lunedì 30 gennaio 2012

Le cose della vita.

Oggi ho ricevuto un grande dono. I doni più grandi son quelli dal nulla, senza motivo, da nessuno. Quelle cose che il caso ci fa incontrare. Essendo la persona più fortunata del Trentino sono piuttosto abituata ai doni del caso, persone di solito, o parole. Persone belle, parole belle, ogni tanto un libro. Questo è il dono di oggi, un libro, un gioiello. Un'ora o poco più d'immersione.
Si tratta di Servabo, di Luigi Pintor. Quattordici capitoletti di qualche pagina ciascuno, il ciclo di una vita e forse di un'epoca. Si apre con l'odore dell'infanzia, quella stessa infanzia di campagna, in questo caso però di Sardegna, e ci accompagna nella guerra, nel dopoguerra, nelle redazioni dei giornali, nei progetti, nell'amore anche, nei dolori della vita, nei cicli delle cose e dello stesso mondo. Non ci sono eroi, non ci sono nomi, non ci sono date. Non ci sono vendette, non ci sono duelli né strazio. C'è e ci viene regalata una riflessione sulla vita da un uomo che ha ceduto alla tentazione di voltarsi indietro e restituire alle cose una durata che di per sé non hanno (per usare parole sue), ci viene stesa davanti agli occhi e e tra le mani tutta una serie di punti d'arrivo tanto semplici quanto, proprio perché così semplici, difficili da cogliere, da accettare, da confermare.
Vorrei scriverlo, vorrei segnarmi questi punti e uno a uno impararli, scriverli sul muro per tenerli presenti; è che non sono i miei punti, non sono il mio frutto. Stringo il libro al petto però e sospiro innamorata e toccata, curiosa e lungimirante, bambina che sguardo in alto e occhi accesi vive il domani come futuro intero e insieme donna che occhiali appannati e occhi miopi guarda un po' da sopra quanto accade e si chiede a che punto è.

mercoledì 25 gennaio 2012

appunti sui giorni senza pioggia

Il troppo.
Ho cose da dire oggi. Ho parole per dirlo, son sicura. Si tratta di cercare, di capire e poi forse di dire e far capire. Pioggia, una vita senza pioggia, da giorni e giorni niente pioggia, e non manca a nessuno. A me manca la pioggia. Un minuto di pioggia. Un secondo di pioggia. Una goccia di pioggia che s'incastra nel sopracciglio. Una goccia fresca, fredda addirittura, che arrossi il viso, che bruci col freddo, un minuto.
La fatica ha motivo d'essere, così il dolore. Vivere. Cercare. Voler sentire. Voler sentire. Voler sentire qualcosa a ogni costo. Provocare. Spostarsi un passo troppo in là. E il punto non è il passo, è il troppo. E il troppo è quello che si cerca. Troppo perché senza troppo a volte non basta.

Essere l'uragano.
Non si tratta di due uomini che si distruggono in x minuti.
Non si tratta di dimostrare la propria forza, non si tratta solo di soldi.
Sono sicura che si tratta di altro, si tratta di sé. Di superare quel limite. A ognuno il suo, per i pugili è più evidente, per gli sportivi in generale lo è.
Corse sotto la pioggia e addominali e flessioni e salti alla corda. E tute per sudare e alimentazione controllata e svegliate all'alba, e astinenza, spesso. Comandi, durezze, unghie che si rompono, corpi che sanguinano, ginocchia che pungono, denti che sempre più stretti si stringono, dolore solo nello sguardo, solo nell'istante della fitta.
Per cosa? Chiunque potrebbe chiedersi per cosa, per chi? Ma quella medaglia, ma quel riconoscimento, quei soldi valgono davvero tutti i sacrifici?
No, di sicuro no. I sacrifici, me ne sono convinta col tempo, hanno valore in sé, hanno valore anche e soprattutto se fini a se stessi. I riconoscimenti, i soldi la fama le medaglie, sono il contorno, il necessario sostentamento. Il vero è dentro. La vittoria è dentro. A qualcuno basta che la vittoria sia dentro. E io sono  convinta che siano questi i veri vincitori, anche quando l'incontro è con se stessi e anche quando si tratta solo di una corsa che continua anche su quella salita che mozza il respiro.

domenica 22 gennaio 2012

c'era un vento caldo che pareva poter guarire chiunque da qualsiasi male

Il ristorante era proprio sul mare
c'era un vento caldo che pareva poter guarire chiunque da qualsiasi male.
 
(Gipi, Appunti per una storia di guerra)
Mi sembra di poterlo sentire tra le dita, il vento caldo. Chiudo gli occhi. Lo scirocco viene dal sud, porta il sapore di tè neri dolcissimi col latte, e il sibilo delle tende del deserto. Abbasso il volto, sento i capelli tremare. Lascio che soffi forte e cancelli le montagne carceriere.

venerdì 20 gennaio 2012

Una donna, carica di borse e sacchetti, si era alzata e aspettava vicino alla porta la fermata successiva. Dai suoi pacchi fuoriusciva un tubo di aspirapolvere.


Fuori campi verdi si alternavano a impianti industriali. Continuava ad avere il respiro affannoso. Il fiato appannava il finestrino. Si appoggiò indietro e passò la mano sul vetro, sulle chiazze fresche di condensa. Da bambina si divertiva ad alitare sui vetri e a disegnare dei visi. Guardò fuori. Piccoli insediamenti galleggiavano in mezzo a orti urbani. Lì in ogni angolo vivevano persone, persone che si alzavano e andavano a dormire, bevevano caffè e vino, tagliavano il pane in fette, si preparavano le borse, partivano e tornavano a casa. Portavano a spasso il loro cani, le loro storie. Davano da mangiare ai conigli e annaffiavano le bordure, raccoglievano l’insalata e i fiori. Erano affamate e sazie. Si amavano e si uccidevano. E il tram attraversava ogni giorno le loro vite come un film, un film che nessuno vedeva.
Si guardò intorno. Un vecchio seduto dietro il conducente sonnecchiava, con in grembo una cartella marrone. Aveva le mani screpolate e abbronzate. Di fronte, un po’ di sbieco, due giovani dinoccolati nascosti dietro storti berretti da baseball si baciavano e sprofondavano dimentichi di sé in quell’abbraccio traballante di tram. Una donna, carica di borse e sacchetti, si era alzata e aspettava vicino alla porta la fermata successiva. Dai suoi pacchi fuoriusciva un tubo di aspirapolvere. [Overath, Nahe tage]

E tutto accade in contemporanea, vengono diagnosticate malattie e curate malattie, e si fanno incidenti e si bacia qualcuno per la prima volta, e piove e c’è il sole, e gli aerei sono in ritardo e ci si annoia all’aeroporto mentre qualcun altro aspetta un vagito. Tutti in attesa della notizia. Tutto in contemporanea, giorno e notte, bello e brutto, dolce e amaro, in tutto il mondo, in tutti i mondi. Quante volte, mentre fumiamo una sigaretta sul tetto ci accorgiamo che lì sotto, per le strade, camminano decine di persone, borse in mano, bambini in mano, lacrime agli occhi, incidenti stradali, chiavi nel portone, fazzoletti al naso, baci sulle guance, parolacce che volano, pensieri che si intrecciano. Quante volte, in treno, il nostro vicino guarda fuori dal finestrino e ci chiediamo perché abbia quel cerotto sull’indice o quel tatuaggio sul collo o quello zaino così grande… chissà dove va, chissà cosa cambia. Non siamo i soli - non siamo il centro, nemmeno quando il dolore più grande ci distrugge. Siamo tutti mondi che si incrociano, magari per sbaglio, mentre tutte queste notizie si diffondono, dilagano, sovrastano. E non sono notizie da niente, sono notizie che cambiano vite intere, continuamente, fanno deragliare, incasellare, straripare, ovunque-chiunque. Beh, ogni tanto, solo ogni tanto, o forse più spesso di quanto mi accorga, con un moto del tutto ramdom, la notizia capita a me, bella o brutta che sia, e a me tocca il cambiamento. [Cinque pedine, S.P.]

Ecco, l'abbiamo visto tutti, e tutti l'abbiamo percepito come una scoperta, come un qualcosa di grande e incredibile. Un mondo di formiche, persone, abitudini, emozioni - ognuno la sua vita, ognuno il suo mondo. L'abbiamo scoperto e non abbiamo più potuto dimenticarlo, perché la sola idea di pulsione e strade che s'incrociano e binari che deragliano e gli amori le lingue i supermercati. La sola istantanea consapevolezza di quanto tutto sia grande e complicato, ingestibile e incredibilmente potente fa sentire (paradossalmente e inevitabilmente) vivi.


giovedì 19 gennaio 2012

ospedale giorno 1 _appunti sull'impotenza

Il piccolo signore sdraiato sul grande letto, che poi non è un vero letto, è una sedia, una sdraio in pelle con schienale inclinabile. Il piccolo vecchio sdraiato e vestito di grigio e abbandonato alle sue mille pieghe. La pelle che s'arrotola su se stessa, il signore scompare dentro la sua pelle, la carne si ritrae la pelle s'accartoccia. La dottoressa gentile di colpo lo guarda mentre aspetto seduta il mio turno, gli offre una coperta “meglio, grazie”risponde il signore, grato e abbandonato alle cure in una rilassata impotenza.

Un'immagine, un momento, una chiave: la rilassata impotenza. L'impressione che si ha guardando chi sa di non aver potere e lo accetta senza lottare. Di chi si affida all'altro perché non può fare altro.
Il signoruzzo aspettava fuori dalla stanza, una signora lo spingeva su una sedia a rotelle, la moglie forse, capelli grigi, la permanente, vestiti beige, un fare energico. L'ha accompagnato dentro e poi è uscita ad aspettare fuori la fine delle trasfusioni. E il vecchio dentro era di colpo solo, sulla sedia a rotelle, impotente. Avrei potuto spingerlo a destra e sinistra, magari avrebbe riso. Ha aspettato in silenzio, nemmeno un cenno. Poi l'infermiera l'ha issato sul letto, sulla poltrona, e lui era lì, sembrava quasi che scivolasse giù, ma forse scivolava solo nei vestiti. E chissà perché, ma l'infermiera gentile ha pensato che forse aveva freddo. E aveva freddo. Sono rimasta colpita da quella che chiamo rassegnazione, ma che forse è semplicemente abbandono alle cure degli altri.

giovedì 12 gennaio 2012

odi et amo

così è.
sono proprio combattuta nei miei sentimenti verso D'Annunzio.
ne ammiro la coerenza, il potere, la seduttività, il grande naso, l'imprevedibilità, il carisma, l'indagine nascosta delle sue parole, in ognuna delle sue parole, la sua audacia.
ne odio l'arroganza, l'intolleranza, l'esuberanza, l'egocentrismo, la scrittura così pesante e intricata, le descrizioni minuziose e l'amore altrettanto minuzioso del superfluo.
Eppure guardo questa foto fatta in gioventù e provo grande tenerezza, e sorrisi e anche voglia di mordergli una spalla.
1. forse la scienza della vita sta nell'oscurare la verità
2. la carne non è, se non uno spirito devoto alla morte
3. il mio cervello è alimentato dal fuoco degli inguini
 .









e di lui scrive Ettore Janni:
E c'è in lui, per questo come per tutto, qualche cosa d'un fanciullo, nell'ardore delle predilezioni, nella candida ed elegante ferocia dei suoi disdegni, nella gioia e nell'orgoglio di vivere, nella immutata agilità fisica, nella superba fede in sé, nella freschezza perenne della sensazione o del pensiero, nel gusto di oltrepassare un limite e di abbattere un ostacolo, nell'amore profondo e semplice del costruire e del distruggere.

domenica 8 gennaio 2012

una giornata di libeccio


Una giornata di Libeccio è perfetta per andare in barca a vela.
Me lo ha suggerito un pescatore, in un gennaio color aprile.
Forse vecchio, eppure sembrava giovane, era vestito d'autunno, e chiacchierava. M'ha persino raccontato che nei giorni di bora, nella sua fanciullezza, ci si teneva per mano, grappoli di bambini, stretti stretti, e i centrali volavano, spinti dalle raffiche trattenuti da braccia come fili.
è iniziato tutto su un tram, no, prima, stavamo aspettando il tram, e lui aveva gli occhi rossi e parlava con l'amica di un'amica. Lì sì, sembrava già vecchio alla fermata del vecchio tram che fa un'unica tratta tutta in salita. Ho fatto i due gradini e lui era lì, quasi incerto se salire o meno, ma anche l'amica dell'amica era incerta, e alla fine siamo saliti tutti. Anche il tram è salito, lento, luminosissimo.
e poi è iniziata la passeggiata e il ghiaino sotto i piedi e la voglia di correre non fosse per gli stivali e la borsa e il cappotto blu. E la passeggiata era piana, e le foglie marroni sotto i piedi, e il mare a stendersi azzurro e giallo sotto agli occhi, e le rocce sulla destra, o a volte le terrazze al loro posto. Un paradiso, un'isola.
E poi la passeggiata sembrava finita, ma lui era lì e s'era ricongiunto e ha chiesto se si voleva continuare, e non si poteva non continuare, le gambe spingevano gentili, ai lati la roccia veniva morsa e massaggiata e esplorata e imparata dagli scalatori, e già si parlava della scalinata dei pescatori. E mi pareva proprio d'aver la gioia di vivere nelle gambe.
Così camminavamo, la cara amica, l'uomo del mare, l'amica dell'amica, l'amore.
Camminavamo un po' parlando un po' in silenzio. Camminavamo attraversando i paesi, parlando di vecchi confini, lasciando i raggi scaldare il cammino. E poi la scalinata ci ha portati in autunno, stretta e legnosa, odore di piante senza nome, di terra umida, di pietra lisciata dalla salsedine, le mani si tenevano e gli occhi ringraziavano il mondo per la bellezza che è. Alla panchina il panorama s'è aperto, il pescatore mangiava cioccolato, il sole baciava i visi, il vento era cheto, le piante silenziose, i tetti riposavano distanti, il mare frusciava senza sosta, come certe foglie d'ontano scosse dal vento.
Nessuno s'è mosso per un istante. Tutti gli occhi erano chiusi, l'anno era appena iniziato eppure il tempo era già senza unità di misura.

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