giovedì 21 giugno 2018

G. come gewürztraminer.

Sera che si fa notte, il solito locale amato, un compleanno importante appena sfumato tra l'ieri e il domani. Decidiamo di “bere l'ultima cosa”, magari assaggiamo il Pinot grigio di Paraschos, apro la bella bottiglia col gioco di parole pi greco not, annuso il tappo, me ne verso un sorso, naso nel bicchiere e occhi che amareggiati si chiudono, sa di tappo. C va in cantina e prende un gewürztraminer di Patrick Uccelli, Alto Adige. Il gewurtz non è tanto nelle nostre corde, saltiamo sempre piè pari gli aromatici, ma è notte inoltrata, è l'ultima cosa, può starci. Apro la bottiglia, annuso il tappo che sa di buono, ne verso un sorso nel calice e ci infilo il naso, è a posto, ancora chiuso e già promettente; lo verso agli altri, brindiamo, due cose sull'orto botanico che abbiamo nel bicchiere e poi partiamo a parlare di vita, di noi, di D che sta bene, di I che rinuncia senza neanche ammetterlo buttando sugli altri la sua rinuncia, di E che non ne combina una giusta, di me che nel flusso delle cose non tengo nota del tempo che passa, di M che non riesce a innamorarsi o ad aprirsi, o forse sì ma delle persone sbagliate. E tra una considerazione e l'altra infiliamo il naso nel bicchiere e ogni tanto diciamo: certo che ha un naso bellissimo, io al posto che berlo me lo spruzzerei addosso, sì, c'è tanto bergamotto senti qua, e poi il bicchiere cambia e si apre, ma non si siede mai, i sorsi sono piccoli e la bottiglia scende lentissima perché “è un vino difficile”, noi, tre generosi bevitori, facciamo fatica a ingoiare l'ambra verticale, soprattutto annusiamo i campi di notte, un tuffo in una distesa di foglie di citronella, nella mentuccia, nel gelsomino, nel legno di cedro, ci rotoliamo nelle parole e nei profumi di quella notte infinita, in quel bicchiere che cambia la percezione dello spazio e inevitabilmente rallenta lo scorrere del tempo. Sorso dopo sorso, confronto dopo confronto, ogni tanto C va in cucina, prende del sushi, lo mangiamo con le mani. Parliamo di vini assaggiati, di cibi, di pane, sogniamo del nostro viaggio estivo, delle tappe da fare, delle cantine da vedere, di dove mangiare, di metterci un trekking in mezzo e un pezzo di mare. Beviamo un sorso, un altro brindisi, parliamo d'amore, parliamo sempre d'amore, amore per le persone, per una persona, per ciò che facciamo, fantastichiamo persino sul signor Patrick, ci chiediamo come mai abbia fatto un vino così difficile, cosa voglia dirci, con questo vino. Parliamo di urgenza espressiva, di necessità economica, di arte e censo, ormai il vino per noi è come l'arte, come i libri, come la musica classica, mondi pieni di analogie, anche se il vino poi è anche divertente. Rovesciamo nei calici l'ultima lacrima di bottiglia, ultimo brindisi, l'ora è indecente e ormai questo gewurtz ci piace, ormai abbiamo imparato a conoscerlo, noi e il vino siamo rilassati e l'ultimo sorso è il più bello. Ci abbracciamo stretti l'un l'altro e andiamo verso casa, con le idee confuse e pieni d'amore, e a me pare d'essere stata in vacanza, una vacanza in montagna, prati alla Heidi, di essermi rotolata nei fiori, aver assaggiato tisane amare, aver passeggiato tra le piante appena tagliate, di aver sfregato le mani tra le erbe e poi essermele annusate.

mercoledì 23 maggio 2018

Giorni di maggio.


  • Sono stata a teatro. Che dolore il teatro, fa male quando è brutto, fa malissimo quando è bello. È stato bello stavolta. Una riflessione sul corpo e sul teatro stesso. Crudele, imperfetto, al limite.
  • Un aperitivo tra le case, in un finto canton Ticino. Uno sbagliato tra le mani, tu un vino piemontese, ma bianco. È buono solo quando è molto buono quello, lo sai. Ti ho detto. E tu hai riso, ma l'hai preso lo stesso.
  • A una fiera dei vini ho parlato con un vecchio, Giacinto. La sua barbera era buonissima, e lui ne andava fiero. Cinque ettari, mi ha detto. Cinque ettari a mio nonno, e poi a me, e poi a mio figlio e poi a mio nipote. Uno dei suoi figli era morto, il nipote si chiamava come il morto. Il padre di Giacinto, o suo nonno, avevano conservato un'annata buona murata nel tufo, ha detto che farà lo stesso, col 2011.
  • Ieri io e la bambina abbiamo fatto un saraparty. Mi ha fatto così tenerezza che l'abbia chiamato così che le ho lasciato fare tutto.
  • A una degustazione sull'Alto Adige il relatore se ne esce con una frase che mi fa molto pensare: “Ogni pensiero sul filo è una caduta in agguato”, ci dice che la frase l'ha detta un equilibrista.
  • Ho ripreso Montale e mi sento a casa. Leggo qualche verso al giorno, di più è troppo.

martedì 27 marzo 2018

God save the Queen

Penso spesso alla Regina Elisabetta. Pare assurdo che ci pensi, non sono propriamente a favore della monarchia, non ho particolare interesse verso gli inglesi, non mi piacciono i pettegolezzi sulla famiglia reale, né m'interessano. Eppure alla regina penso spesso e le dedico tante corse.
Trovo estremamente interessante il suo percorso di vita e le narrazioni che lo riguardano, trovo davvero dignitosa la sua figura di donna. Mi commuovo pensando alle rinunce che deve aver fatto, e sono soprattutto queste che analizzo. Poi mi fa tanto pensare a come abbia affrontato, nella lentezza istituzionale del regno, tutti i cambiamenti di questo mondo che si è capovolto negli ultimi sessant'anni. Regna dal '52, ha viaggiato in lungo e in largo, ha avuto le cose più strane e curiose, nulla da desiderare (per citare la sirenetta) eppure ha dovuto far coincidere la sua vita con un ruolo. Per questo penso alle sue rinunce, che chissà fino a che punto lei ha vissuto come tali. Ha sovrapposto l'imperativo personale a quello istituzionale, e questo per me è sbalorditivo e me la fa piacere tanto. Penso spesso al mio imperativo personale/morale, al fatto che c'è una serie di azioni che mi procurerebbe beneficio ma che non faccio per rispetto verso questo imperativo, come a dire che ho un margine di libertà ma in fondo io sono io e sono convinta che in questo essere io sia inevitabile una quota di coerenza, e quella coerenza si traduce nel seguire i principi che mi sono data (appunto l'imperativo personale).

venerdì 9 febbraio 2018

Aspetto tanto la primavera, l'aspetto forte.

Aspetto tanto la primavera, l'aspetto forte.
Stringo i pugni, i denti, la mascella. 
(quando cammino nel freddo della città certe notti, dall'Hotel alla macchina.)
Sbircio sopra l'orizzonte, dietro le montagne, nel riflesso dei laghi.
Il mare è lontano, lo immagino soltanto.
Aspetto tanto primavera,
l'aria leggera, il sole che prende forza,
le mattine con la luce già fuori dalla finestra.
L'aspetto forte la primavera,
una stanza in più: il balcone,
e la voglia di respirare fino in fondo, e di dimenticare il cappotto.

martedì 2 gennaio 2018

Ezio, la banalità del male.

La piccolezza dev'essere un tratto distintivo dei vicini di casa.
La prima volta che ho visto Ezio ero una ragazzetta e facevo l'animatrice in un campeggio estivo, quelli della parrocchia. Era un bambino sfigato, montagnino, molta tenerezza. I denti storti, paffuto, quella voce un po' roca come avesse sempre giù la voce, le lentiggini di quel bambino sulla copertina delle ceneri di Angela, o di nel sonno non siamo profughi, i capelli corti tagliati un po' a caso, le guance un po' sporche di terra, bassetto. Molta tenerezza. Ricordo che gli piacevo, veniva a cercarmi, giocavamo. Ricordo poco, ché poi nella testa non l'ho più ripassata quell'estate lì, è perduta. Poi l'ho dimenticato. Sapevo che era il figlio del Nelo, e che bene o male condividevamo (le famiglie, sia chiaro) una parte di strada delle nostre seconde case, in montagna. Che fosse figlio del Nelo e che avesse a che fare con la montagna però non l'ho mai capito bene, perché son cose che non gestisco. Di Ezio ho risentito parlare l'anno scorso, o forse due anni fa, di sfuggita. La mamma diceva che è uguale a suo padre e si è sposato. Ho provato una sorta di tenerezza per un istante, quel bambino sfigato che mi prendeva per mano e correva nel prato si era sposato. Poi sono tornata alla mia vita.
Ieri l'ho incontrato e sono rimasta affranta.
Primo giorno dell'anno, montagna, neve dappertutto, neve su tutti i rami, sulla strada, sulle poche foglie rimaste, sulla macchina, su di noi, visto che nevicava tanto e bene, così bene che ho pensato: guarda, in un paio d'ore la neve ha già cancellato le nostre impronte, si riparte, è il nuovo anno.
Ho portato la pala su per la strada, per spalare un po' intorno alla macchina, nel caso in cui avessimo dovuto mettere le catene, nel tragitto con la pala ho fatto strisce nel terreno, e spinto giù la neve dagli alberi, quasi a rimpinzare con i rami catapulta quella che mi scendeva in testa. Alla macchina abbiamo un po' spalato, poi messo le catene, poi provato a fare in retro il breve tratto di salita. E lì, incredula, ho visto l'Ezio, meglio, ho visto la sua versione vecchia e incarognita. Era insieme al padre dal ghigno sempreverde. Hanno fermato la macchina, guardato con sufficienza, gridato cose incomprensibili, insulti, rimproveri. Violentemente. Che maleducazione, che sfiducia, che ignoranza, che grande tristezza. Non potevo crederci.
Quel bambino era diventato quella brutta copia di suo padre che avevo davanti agli occhi. A vent'anni già irrancorito da una macchina secondo lui parcheggiata nel modo sbagliato, dalla neve spalata nel modo sbagliato, o magari dal dramma di condividere un pezzo di strada con qualcuno. O forse solamente da qualcuno di diverso, che sta bene. Che desolazione ho provato nel vederlo passare già vecchio e arrabbiato il primo giorno dell'anno, di mattina. Piccolo stolto Ezio, perché non fai l'amore il primo dell'anno, perché non una passeggiata? Perché sei diventato quell'infelice di tuo padre e con lui gridi contro alle persone?
In tutte le corse fatte da allora ci ho pensato. All'insensatezza di quella ferocia, a quella rabbia che non cercava altro che qualcuno su cui sfogarsi, alla maleducazione del gridare al posto che del parlare. Perché sei così infelice? Che è successo? Ho rimpianto di non averti fermato quando mi sei passato davanti e averti detto: Ehi, Ezio, ti ricordi di me? O anche, mentre dall'alto della salita sputavi rancore: Ezio, calmo, risolviamo tutto, non è successo niente.
Ma lì per lì, guardandolo, ero insieme incredula e accecata. Gli ho tagliato la gola col badile, ho spaccato i denti di quel ghigno del cazzo sul grugno del vecchio, gli ho fatto implorare perdono per la sua maleducazione, l'ho stecchito con la forza delle parole, probabilmente reiterando il bullismo che deve aver subito per ridursi così. L'ho schiacciato con il mio sguardo, lui e la sua meschinità. Come fosse un insetto schifoso. L'ho minacciato. Ho minacciato la sua famiglia. Gli ho detto: aspetta solo che incontri tuo figlio, e prega. L'ho insultato, gli ho riempito il culo di neve finché non ha capito di essere stato un maleducato.
Invece ho solo detto: non serve gridare, se ho fatto qualcosa di sbagliato scusate, e buon anno anche a voi.

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