi rimbalza quasi ad ogni passo. C'è persino chi s'inciampa nelle proprie ombre, e non cade, grazie a un maestoso colpo di reni.

mercoledì 22 giugno 2011

ATTENZIONE!

I non luoghi non sono mai stati così popolati.
 stazioni/ aeroporti /ikea?/ web/ zone franche/ centri commerciali/

Percezione del corpo necessaria per la comprensione del viaggio:

Il passaggio da una vita all'altra (ex: trasferimento) sembra senza collegamenti se non quello del corpo fisico che vive l'una, l'altra e il viaggio stesso. Bisogna forse affidarsi al corpo quindi per capire i cambiamenti.

cambiamenti climatici: il corpo soffre
cambiamenti alimetari: il corpo subisce
cambiamenti linguistici: la lingua s'ingarbuglia

Math

- La matematica la si crea o la si scopre soltanto?
Se con dio ho una teoria a riguardo, qui mi assalgono dubbi grandi.

- Numeri perfetti: numeri la cui somma dei divisori dà il numero stesso.
6
28
496
8128

- Meno di due anni fa ho scritto:
Trovare – cercare = inventare

Persone VS Persone (appunti sulla grande città)


1 dormicchia
5 ha le unghie finte
11 ha gli occhiali grandi
6 è schiacciato sulla porta scorrevole
100 guarda fuori pensando a ieri, o a domani, comunque niente di importante

domenica 12 giugno 2011

dolce Referendum (Appunti seggio 8, parte 1)

Il signore alla votazione ha ottantacinque anni, gli occhi azzurri e scintillanti, due denti in meno nell’arcata inferiore. È torchiatello, ha pelle piena di rughe, ma non ancora zeppa. Indossa il vestito della festa, un completo blu, scarpe lucide. Ha capelli radi, bianchi, corti. Parla parla parla. Ha la saggezza del passato, quel tipo di saggezza che non dimora né nel cuore né nella testa, la saggezza che semplicemente dimora nel passato, nella terra. La saggezza dell’ancor prima di nascere.
Racconta un barzelletta, - c’è una vacca che decide d’andarsene dall’Italia, parte pian pianino per andare in Germania, quando è al Brennero incontra un asino, che sta facendo la strada opposta. Si fermano a parlare, la vacca guarda l’asino e gli dice: “devo proprio andarmene dall’Italia, sono stufa, non fanno che mungermi”, l’asino la guarda e le dice “va’, io me ne sto andando dalla Germania proprio verso l’Italia, di sicuro prima di arrivare a metà mi fanno sindaco”-
Il signor Occhio vispo continua a parlare, del re e del duce, entrambi vissuti, della guerra, del lavoro, delle fabbriche, dei sindacati, delle pensioni. Con le mani cicciotte sottolinea il suo vissuto, con le sopracciglia richiama l’attenzione, con la forte risata sdrammatizza la vita intera, e lo scorrere incessante del tempo. Alza le sopracciglia e ride e racconta, e vorrei che continuasse, senza ascoltarlo, perchè ha la voce del nonno e l’educazione dei vecchi, e il sorriso di chi in gioventù i denti li aveva tutti e di guai ne combinava parecchi. E fa per uscire, ma sull’uscio si gira e aggiunge una cosa, e chiede scusa e fa per uscire, e poi si blocca e annuisce e riparte e così un paio di volte, e vorrei dirgli Kuku, e invitarlo a star dentro, perchè è bello, bello, Bello come chi s’attacca, senza pretese, alla vita così com’è.

mercoledì 8 giugno 2011

Lista mancata della pioggia continua

Non che oggi abbia continuamente piovuto, eppure mi sembra che da giorni stia piovendo sempre. Non che quando piove io sia particolarmente brillante o ispirata, ma corro di meno e cammino di più, certe volte senza ombrello. E capita che quando piove sottile mi si riempia più del solito la testa di pensieri, di progetti, di idee, di testi e di immagini. Li perdo sempre tutti, li perdo perchè piove e non ho la pazienza di cercare un riparo e cercare la penna e cercare il quadernetto e cercar di scrivere, li perdo perchè non ho memoria per queste cose; sono così abituata ad affidarmi a memorie esterne da rimetterci, mi sa. Però ricordo altre cose, ricordo tanti, tantissimi dettagli e parole dette e parole immaginate, ricordo benissimo le conversazioni (quando ascolto).
E oggi ricordo questa:
silenzio
sorriso
che ci fai qui?
dovevo far firmare un documento, tu?
lavoro laggiù
ti trovo bene (e comlimenti con gli occhi e lusinghe leggere)
grazie, sarà l'amore
l'amore?
non è che sia certa degli effetti estetici dell'innamoramento, ma forse sì, magari il viso ne guadagna in luminosità.
silenzio
capisco, quindi adesso frequenti qualcuno
mh mh (affermativo)
[passa una signora, è una donna dell'est, ha la pelle chiara, lo sguardo fiero, i capelli un po' biondi un po' grigi, non è molto alta, indossa orecchini d'oro molto corti, è piuttosto in carne, veste male con una maglia bianca e troppo larga a mezze maniche, i jeans senza forma, ha una borsa con la tracolla troppo corta, di certo ha un neo sulla nuca, poco più in basso dell'attaccatura. I capelli sono corti, quei tagli pratici da signora. Ha una luce negli occhi, una sorta di orgoglio, d'indifferenza a ciò che capita attorno. che abbia un obiettivo proprio scritto nella fronte? che stia andando a un appuntamento? No, per l'appuntamento si sarebbe vestita meglio. Forse va a prendere il bambino a scuola. Forse si è appena licenziata. Ecco, può essere questo. La immagino togliersi il camice (il grembiule? boh), appoggiarlo sul bordo della scrivania, prendere la borsetta beige e uscire quasi sbattendo la porta, pensando di certo udało się!/koniec!/..., pensando un ce l'ho fatta, finalmente... e adesso inizio a vivere... e andate a cagare. Ha proprio quello sguardo mentre passa ed è come se su di lei non stesse piovendo, è addirittura come se non stesse camminando, ma piuttosto scivolando, o muovendosi su un tapis roulant.]
cosa dicevi scusami?
non hai ascoltato?
scusami, pensavo ad altre cose... ripeti?
no, non importa. Ma quando torni?
a dir la verità non lo so, le lezioni son finite, quindi tornerò quando dovrò, poi t'ho detto /interrompe
sì (sorride), allora lasciamo che sia il mondo a decidere?
mah, lasciamo che il mondo provi a mischiar le carte, a decidere però ci pensiam noi, che dici?
carezza sul braccio, bacio sulla guancia
ciao allora
ciao.

E le spalle si voltano e la pioggia continua un po' a scendere, e il passo non accelera né rallenta, e la testa non si gira e pensa che forse la donna, se non si è licenziata, ha saputo che sua figlia si sposa, o magari ha appena detto il fatto suo a un rompiscatole, o comprato un volo proprio per laggiù, il laggiù per cui ha lavorato gli ultimi due anni. - e di colpo il tapis roulant diventa una passerella d'aeroporto, come quella d’Istanbul, che non c’è per davvero, ma è come se ci fosse là in alto, tra i due edifici, lì dove si vede il sole arancio e pieno che scende tra i velivoli, tra i minareti.

lunedì 6 giugno 2011

La nuvola non sparisce, diventa pioggia

Questo è uno schifo...
Dobbiamo fare qualcosa. Approfittare di questi ultimi anni di vita. Vogliamo dormire e giocare al bingo mentre aspettiamo la morte?
Non lo so. Tentiamo di cambiare il mondo. E' una missione seria e non possiamo lasciarla fare ai giovani. Loro hanno già tanti pensieri con il sesso e le droghe...

(tratto da Rughe, di Paco Roca)


L'assedio (incipit)


Mai ho avuto paura della morte in sè, per lo meno della mia, intendo. Sono una di quelle persone sciocche, che temono l’agonia, la sofferenza, il dolore piuttosto che la fine. Mi alleno. Ho così paura del dolore che me ne impongo a piccole dosi quotidianamente, per prepararmi a quando riincontrerò quello vero. Così da essere allenata, così da non trovarmi in balia di, come una sprovveduta. Per giorni non mangio ad esempio, così che il mio corpo si abitui a sopportare la fame. A volte lascio che le mani sbattano con forza sui muri, sulle ante, mi schiaccio le dita nella portiera, così che gli arti portino già segni, così che i denti si serrino silenziosi in automatico. Mi mordo, mi mordo le nocche delle dita, le spalle, mi mordo fino a che non vedo il sangue, così da poter attaccare per prima, da non subire solamente.
Non è da sempre che mi alleno, con oggi sono sette mesi. Sette mesi fa, oggi, mi hanno colta impreparata. Dopo l'assedio, così almeno chiamo l’evento, pensavo di voler morire, invece ho deciso di non aver più paura della morte, ho deciso di non essere mai più una vittima, ho iniziato il mio percorso.

venerdì 3 giugno 2011

Ovomaltine

Mai saputo cosa fosse Ovomaltine per venticinque anni, immagino che il lettore invece lo sappia e si chieda “ma dove ha vissuto questa?”, e quindi non mi lancio in una stravagante spiegazione sulle proprietà della polvere d’orzo (ho comunque scoperto che è prodotta da Novartis, una ditta farmaceutica...), tra il resto sono un po’ infastidita dalla scelta del sito ufficiale che si propone solo in tedesco e francese. Ma a parte questo e la curiosità della scoperta tardiva, e il fascino svizzero, e la carta arancione e gialla che proprio evoca un tempo passato, di campagna e cioccolatini rubati di nascosto e mangiati nel fienile... a parte questo, Ovomaltine mi ricorda un tappeto verde che ricopre una montagna, anzi, almeno due, e di un fiume che nella valle s'allarga e si stringe perfetto come un profilo. E d'erba alta che mormora pettegolezzi d'amanti. Ovomaltine mi ricorda un pranzo in mezzo al fiume, tornanti su tornanti, una notte di centomila stelle almeno dentro e fuori l'acqua calda della terra. Ovomaltine è da adesso una testa appoggiata alla spalla, una corsa a chi arriva prima, una mano che mi fa ombra sugli occhi stanchi di sole. È il sapore fresco e prefetto di una bevanda che da nota e familiare diventa nuova e da sperimentare. È caramelle gommose alla frutta non più gommose nel portaoggetti dietro al freno a mano, e guardare dal finestrino e di colpo confondersi su chi si muove, lo sfondo o proprio io? Ovomaltine è una strada di sassi color argento, e un lago freddo dove immergere appena i piedi, è la canzone giusta per certi momenti di stachezza, è una carezza sui capelli quando i denti nervosi mordono le nocche.

martedì 24 maggio 2011

Non vedo l’ora di diventare bambino

Gigi Meroni nasce il 24 febbraio del ’43 e muore il 15 ottobre del ’67. Gigi Meroni fu un calciatore, ma secondo me sarebbe potuto essere chiunque volesse essere. Ah, era anche un innamorato, e qui, romanticamente, vorrei dire soprattutto.
Quando provo a scrivere le cose con ordine è perchè mi rendo conto che ho un subbuglio dentro, così è in questo caso, apro con la sua data di nascita e di morte, un paio di frasi per accennare alla persona di cui parlo... ma dentro, nella pancia, preme il sentimento. Si agita la voglia di dimenticarsi dei fatti, dei chi dei come dei quando (che in questa storia, meglio forse dire vita, sono davvero determinanti) e si sente l’impulso a buttare fuori tutto e subito. Si sente che esce dalle dita il fatto che è morto quando non doveva morire. Si sente che i lucciconi agli occhi già vestono di romanticismo (senso artistico-culturale del termine) una figura eclettica, originale, quasi per certi versi eccentrica, eppure semplice, eppure vera, eppure capace di un grande amore.
Ecco che torno qui, all’amore. Sì perchè di tutta la faccenda la cosa che più mi strugge è questo amore, tra lui e Cristiana. Un amore che la società che “innalza la verginità come valore” non permette loro di vivere pienamente. Son certa che chi non conosce la storia non può capire questo riferimento. E voglio che venga capito. Riinizio con l’ordine, chissà che non ne esca qualcosa di buono. Si conoscono per caso e s’innamorano, Gigi e Cristiana. Si innamorano di quegli amori grandi, di quegli amori di altri tempi, diremo oggi, ma forse a me piacerebbe dire di quegli amori rivoluzionari. La famiglia di lei la obbliga a sposare un altro uomo, lei lotta e prova a resistere, ma non ce la fa e si sposa. Però non consuma, si conserva illibata, non cede al povero marito (e dico povero perchè immagino non sia un tiranno brutto e cattivo, ma solo un uomo che si è sposato alla persona sbagliata e che comunque vive rifiutato...), poi finalmente, complice se non sbaglio uno zio, se ne va dalla casa coniugale e prova a chiedere l’annullamento del matrimonio. Numerose le visite per controllarne la verginità, anni previsti prima di una possibile dispensa da parte del pontefice. Ma la coppia, Gigi-Cristiana non molla, sta insieme, trova una mansarda nascosta, vive insieme, nella castità, nell’amore, nella speranza di poter costruire un futuro. E lei fa rinunce, e lui fa rinunce, e l’amore cresce. E il 15 ottobre del ’67 lui muore. Investito da un suo tifoso, futuro presidente del Torino Attilio Romero.
E uso parole altrui, perchè perfette così come sono, per dire quello che questa storia mi fa sentire:
“poi trovo davvero struggente la fisicità mancata del loro amore. Credo che un rapporto che non sia anche carnale sia davvero manchevole, carente di un fondamentale elemento di unione e conoscenza e sintonia e legame. Però nel loro caso è diverso. Il loro non far l'amore non è scelto, ma è obbligato, è necessario per poter riconquistare la libertà di Cristiana, per poter conquistare la libertà di potersi amare senza vincoli e ostacoli pubblici e privati. nel loro caso l'astenersi mi sembra un grande gesto di amore, di speranza, di condivisone di un sogno e di un futuro. Struggente pensare che  la morte  abbia loro impedito di essere l'uno dell'altra almeno per una volta.”
E infine cito un libro che è anche un dono, e che attraverso la figura del Ribelle Granata riesce a dare una pennellata realistica e critica a un tempo non distante eppure, per fortuna, già lontano.


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