mercoledì 21 dicembre 2016

quel freddo lì

Da qualche giorno penso a Israele. Forse perché quest'anno è iniziato così e ancora non l'ho ben capito, né l'anno né quel pezzo di mondo.
Era caldo e freddo insieme. Sia fuori che dentro.
La cosa che turbava di più era quel senso di controllo, dappertutto.
L'aver paura di fare la cosa sbagliata o di fare la cosa qualunque al momento sbagliato.
Tanti militari, giovani, armatissimi. Tanti controlli, dei documenti, della borsa, metal detector addosso, spiegazioni, tantissime spiegazioni, ai militari, ai civili.
Israele è bellissima, almeno la parte che ho visto io. Tel Aviv ha spiagge che tolgono il fiato, su cui correre e camminare per giorni, ha onde alte, e tetti piatti, tante antenne e localini.
Gerusalemme è intatta, è un labirinto sotto e sopra, tra i cunicoli e i palazzi e le viuzze, e poi c'è la spianata che è tra i posti più belli che ho visto. E ci sono tramonti mozzafiato, e quella vegetazione bassa bassa e così esotica, per me delle montagne, quella vegetazione che a sé fa già vacanza.
E poi c'è l'accesso linguistico. Un pezzo di Medio Oriente in cui si parla inglese senza difficoltà, in cui si chiede e c'è risposta, almeno quando ci si perde, perché poi se si chiede altro, se si scava, non si trova niente. Rigidità.
Io sono stata bene, a parte il senso un po' claustrofobico di essere indagata, di avere addosso occhi che mi guardavano come fossi colpevole di qualcosa, ecco è questa la sensazione: in Israele ci si sente colpevoli del solo fatto di essere lì. Comunque io coi sensi di colpa ci vivo da sempre e quindi per certi versi era catartico nascondersi dietro a quelli in cui per forza ero innocente.
Comunque, dicevo che sono stata bene, ma poi mentre stavo per prendere il volo per tornare qualcosa ha mosso le acque della vacanza e tutto il torbido in qualche modo è risalito e a me è rimasta un pochino quell'immagine lì.
Siamo in aeroporto, appena entrate, il nostro volo dopo una vita, ché dicono che bisogna arrivare tanto prima, almeno tre ore.
Sulla porta una giovane ragazza, coda alta, sottile. Non so dire se vestita mimetica o hostess. Guarda i documenti, ci lascia entrare.
Lo spazio centrale è grande e vuoto, non c'è coda, né gente. Veniamo divise.
Io vengo portata da una parte da un ragazzetto coi capelli rossi e gli occhiali, c'avrà vent'anni, mi sta vicinissimo con la faccia, non mi lascia poggiare gli occhi su niente, li tiene incollati ai suoi. Parla inglese, mi chiede il mio nome, ha il passaporto in mano, sara passeggini, dico, mi chiede di togliermi gli occhiali e mi squadra, e gli occhiali non me li lascia rimettere fino a che non mi dice che posso andare. Mi chiede quanti anni ho, e io dico 34, mi chiede con chi sono qui, indico la mia compagna di viaggio, mi chiede quante volte sono stata in Turchia, gli dico un paio, forse tre, mi chiede quanto sono alta, rispondo, cerco di scherzare senza successo, mi chiede cosa ho visto di bello in Israele, rispondo le cose giuste ma resto sul vago, mi chiede quando sono stata in Turchia, provo a ricordare, dico date sommarie, mi chiede di che colore ho gli occhi, e mentre faccio per rispondere mi chiede che ci facevo in Turchia, e io dico turismo, a trovare un'amica che studiava lì, e lui mi chiede se mi sono divertita in questa vacanza, e io vorrei rispondere sì fino adesso, o anche sì se non foste così paranoici, o cose così, ma mi sa che non dico niente. Sono spossata e non vedo bene, mi sento insultata dal suo atteggiamento, atterrita. Mi pare di aver subito un'ingiustizia, non ho fatto niente di male e mi sento trattata come una criminale.
Poi mi lascia andare, ci scorta al controllo valigie, anche con la mia compagna di viaggio. Abbiamo solo il bagaglio a mano. Scandagliano ogni cosa, tirano fuori tutto, scorporano persino il burro cacao dal coperchio, guardano tra le mutande sporche. Trovano anche quello che non si sapeva ci fosse, e lo eliminano. Hanno strumenti strani e io sono molto confusa e spossata. Tra l'altro la notte prima a Tel Aviv ho fatto tardi e festeggiato e mi sono perduta nelle viuzze pronta a tutto. E tutta quella gioia in un attimo è diventata fredda, lucida, feroce.
Ecco, tra le altre cose mi porto via questa. Quel freddo lì.


martedì 20 dicembre 2016

io e la bambina, appunti

stasera ho riordinato le foto sul PC, sparse qua e là negli anni e nei luoghi e nelle cartelle e nel download c'erano alcune foto di me e della bambina.
non ci facciamo quasi mai foto, eppure nel corso del tempo il padre ne ha rubate alcune.
rubate, e si vede.
stiamo spesso un po' distanti, quasi a una distanza di sicurezza.
solo in un paio ci teniamo per mano camminando.


sul tenerci per mano camminando ho fresco un aneddoto, al posto di una foto.
un giorno ho accompagnato la bambina a scuola.
siamo partite da casa presto, perché io non ero sicura del parcheggio e della strada e siamo due ansiose.
in macchina ha ascoltato una fiaba, io guidavo con attenzione, c'era un bel sole fuori, forte abbastanza da inchiodare un pezzo di scialle al finestrino e farne una tendina per la bambina.
arrivate non c'era parcheggio ma c'era poco distante e l'abbiamo messa alla stazione.
siamo scese e ci ha inghiottite un freddo freddissimo. abbiamo camminato a passo veloce per scaldarci. io avevo la cartella in mano.
la bambina faceva per prendermi la mano, così ho spostato la cartella e preso la manina.
e la teneva forte questa mano mentre raccontava storie sulle case della via. poi abbiamo fatto una scaletta, la bambina aveva dei pantaloni un po' a zampa e quando faceva il gradino le sbucava solo la piccola punta delle scarpette viola.
e tra punta di scarpette e manina stretta stretta, ho sentito della tenerezza.
poi lì davanti a scuola raccontava cose tecniche sull'interno dell'edificio.
lì a fianco c'erano dei giardinieri che tagliavano un albero o dei rami (uno di loro era arrampicato), e ne abbiamo parlato un pochino.
poi su una panchina freddissima abbiamo letto un libercolo scelto prima di uscire di casa, uno corto, per sicurezza se per caso poi arriviamo lì presto e bisogna aspettare.
un bel libretto su un lupetto ben educato, con tanto di capovolgimento finale.
e poi abbiamo suonato il campanello e siamo entrate, la ricreazione era appena iniziata e la bambina è andata verso la classe senza salutare, e io ho fatto per seguirla per salutarla e la bidella mi ha fermata: signora non può andare. e allora ad alta voce io: bambina! e la bambina si è voltata e veloce la mano ha guizzato un ciao.



martedì 6 dicembre 2016

coccodrillo

Volevo scrivere di due o tre cose in questi giorni, cose che premevano con urgenza, volevo scrivere del giusto cosmico e di quel sentimento di pena e affetto che a volte mi scopro a provare e del bellissimo film che ho visto e dello disgregarsi lento dell'autostima quando questa è sottoposta a continui piccoli attacchi velati.

Ma è accaduta una disgrazia e non riesco a pensare ad altro. È morto il falegname. È morto quella specie di nonno della via, è morto il mio vicino di casa di sempre (perché a dispetto di tutto la casa per me è quella). Mi pare di non sapere niente di lui, nonostante l'abbia incrociato milioni di volte per almeno vent'anni e una volta aspettavo l'autobus alla fermata in fondo alla via e lui m'ha dato un passaggio e guidava malissimo. So che fumava il sigaro, e lo teneva spento tra le dita della destra, che aveva una voce appassita, con quei timbri che si perdono nell'aria. Prendeva sempre i nostri pacchi e poi la sera suonava e al citofono diceva: “va che è arrivata una scatola”, oppure “ghelo to papà” o ancora “averzeme che meto dentro ...” i puntini stanno per l'attrezzo che di volta in volta si scambiavano, lui e il mio papà.
Pare un rapporto utilitaristico scritto così, eppure son qui che piango, perché era una di quelle certezze, di quelle cose stabili della vita, della via, come un albero, qualcosa che c'è, di cui si avverte la tanta presenza proprio nel momento dell'assenza. E poi aveva una storia d'amore. Anche qui non ne so molto, sono via dal villaggio e non seguo bene. Ma so che lui, vedovo, stava con una signora, sempre della via, vedova anche lei. La mattina passava a prenderla, questo lo ricordo perché facevo la corsetta e lo incrociavo che con la macchina accesa la aspettava sotto casa. E mi si stringe il cuore a pensare alla signora che ha perso un altro amore. E a quella rosa fresca, appoggiata per terra davanti alla bottega, stamattina.
Aveva i baffi, i capelli castani o già bianchi, con lo stesso taglio per trent'anni. Io l'ho visto sempre col camice blu da Geppetto. La porta della bottega da falegname di fianco al nostro portone sempre aperta. Aveva il suo parcheggio, come tutti noi della via, giochiamo a rubarcelo tipo gioco della sedia, perché c'è sempre qualche macchina in più, ma ognuno sa chi è di cosa, e lo è per vita, come un diritto acquisito dall'uso abituale.
Quell'albero sempreverde è stato investito, investito nel villaggio, di fronte al supermercato, di fronte a casa. Chissà cosa doveva comprare, chissà se ieri si è alzato e ha sentito qualcosa o se era un giorno come un altro.
Come mi spiace.

martedì 29 novembre 2016

la formula

Varenna è un posto di sole. Ogni volta che vado c'è il sole, ci sono piante esotiche che s'affacciano sul lago, ci sono pendii da esplorare e bei palazzi rivolti all'acqua al vento.
Sopra Varenna, lo si vede andandoci in macchina, ci sono belle casette ben rientate. Tante volte passando mi son chiesta cosa fossero. E sempre chi guidava mi diceva: un cimitero.
E alla fine ci sono andata, c'è una bella passeggiatina e s'arriva al cimitero inglese. Un cimitero bello, tutto orientato verso il sole, con una vista mozzafiato.
Non sto qui a dire i perché e i percome del cimitero e del suo nome, si sappia che è soleggiato e ventoso, caldo, e pare una finestra sul paradiso. E è ricco, ci sono le tombe orientate al sole al primo piano e le casette al secondo, tutti i bei cognomi in fila, a grandi caratteri. Ma non scrivo per quello, scrivo - e di fretta perché c'è un gran casino e è ora di cena e attorno parlano sia il papà che la bambina - perché su una di queste tombe al primo piano, di fianco al nome e alla foto c'era una formula: VI = (MC + AF)/E
Proprio questa formula, e sono curiosa e l'ho scritta su un pezzo di carta pronto a esser perso, e ho voglia di scoprire cos'è. Mi pare già bellisima.

martedì 15 novembre 2016

Appunti sul corpo

All'università ho scoperto di avere un corpo. Me lo hanno detto. A un laboratorio teatrale, in una sala grande e luminosa, con pavimenti in legno, ci hanno guardato e ci hanno detto: Avete un corpo.
E allora ho capito che avevo un corpo e che potevo usarlo. Decidere come camminare, come ridere, se e come allenarlo (questo dello sport è arrivato dopo), allungarlo, torcerlo. Un corpo tutto mio. Non so perché prima non lo avessi mai saputo. Non ci avevo mai pensato. Forse è colpa della religione, o dell'educazione, degli ideali (non nel senso di ideale-perfetto, nel senso di idee alte per cambiare il mondo), e di una sorta di pudore di tutto quello che esce dal corpo.
Il sudore no, le feci no, gli odori no, i rumori no – l'urina è concessa, lo sputo è concesso, il brontolio della pancia no, i rutti no, neanche i peti.
Che percorso per dire queste parole. Anche solo dirle. Anche solo riconoscerne l'esistenza.
Azioni consentite poche e private, e per il resto negare, assottigliare, rendere invisibile.
Gli anni Novanta.
Comunque all'università ho capito che avevo un corpo e che non mi piaceva per niente. E neanche agli altri piaceva, era troppo grosso o troppo molle. Sì begli occhi e bel viso angelicato e i capelli lunghi lunghi, e la schiena forte. Ma poi i fianchi erano larghi e la pancia forse era grossa anche se la tiravo in dentro. Ma intanto facevo teatro e capriole, e allargavo le mani come nella commedia dell'arte, e allenavo la voce fin nella schiena, e respiravo, respiravo. Non so quanto ho respirato negli anni di teatro, in tutti i modi possibili, sessioni di mezz'ora di respiro col sonno che bussava negli occhi.
Respirare sì, russare no. Sì anche a certe voci che nascono dalla pancia, dalla gola. La voce del dentro, né della bocca, né della testa; del corpo.
Piccoli passi banali per una parte di mondo, piccoli passi mai fatti per un'altra parte di mondo (certi vecchi, certe vecchie. Ho sentito storie di vecchie che non si sono mai guardate nude, che si sono lavate a pezzettini una vita intera.)
Eppure per i vecchi le feci sì, gli odori sì. Tutto il corpo che macera (marcisce?) dentro, in qualche modo, sì.

mercoledì 26 ottobre 2016

I nuovi pionieri e la scema del villaggio

Oggi correvo, ho provato una nuova stradina tra i campi ma era molto fangosa, così ho ripiegato per il solito giretto nel paese, senza sapere che è giorno di mercato.

Nella corsa ho avuto un'intuizione, una sciocchezza che devo approfondire (quindi può essere che tutto quello che segue è sbagliato e non funziona così), ma la dimentico se non me la appunto.
Ieri sera a cena il nonno ha dato delle figurine alla bambina e le ha dato tre buoni scuola. I buoni scuola e le figurine li dà un supermercato di Lombardia. I buoni scuola vengono consegnati a scuola e credo che corrispondano a strumenti didattici che la scuola può acquisire.
Nello scambio ho realizzato che dove vivo io non ci sono buoni scuola, ma appena l'ho detto mi è stato risposto che dove vivo io non ce n'è bisogno, che siamo una regione ricca.
La bambina stamattina è andata a scuola e ha consegnato i buoni scuola alla maestra, anche altri bambini probabilmente. Me li sono immaginati col grembiulino, in fila, che davano i buoni alla maestra, e lei rispondeva, brava bambina, oggi ne hai portati tre, che bravo questo maschietto, ne ha portati cinque, e così via. Ci mancava solo, nella mia immaginazione, chiaro, che la maestrina dicesse: consuma di più, così ti diamo un righello, dillo anche alla nonna che compri all'esselunga, così ti diamo una gomma.
Fantasia che corre di sicuro più veloce di me. Tra l'altro avevo i pantaloncini corti e non c'è persona che non abbia interagito “oh che atleta” “ah, bella calorosa” “forza forza” e così via, che mi son sentita proprio la scema del villaggio.
Dicevo che fantasticavo a tutta birra, e mi sono venuti in mente i pionieri, gli ottobrini, quelle organizzazioni di bambini e ragazzi, sotto il comunismo e socialismo, quelli che andavano a fare la raccolta del ferro per poi venderlo e guadagnare gli spicci per le lavagne nuove. Quelli che ripulivano collettivamente il giardino, che ricevevano punti se aiutavano i vecchietti ad attraversare... (la mia fonte è la letteratura, ben inteso, se ci sono errori prendetevela con i libri keller).
Ecco, mi son venuti in mente loro. Con la differenza che gli ottobrini e i pionieri facevano per il bene comune, e qui invece i grembiulini sono l'incentivo a consumare per il bene comune. I nuovi pionieri. Bambini come tramite per alimentare i consumi in quel supermercato lì, bambini a cui non è richiesto di fare delle buone azioni né alcuna responsabilità (ci mancherebbe, è il 2016, i bambini basta che siano belli), solo di portare il buono scuola che guarda caso è in mezzo alle figurine.
Ecco, a me pare tutto un po' confuso. Mi pare che i bambini potrebbero benissimo starne fuori, se il buon supermercato ha voglia di aiutare le scuole può fare tutto attraverso i genitori, visto che sono loro a pagare. Mi viene il dubbio, ma qui mi pare di esser già in una puntata di black mirror, mi viene il dubbio che non sia una sorta di marketing in prospettiva.

E allora dopo la corsa di oggi tornerei dal nonno, e gli direi che magari noi (sempre odiato questo noi), che noi magari non ne abbiamo bisogno, ma che è il caso porsi delle domande nel momento in cui si svende lo sviluppo della capacità critica dei bambini per un bel righello nuovo.

martedì 11 ottobre 2016

la bella la..

L'altro giorno correvo verso sera, c'era l'ultimo sole che scendeva. Ho fatto una strada diversa per intercettare le strisce pedonali, stavo per accostare un vecchio albergo, una di quelle strutture un po' fatiscenti e chiuse da anni, con una carta da gioco disegnata sulla parete frontale, un fante di qualcosa che ho dimenticato, disegno che per svariate corse mi ha fatto pensare a una bisca, a un luogo di malaffare, invece solo un alberghetto, comunque di malaffare perché a quanto si dice ci andavano gli imprenditorini con le amanti, e comunque che le coppie abbiamo amanti è quasi socialmente accettato quindi comunque il malaffare è riferito di sicuro agli imprenditori, ma mi sto perdendo. Affiancavo 'sto ex alberghetto e ho notato che di fronte c'erano delle scale con un abbaino sopra, mi son detta è un sottopasso bella lì, come di dice qui, stavo per scendere e ho sentito dei rumori e ho visto in fondo un muro quindi non era un sottopasso e i rumori erano una signora, un po' vecchia, con un maglione rosso e i capelli cortini neri, che lavava qualcosa. Il sottopasso era una fontana e la signora sbatteva qua e là una stoffa per lavarla.
Ho deviato senza scendere, sono andata alle strisce e ho fatto la mia corsa, tutta col pensiero alla vecchietta, perché lava a 'sta fontana e non nel lavandino, se proprio... perché in un pomeriggio d'autunno è lì da sola? Ma starà usando la cenere? Avrà bisogno d'aiuto?
Ho super corso, veloce e senza cura, con la foga di tornar lì e chiederle se vuole usare la nostra lavatrice, chiederle come mai, guardarla in faccia, chiederle da quanti anni lo fa, e nel caso della cenere chiederle anche come si usa.
Son tornata ansimante e lei non c'era. Avevo sprecato il momento. Dall'altro giorno passo di lì ogni giorno nella speranza di vederla.

mercoledì 5 ottobre 2016

lista di ottobre appena iniziato, appena iniziata

1. forse l'editoria abbruttisce

Quando leggo certi commenti su facebook tipo:
Ci potremmo scrivere un libro con le nostre avventure di questi tre anni
Io dentro di me esclamo: ti prego non farlo.

Quando una sciatrice posa nuda per la copertina del suo libro, io dentro di me penso: ma avevi davvero bisogno di scivere un libro? non potevi limitarti a fare un calendario?

2. la brianza in questi giorni.

L'unica Brianza di questi giorni è il momento della corsa nel bosco o sulla strada. Alla fine della mia via è stata fatta una rotonda, non sono state fatte le strisce pedonali e ogni volta un macchinone mi strombazza per farmi segno di attraversargli davanti.
Il tramonto è pieno e infuocato, vorrei dire fuocoaccielo ma le due c pretendono che non metta la i, e cielo senza i non è più cielo, quindi non lo posso dire, ma ci penso ogni volta, correndo.
Sulla via verso la cascina vedo sempre un uomo con un ragazzo, vicino ai campi. L'uomo sta sul marciapiede, il ragazzo sta nel campo e pare gobbo e ha un retino viola. Il ragazzo ha qualche disabilità. Io passo e mi accorgo di loro all'ultimo momento, perché sono concentrata sulle cose da fare o su fuocoaccelo, dico buongiorno a tutte le ore, il signore dice: Buongiorno a lei - se è mattina, Buonasera - se è sera. Lo dice con una sorta di distacco, ad alta voce, quasi infastidito.
Lo dice anche con accento del sud e mi ricorda un bidello.
Non ricordo il nome del bidello, aveva la faccia un po' butterata, capelli neri luccicanti (o unti, insomma lucidi e pettinati all'indietro), aveva forse dei baffi, una pancia grandissima, era bassetto e aveva un moncherino, era senza un pezzo di braccio. Era abbastanza simpatico e a sua volta aveva quell'accento del sud, quello di chi dice: buongiorno a lei.

to be continued

lunedì 12 settembre 2016

fermo immagine

A cosa pensi?
E di colpo le scendono lacrime. Fuori è notte e lui guida la sua macchina su per le montagne. La luna è a metà e la luce attorno è gialla nel nero, bella.
E risponde: penso che sono fragile, che sono stanca. E nel dirlo le vien ancora più da piangere, l'argine aperto, la voragine.
Allora al primo spazio accosta, ferma la macchina: che succede?
Succede che usare è la parola sbagliata, che tutto può essere letto come usarsi, nei rapporti tra le persone, ma proprio perché sono rapporti non ci si usa.
Ho usato la parola sbagliata, scusami, devo pensarci.
Sì, dobbiamo pensarci, perché se hai questa percezione c'è qualcosa che non va. Potrei accusarti di usarmi per fare sesso. Ma lo sai che è un'idiozia. Mi dici che ti uso come base per costruirmi.
E io dico è vero, è persino bello. Fallo anche tu! Cosa c'è di più importante che essere la base di chi si ama? Di avere base nell'amato. Di prenderlo come punto di partenza e da lì spiccare il volo per se stessi?
E poi lui risponde, ma lei ascolta a metà. Si chiede quando sia stata l'ultima volta che ha pianto, se lo chiede perché le sembra strana quella sensazione agli occhi, allora dev'essere molto, si dice; ma non ricorda. Certo il giorno prima qualche lacrima alla fine del film di Segre, ma era fatto apposta, quelle non valgono, e comunque mica era a dirotto. E allora quando è stato?
Gli occhi sono rossi ma ormai asciutti, loro sono in ritardo ma più calmi. La luna resta lì in mezzo finché la macchina non riparte, poi fa per nascondersi dietro una montagna, o forse due.

note a margine:
1. Pensare alla parola usare, che è vera ma non per forza negativa nelle relazioni, perché c'è uno scambio, anche tra amici:
Ci si usa per non star soli -ovvero ci piace passare tempo insieme. 
Ci si usa per avere un confronto -ovvero mi interessa la tua opinione perché è diversa dalla mia, apre porte, ci fa conoscere e capire meglio nel mondo. Punti di vista.
2. Pensare al giusto equilibrio tra ostinarsi in essere se stessi e essere con/per qualcuno.
3. Giorni dopo, mentre beve vino e legge di Bella Lynn le viene in mente, è stato a fine luglio, in una soffitta, dopo che parole parole sono cadute nel vuoto e un percorso comune è fallito, dopo che una nemica è diventata se non amica compagna di difficoltà.

giovedì 1 settembre 2016

Appunti sparsi di una mattinata al campo profughi.

Aisha è caduta dalla sedia, prima si dondolava, le ho chiesto di smettere ma continuava cercando la mia attenzione, allora mi sono avvicinata, le ho raddrizzato la sedia, lei spingeva indietro, allora l'ho inclinata un po' e poi l'ho riportata a posto. Poi l'ho fatta scendere fino a terra, poi l'ho ritirata su.
Il gioco doveva finire. Le ho detto, adesso non guardo più, mi giro ma non ti tengo su, basta così. Lei s'è dondolata un po' cercando la mia attenzione, le ho fatto segno di no, mi sono voltata verso altri bambini, ho sentito il tonfo.
Sono corsa lì, ho guardato se s'era fatta male, ha fatto la faccia da moribonda, ma scherzava, stava bene, di sicuro una botta. S'è rialzata, ha fatto altro, ho ancora il tonfo nelle orecchie.

È a forma di scatola la stanza, ha una tv sul fondo, due tavoloni in mezzo con due panche, qualche scatola di giochi negli angoli, una vecchia pianola elettrica, pezzi di rotaia di plastica gialli e verdi, puzzle e carte da gioco. Sono per lo più giochi vecchi e consunti, mezzi rotti e comunque lì come se fossero buttati via. Ci sono sei seggioline davanti alla tv. Il pupazzetto più conteso della mattinata un teletabbis giallo, piuttosto pesante.

Si è rovesciata la panca a un certo punto e c'è rimasto sotto un piede, non so di chi, il nome intendo. Un piedino nero dalle dita larghe e dalle unghie larghe. Un piedino nero con attaccata una bambina nera di quattro cinque anni. Le scendevano le lacrime da quegli occhioni, e le lacrime rigavano il viso, letteralmente, come le colasse il trucco. Immagino che la lacrima togliesse della polvere rimasta sulle guance, volevo lavarle il viso, ma non sapevo, non so, dove sono i bagni.

Alex è il mio preferito, di già. È l'unico bambino (ma aisha gli fa concorrenza quanto a mascolinità – ricorda un po' la lesbicona con lo sguardo matto di orange is the new black), ha i capelli stopposi, il viso largo e solare, un bel sorriso. È paziente e gli piacciono le bici, ne abbiamo disegnate un paio. Dice se moi se toi, ripete ogni parola, pare capire.

A un certo punto tutti quanti, quasi in coro ma con le voci sottovoce, dicevo gateau, gateau, gateau. Sussurrato, lamentoso. Piuttosto divertente, mi sono unita al gruppo.

Tanto corpo, nell'affetto, nella lite, tutto col corpo, persino il parlare sembra un verso del corpo e non un articolare il discorso. Tanti abbracci, solletico, carezze, stoppate, calci. Tante polemiche, tra i bambini malesi, contro i bambini nigeriani che si portano i giochi comuni a casa.

Uno della sicurezza ha un rapporto strampalato e privilegiato con Aisha, si vede che a lei lui piace, lo cerca, lo provoca (non maliziosamente, lo provoca facendo davanti a lui quello che non deve fare: superare staccionate, dare pizzichi, sdraiarsi per terra in attesa del niente...), lui reagisce con un tira e molla emotivo in cui ricambia affetto e attenzione con il fatto che lei la smetta di fare quello che sta facendo e non dovrebbe fare. I teatrini tra loro sono piuttosto noiosi ed evidentemente diseducativi, ma c'è qualcosa di molto umano in questo affezionarsi reciproco. La guardia sa i nomi dei bambini, s'accolla di aiutarci a riaccompagnarli alle baracche, ha una carezza per la testa di ognuno. È un ragazzo del sud, forse ha la mia età forse è più giovane, non ricordo il nome, polemizza anche lui sul fatto che la protezione civile tolga le casette e metta i profughi nelle baracche.

Le baracche sono parallelepipedi con dentro una decina di letti a castello. Il bagno è un altro parallelepipedo in comune, la cucina non c'è, i pasti vengono portati.

A un certo punto una bambina, anche grandicella, alta magra, con gli zigomi alti e regali e una pelle bellissima, si accascia sul parapetto della strada, come fosse stremata, un po' provo a convincerla ad andare verso casa che è ora di mangiare, un po' mi pare mi stia prendendo in giro, non capisco perché dovrebbe essere stremata o rendere più difficile tutto; quindi la lascio appoggiata a sonnecchiare e proseguo, dico alla guardia che non capisco cos'abbia Benedict, ma probabilmente ci raggiungerà. Lui la guarda e dice, quando fa così mi pare uguale a suo papà.

Per un attimo riportando il gruppo pigro di bambini alle baracche ho avuto l'impressione che facessero apposta a fare gli scalmanati gli stanchi i perditempo, avevano un po' d'attenzione, e la volevano usare tutta.

venerdì 15 luglio 2016

Il bambino tedesco

Camminavo assorta nei pensieri, alla sinistra il lago, lucente, blu, con le montagne a scendervi dentro. Tanto vento sulla passeggiata, qualche albero frondoso, laggiù in fondo una nuvola di quelle a base piatta e testa rigonfia.
Camminavo e pensavo e ripensavo a quella lettera, la lettera della fine del grande amore. Nella mia testa iniziava così: è ora di riconoscerlo, stiamo temporeggiando per viltà; né io né tu riusciamo a chiudere, e trasciniamo con dolore e poco dignità questo rapporto. Come quando in Kurkov al ladro viene tagliata una mano, ma la lama non è affilata e rimane una vena-un legamento, non ricordo, e la mano non è staccata del tutto dal corpo, penzola. Ecco, per certi versi siamo ridotti così, a penzolare. Poi il pensiero passava alle scarpe, ché ogni stagione c'è il dramma delle scarpe della stagione da comprare, e l'estate è più difficile dell'inverno, perché non voglio sandali, li odio i sandali, voglio scarpette chiuse e leggere, da poter mettere con un vestito e con cui macinare tutti i chilometri macinabili in una stagione, e pensavo che sono disposta a investire un capitale, e giro cento negozi di scarpe e nessuna va bene. E poi forse il pensiero stava trascinandosi verso Anna karenina, perché la vorrei proprio comprare nell'ultima pubblicazione di Einaudi, quando alla mia sinistra passa una bici con un padre, a seguirlo passa una bici con la madre, e poi un bambino, con tanto di caschetto, il bambino perde l'equilibrio e a rallentatore s'accascia sul proprio ginocchio, cadendo di lato ma tenendo la bici dritta con le mani, sicché pare quasi incastrato.
Questione di un attimo, un attimo lunghissimo come tutti gli attimi magici.
Vedo il bambino che cade a rallentatore e non si fa male, m'appresso verso di lui e l'unica cosa che faccio è tenere su la bici. Con la mano sinistra reggo il manubrio.
Il bambino capisce il mio intento e si scastra dalla bici.
Quando ha fatto alza il viso e quasi il suo naso tocca il mio naso, di colpo una vicinanza insolita.
Ha gli occhi azzurrissimi e lucidi, come se fosse stato sul punto di piangere ma non avesse pianto.
Ha il visetto abbronzato e delle lentiggini sul naso.
Ha uno spazio tra i denti davanti.
Con quegli occhi azzurri che quasi toccano i miei, dopo un attimo di sorpresa dice: danke.
Con il subbuglio nell'animo per quella vicinanza, il cuore che batte forte e la sensazione di piangere a mia volta, non so bene perché, dico: bitte. E vado per la mia strada.
Passo dopo passo sento il cuore che si calma, e mi pare di aver condiviso un'esperienza magica con quel bambino tedesco, mi sembra di aver cambiato la sua vita e lui la mia.
E rido di me per questo pensiero, e mi chiedo perché tutta questa emozione forte per un niente.
Anche adesso che lo scrivo, le lacrime agli occhi, colma di emozione.

mercoledì 6 luglio 2016

appunti

- Non vado quasi mai a teatro. Non ci vado perché ogni volta soffro. Quando non funziona mi arrabbio perché usurpano la bellezza di quell'arte lì. Quando funziona mi viene il magone perché l'ho accantonata, quell'arte lì, per la sopravvivenza. Non per la sussistenza, proprio per la sopravvivenza, proprio perché era faticoso e logorante stare sempre nudi nel mezzo del gruppo giudicante. Ma forse è che erano i gruppi sbagliati, o forse lo sbagliato è che erano gruppi. Comunque quest'anno sono dieci anni che l'ho abbandonato e non mi è ancora passata, e così vado poco a teatro.
L'altra sera sono andata a Pergine spettacolo aperto ed è stato bello. FÄK FEK FIK, un omaggio allo Schwab delle presidentesse. Bello e forte e ben fatto, un viaggio vorticoso verso il basso, come quelle voragini che ci sono in certi laghi o fiumi, e mi è venuto il magone, ma un magone che ne vale la pena. 

- Ho appena finito Gli anni, di Ernaux, sono colpita. 
Mi è piaciuto molto, mi è piaciuta l'idea e la costanza nel perseguirla pagina dopo pagina epoca dopo epoca. Mi è dispiaciuta la parte didascalica all'interno, perché s'è messa a spiegarci le sue intenzioni?
Sono rimasta toccata dalla sua visione d'insieme nei confronti del reale, allargare lo sguardo da una singola vita alla memoria collettiva è un'operazione preziosa, che in qualche modo, quando è così esplicità, esula dalla letteratura per farsi qualcos'altro. Ecco, forse questo mi lascia perplessa nonostante la bellezza del libro, che fatico a vederlo come letteratura.



venerdì 10 giugno 2016

Cena tra amici

Nella nuova casa c'è poca luce, ne soffro molto, mi pare di non trovare una mia posizione, non c'è una finestra da cui guardare, né uno spazio sotto la finestra dove mettere il tavolino col pc, sicché perfino al tavolo non sono nella mia posizione. Abbarbicata sulla sedia temporeggio, cerco di mettermi comoda.
Dalla finestra aperta entrano i suoni del villaggio nella cittadina. Stasera suona quasi a festa, è una sera che finalmente pare d'estate. Nessun grillo però.
Ogni volta che entra il rumore di una moto l'animo si mette all'erta, quasi stesse arrivando l'amore.
Ieri sera ho litigato. Litigo di rado, soprattutto con le persone con cui non sono intima. Ieri sera ho fatto una di queste liti, una lite ideologica, una lite per questioni di principio.
Ero a una cena tra amici. E come nei film francesi si è partiti bene e poi sono uscite tante cose prima di uno poi dell'altro, poi all'ennesimo voi donne noi uomini, non so, m'è scattato il risentimento.
Dentro di me una grande convinzione: S, la maggior parte delle volte che senti una cosa su cui non sei d'accordo stai zitta, capisci subito che non vale la pena. Ma adesso sei a una cena tra amici, tra persone che stimi, un gruppo di poche persone con cui spendi del tempo, non può non valere la pena spiegare il tuo punto di vista.
Sbagliavo, ci sono convinzioni (sciocche) tanto radicate che anche le persone che stimi non vogliono capire. E anche se le spieghi argomentando, la risposta non è un'altra argomentazione, ma statistiche inventate, contentini di poco conto, ad esempio:
  • se chiedi a un uomo e a una donna che guardano la tv a cosa stanno pensando: la donna ti farà un pippone dei suoi pensieri, l'uomo dirà niente. Sacrosanta verità.
  • Non dico che le donne sono meno, le donne sono di più.
  • Ti ritengo una persona abbastanza intelligente per capire che una rivoluzione è in atto, ma non può avvenire velocemente.
  • Le donne e gli uomini hanno cervelli diversi.
Davvero, pare un altro mondo, invece è il trentino 2016, persone che conosco e che biasimano salvini quanto me.
  • La statistica sulla tv mi pare piuttosto grossolana e arbitraria, e che stanno guardando vorrei dire, ma anche: è degli anni ottanta 'sta statistica? chi ce l'ha più una tv? e giuro che queste sono le domande meno polemiche per una stronzata del genere.
  • Che le donne siano di più o di meno rispetto agli uomini mi pare un'idiozia, quello che non accetto è la divisione uomini donne come predominante nella società qualunque sia il discorso che si fa. Intanto non tiene conto della complessità delle persone, di chi non s'identifica tanto facilmente nello stereotipo donna o in quello uomo, e basta dire che le donne sono più deboli ma più portate per i lavori di cura, basta dire che gli uomini non hanno profondità e le donne hanno le paturnie, basta passare insieme l'immagine di sensualità e di santità legate alla donna e di ruvidezza e on-off legata agli uomini. Ci sono anche persone così? Sì! C'è solo questo? No, anzi, questo è la minoranza e spesso lo è a sua insaputa, perché poco consapevole di sé e socialmente abbandonata ai ruoli fortemente suggeriti.
  • E io mi ritengo una persona abbastanza intelligente da non accettare il massimalismo che sottosta a questa patetica categoria di uomini e donne come unica categoria utilizzabile per fare confronti intelligenti tra gruppi umani. Mi ritengo abbastanza intelligente da non farmi lusingare dall'idea di essere intelligente per ascoltare e accettare visioni a dir poco discutibili (sono cresciuta con la fiaba dei vestiti del granduca). Il mondo è complicato e il pensiero medio manca della complessità necessaria per provare a capirlo.
  • Questa del cervello poi m'ha fatta scoppiare. Questa è la logica che ha portato i neri a poter votare meno di cent'anni fa, il cervello diverso! Pazzesco. Tutti abbiamo il cervello diverso, così come le mani, l'altezza, i capelli... ma trovo poco pertinente - se non si vuole sottintendere un pensiero discriminatorio - cercare di basare qualunque ragionamento sull'ipotetica esistenza di un cervello delle donne e un cervello degli uomini.
Non credo che la categoria uomini e donne sia da buttar via, va bene se si parla di organi genitali ben definiti, va male se si parla di lavoro, capacità di ragionamento, desiderio di avere figli e famiglia, potenzialità di crescita, preferenze o desiderio sessuale. È uno sguardo miope di questo tipo quello che fa danni veri, quello che discrimina nella quotidianità, quello fa sentire una persona sbagliata se non vuole avere figli, se è lesbica, se vuole fare l'ingegnera e così via, quello che fa sì che le donne siano pagate meno, rispettate meno, valutate meno (o più! Non cambia niente, l'errore è lo stesso). È questo quello che porta a considerare gli uomini superficiali, insensibili, forti, rudi...
Se non ci liberiamo presto di queste categorie finiremo per snaturarci da quello che siamo, finiremo col non ascoltarci per non sentirci troppo sbagliati quando non aderiamo allo stereotipo, finiremo imprigionati, e a me non sta bene, non tra gli amici, nemmeno se rovino una cena.
Dimenticavo, in tutto questo un uomo è venuto in mio soccorso, si è sentito offeso per me, per sua figlia, per tutte le persone, e a un certo punto ha rotto il silenzio e ha tirato un cazzotto, verbale, s'intende, perché anche se ha un pene ha un cervello, una profondità di pensiero, la capacità di colpire con le parole e non coi pugni, e il desiderio costante di complessificare il mondo nella speranza di renderlo più tollerabile, se non adesso domani, se non lì alla cena in futuro. E giuro, in quel momento io mi sono sentita meno sola, e anche meno sbagliata.


martedì 31 maggio 2016

maggio fortunato

quando è così ho la sensazione che stia arrivando qualcosa. Parlo del tempo, del sole, del vento.
Quando l'estate tarda ad arrivare e la primavera temporeggia, un giorno caldo un giorno freddo, ho sempre la sensazione che qualcosa sia sospeso, e faccio fatica a fidarmi, ho sempre quella maglia in più appresso. Invece poi non arriva nulla, passa tutto, un giorno così un giorno colà, arriva settembre e io non ne ho avuto abbastanza, di estate.
Mi rendo conto che è prematuro lamentarsi, ma certe stagioni corrono velocissime, e io ho l'ardire di provare ad allungarle - estate: da maggio a ottobre, dal primo all'ultimo bagno nel lago, anche se è freddo sia al primo che all'ultimo - ma il primo è sempre più freddo dell'ultimo.
Quest'anno il primo bagno è stato il 15 maggio, il giorno del compleanno della nonna, il giorno ufficiale in cui ho lasciato la vecchia casa.
La settimana scorsa è stata fortunata, ho letto un bel fumetto, ho visto un bel film, ho assaggiato buoni vini.
Il fumetto era sul comodino da un po', da aprile. Avevo sbirciato le prime pagine, ma mi stringeva il cuore. L'altra notte l'ho letto, ho piangiucchiato, poi non potevo più dormire.
Il film l'ho scelto a caso, come sempre, non mi piace leggere le recensioni prima di vedere le cose, neanche  trame o citazioni da libri. Mi piace la sorpresa, mi piace non sapere e darmi la possibilità di un giudizio non influenzato. Il film m'è piaciuto tanto, l'ho trovato ironico, brillante, volutamente fatto male in certe parti. Più ci penso più lo assocerei a Brecht, all'effetto straniamento che provocano i suoi testi. Lo spettatore sta lì e vede, e è partecipe ed estraneo allo stesso tempo, ha la visione d'insieme ma è coinvolto.
si fa un'opinione, e di solito è un'opinione complessa proprio perché lo sguardo è complesso.
E i vini, assaggiati tanti, spicca il timorasso, e un rosato francese, ma ho già dimenticato il nome.

mercoledì 27 aprile 2016

come pianeti

E così anche T. aspetta un bambino, o una bambina. Ogni volta che succede, che qualcuno a me caro stia per figliare, mi prende una sorta di ansia, rimetto in dubbio tutto un sistema ben consolidato di naturale rifiuto della maternità. T. aspetta un bambino o una bambina tra un paio di mesi. Aspettare, che parola interessante usiamo. Aspettare come attendere, quasi un verbo dal significato passivo, si aspetta che qualcuno nasca o compia un'azione – si aspetta, si sta fermi e il tempo passa e qualcosa capita, qualcuno fa. Ma qui divago.
Dicevo che ho saputo che T. aspetta un bambino o una bambina, e l'ho saputo in mezzo alla folla, su un marciapiede, come stai? Bene e tu? Bene dai. Novità? Eh sì noi siamo in dolce attesa (suona male a scriverlo, malissimo, dolce attesa, gesù!) nasce tra un paio di mesi.
E bu-bum.
Poi non so, non so se ho chiesto se sanno già se è un bambino o una bambina o cosa ho detto, da lì so solo che poi D. mi teneva a braccetto e camminavamo tra la folla, e a ogni bancarella di caramelle volevo fermarmi e comprarne tante e mangiarle a pugni, cuori di pesca insieme ai puffi e alle fragoline e ai pesciolini tropicali e forse avrei anche comprato delle dentiere anche se non mi sono mai piaciute tanto, sempre un po' durette e troppo grosse, con quel sapore di rosa stantìo e di vecchia panna montata troppo dolce, le dentiere mi piacciono addirittura meno delle bananine, e il sapore banana mi dà la nausea, anche in treno, qualcuno si mangia una banana e riempie il vagone di odore e lo odio. Comunque non ho comprato caramelle, ho camminato sostenuta da D. e ho solo immaginato di mangiarle a pugni, poi di colpo eravamo alle giostre, e lì di colpo mi sentivo meglio, avevo 'sta musica tamarra sputata in faccia da un altoparlante gigante, c'era qualche gocciolina di pioggia e il fresco nonostante tutta la folla, e i ragazze e le ragazze che volavano sopra la mia testa, e l'aria fresca in faccia, l'ho già detto del fresco, ma la ricordo proprio quell'aria fresca, come il venticello del calci in culo che scompiglia i capelli. E D., l'eroe, il mio eroe, ha detto andiamo, andiamo sul calci in culo. E io ho detto, ok, ma spingo io. E così abbiamo preso due biglietti e ci siamo mimetizzati coi ragazzi e le ragazze (improbabile che fossimo mimetici sul serio, ma mi piace pensarlo) e abbiamo volato, con la musica tamarra in faccia e il vento in faccia, e quel ferro di protezione che sega la pancia. E spingevo D. e lui volava e poi ruotava su se stesso e poi attorno all'asse, e c'era qualche gocciolina e quell'abbandono, qualche minuto di abbandono, ed è stato bellissimo, come pianeti, come pianeti.

martedì 19 aprile 2016

La casa piena di scatoloni da riempire diventa un oggetto. Un contenitore in cui dormo, un cassetto aperto da cui non scivolano emozioni ordinate, da cui sbuca qualche filo.
Dentro, gomitoli aggrovigliati di emozioni contrastanti che non riesco ancora a sbrogliare.
Fuori un sole forte, corse sulle solite strade, pedalate nel fresco mattutino.

sabato 26 marzo 2016

Oggi sono tutta una tristezza.
Fuori il sole, dentro il nero, un buco.
Ho sempre creduto di essere nata per cambiare il mondo, è straziante confrontarmi con la realtà.


«Vedi» dice Emma. «Il cuculo è nato. L’uovo era riuscito a starci dentro, ma ora l’uccello non ce la fa a uscire». Ruven va a prendere scalpello e martello. Quando torna, lei è ancora in piedi davanti al salice, sconvolta, e fissa il buco.
«Cosa c’è che ti spaventa, Emma? Ogni madre cuculo affida l’uovo a una balia. Solo che la nostra l’ha affidato a una cinciallegra. Non è stata previdente. Ma è soltanto un uccello».
Ruven batte con il martello contro il tronco.
«Non è questo» mormora Emma appena il cuculo è uscito ed è volato sull’oleandro più vicino. «Ma il fatto che uno possa nascere in un posto così stretto da venirne ucciso».
«Ma non è morto».
«Va’ a esercitarti, Ruven» dice Emma, «in modo da andartene via di qui almeno tu».

venerdì 19 febbraio 2016

Si susseguono le notti nere. La mattina R. ha coraggio, la notte ha paura.

Le questioni di casa mi torturano di giorno e di notte, così come quelle legate all'adultità, che qui, in italia, in trentino, corrispondono con diventare borghese, con uno stipendio come si deve, una casa come si deve, un bel cartellino a scandire il tempo libero e quello del lavoro. Come se stesse lì, l'adultità, la responsabilità.

ieri ho acceso la tv, e a maria de filippi una vechcia ha detto: a me tina non m'influisce.
ho provato molta tristezza.
poi in radio uno detto che la più bella frase di facebook è che le mosche non riposano mai perché nel mondo c'è tanta merda.
ho provato tantissima tristezza.
poi, sempre in radio, un altro signore ha detto una cosa tipo: quello qui.
e ho cambiato stazione e ho spendo la radio e anche la tv. poi leggo il giornale e vedo che salvini e casa puond manifestano insieme, e capisco che nonostante il disprezzo che provo per c.p. li avevo sopravvalutati. e poi m5s?
che scoramento.

fortuna lavoro a un libro speciale. fine nel pensiero e delicato nel raccontare un vecchio mondo e i suoi drammi (e penso: che roba sarebbe riuscire a raccontare questi drammi -di oggi, questa bruttezza-di adesso, con tanta poesia).


venerdì 22 gennaio 2016

sopravvivo all'infinito gennaio, anzi lo sbrano

sopravvivo all'infinito gennaio, forte e combattiva quest'anno.
lo odio gennaio, lo odio tutti gli anni, è un mese che dura cento mesi.

sono andata a pranzo dalla nonna, mi ha raccontato storie antiche, aveva gli occhi glauchi, i capelli bianchi argento luminosi, un grembiulino che pareva un vestito sopra il vestito.
sono andata a pranzo dalla nonna, e scriverlo così mi fa strano, mi confonde, perché la nonna di cui scrivo quando scrivo "la nonna" è l'altra, quella morta in un giorno di novembre, spezzandomi il cuore perché la amavo e odiavo insieme, proprio lì, in quel periodo di malattia e di morte (e io ero una testa dura, una dura e pura, non si può perdonare tutto a uno solo perché sta male!).
La nonna della mia letteratura, della mia memoria poetica è lei, che mi ha cresciuta e passato una conoscenza che va al di là del sapere, che è fatta di sapori e consapevolezze del corpo, di stufe accese e terrazzi e prati e more e filastrocche di pane pocciato in ogni cosa, di giochi con le carte.
Ma l'altro ieri ho pranzato con l'altra nonna, e mi ha raccontato cose antiche, di generazioni passate, di viaggi dall'America con ventisei o ventisette chili di soldi! e del papà, mi ha raccontato dell'infanzia del papà, e anche di tutti gli altri, e li ricordava bene, e nel ricordare guardava un punto del salotto con gli occhi fini, e per calcolare i mesi spiegava le dita bianche e nodose.

sono andata in israele, ed è andata bene ed è stato bello e tante cose, ma poi alla fine, per tornare, lì all'aeroporto è stato brutto. ogni oggetto è stato violato, aperto estratto toccato disteso. ogni sguardo è stato accusatorio. ogni parola cercava un'ipotetica verità nascosta dietro le parole.
ecco cos'è un regime. Ho pensato, ecco come fanno i regimi, ti fanno sentire sbagliato e colpevole anche quando non hai nulla da dire. poi ho pensato che forse anche in certe relazioni violente è così.

e poi le corse, tornata dal viaggio ho ripreso a correre, che bellezza, che libertà correre nel freddo, le gambe dure di fatica e vento, sentire il respiro che rinfresca il petto, e la testa che spinge e le braccia che spingono e i muscoli tesi l'impatto dei piedi sul terreno.

e poi la Winterson, un libro che è un'avventura nella vita, nelle fatiche della vita, nel valore delle persone. un'avventura proprio, una guarigione.

e poi la casa, gli incubi, le pressioni, i problemi, il senso di perdita anche, e insieme la voglia di farmi rispettare, valere, sentire.

che gennaio lungo e feroce. ma io sono combattiva, quest'anno gennaio me lo mangio giorno dopo giorno a costo di fare indigestione.

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