martedì 29 novembre 2016

la formula

Varenna è un posto di sole. Ogni volta che vado c'è il sole, ci sono piante esotiche che s'affacciano sul lago, ci sono pendii da esplorare e bei palazzi rivolti all'acqua al vento.
Sopra Varenna, lo si vede andandoci in macchina, ci sono belle casette ben rientate. Tante volte passando mi son chiesta cosa fossero. E sempre chi guidava mi diceva: un cimitero.
E alla fine ci sono andata, c'è una bella passeggiatina e s'arriva al cimitero inglese. Un cimitero bello, tutto orientato verso il sole, con una vista mozzafiato.
Non sto qui a dire i perché e i percome del cimitero e del suo nome, si sappia che è soleggiato e ventoso, caldo, e pare una finestra sul paradiso. E è ricco, ci sono le tombe orientate al sole al primo piano e le casette al secondo, tutti i bei cognomi in fila, a grandi caratteri. Ma non scrivo per quello, scrivo - e di fretta perché c'è un gran casino e è ora di cena e attorno parlano sia il papà che la bambina - perché su una di queste tombe al primo piano, di fianco al nome e alla foto c'era una formula: VI = (MC + AF)/E
Proprio questa formula, e sono curiosa e l'ho scritta su un pezzo di carta pronto a esser perso, e ho voglia di scoprire cos'è. Mi pare già bellisima.

martedì 15 novembre 2016

Appunti sul corpo

All'università ho scoperto di avere un corpo. Me lo hanno detto. A un laboratorio teatrale, in una sala grande e luminosa, con pavimenti in legno, ci hanno guardato e ci hanno detto: Avete un corpo.
E allora ho capito che avevo un corpo e che potevo usarlo. Decidere come camminare, come ridere, se e come allenarlo (questo dello sport è arrivato dopo), allungarlo, torcerlo. Un corpo tutto mio. Non so perché prima non lo avessi mai saputo. Non ci avevo mai pensato. Forse è colpa della religione, o dell'educazione, degli ideali (non nel senso di ideale-perfetto, nel senso di idee alte per cambiare il mondo), e di una sorta di pudore di tutto quello che esce dal corpo.
Il sudore no, le feci no, gli odori no, i rumori no – l'urina è concessa, lo sputo è concesso, il brontolio della pancia no, i rutti no, neanche i peti.
Che percorso per dire queste parole. Anche solo dirle. Anche solo riconoscerne l'esistenza.
Azioni consentite poche e private, e per il resto negare, assottigliare, rendere invisibile.
Gli anni Novanta.
Comunque all'università ho capito che avevo un corpo e che non mi piaceva per niente. E neanche agli altri piaceva, era troppo grosso o troppo molle. Sì begli occhi e bel viso angelicato e i capelli lunghi lunghi, e la schiena forte. Ma poi i fianchi erano larghi e la pancia forse era grossa anche se la tiravo in dentro. Ma intanto facevo teatro e capriole, e allargavo le mani come nella commedia dell'arte, e allenavo la voce fin nella schiena, e respiravo, respiravo. Non so quanto ho respirato negli anni di teatro, in tutti i modi possibili, sessioni di mezz'ora di respiro col sonno che bussava negli occhi.
Respirare sì, russare no. Sì anche a certe voci che nascono dalla pancia, dalla gola. La voce del dentro, né della bocca, né della testa; del corpo.
Piccoli passi banali per una parte di mondo, piccoli passi mai fatti per un'altra parte di mondo (certi vecchi, certe vecchie. Ho sentito storie di vecchie che non si sono mai guardate nude, che si sono lavate a pezzettini una vita intera.)
Eppure per i vecchi le feci sì, gli odori sì. Tutto il corpo che macera (marcisce?) dentro, in qualche modo, sì.

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