Ecco, io non credo tanto nelle petizioni on line, ma credo tanto ne L'Europeo, al quale sono legata legata legata, che ogni tanto leggo e mi fa viaggiare e capire. Ho iniziato a leggerlo nel 2009, e da allora non so, a volte m'è parsa l'unica testata che aveva senso leggere; non banale, ben scritta, sempre. E se adesso chiude mi cadono le palle e le speranze... firmate dài, firmate!
http://www.leuropeo.com/petizione/
Circondata dalle rappresentazioni, dalle narrazioni. Provo a interpretare, a leggere il mondo. Cerco brandelli di realtà, poi rinuncio, poi capisco; e senza pretese m'immergo nello scambio.
domenica 14 luglio 2013
giovedì 11 luglio 2013
Le poesie dette in piedi sulla sedia ai matrimoni
Quando ero piccola e qualcuno si
sposava io dovevo dire le poesie in piedi sulla sedia. Ero sempre in
difficoltà, mi facevano salire in piedi quando ancora la gente
parlava e il chiacchiericcio degli invitati gioiosi, dall'alto della
sedia, mi sembrava una città brulicante, qualcosa che stava al di
sotto, come fosse un po' ottuso. Poi, col coltello, la nonna
(l'artefice vera delle poesie al matrimonio) batteva sul bicchiere, e
richiamava al silenzio la sala intera. Tutti si voltavano verso di
me, io di sicuro arrossivo e diventavo tutta una fossetta tra la
tensione la vergogna la paura di non ricordare. La nonna mi diceva
Dài, e io partivo, qualcuno in fondo alla sala diceva: Voce, e io
peperone ripartivo, recitavo la poesiola il più in fretta possibile,
mi beccavo l'applauso senza tanti inchini e già scendendo dalla
sedia. Fatto anche stavolta, pensavo cercando di sparire, di
mimetizzarmi, di evaporare, di diventare trasparente. Di sicuro
qualcuno mi passava una mano sulle trecce strette alla testa, qualche
zia mi faceva l'occhiolino e mi diceva Brava. Ho sempre invidiato i
bambini che non dovevano dire le poesie ai matrimoni. Mi allenavano
per farlo, la nonna era la mia personal trainer, tante volte la
ripetevamo insieme, e quando non la ripetevo io la diceva lei ad alta
voce, impastando una crostata, o un verso ogni mano di carte. Non era
sempre la stessa poesia, c'era un volumetto in casa, di sicuro si
intitolava Le poesie del matrimonio o Poesie per matrimonio, a
seconda degli sposi ne sceglievamo un paio, non troppo lunghe, non
troppo corte, per lo più con cenni religiosi, e il primo passo era
copiarla su un bel foglio. E poi via, ripeterla ripeterla ripeterla,
io e la nonna in campagna, io e la nonna in cucina, davanti al nonno,
sul terrazzo a fare il bagno nella vaschetta. Anche quando la nonna
poi al matrimonio non c'era mi faceva impararle, e poi provavo a
convincer la mamma a lasciarmi non dirla, perché nessuno la diceva,
ma la mamma non cedeva, Ormai l'hai imparata, Cosa ti costa, Agli
sposi fa piacere; Pensa che regalo... e così via, finché mi
rassegnavo e facevo il mio dovere, è andata a avanti tanto la storia
delle poesie, finché non ero grandicella o non so, forse poi nessuno
s'è più sposato.
La poesia ai matrimoni, in piedi su una
sedia, era paurosa, era qualcosa che mi buttava nel pubblico, che mi
puntava un riflettore addosso. Io, che giocavo sempre da sola o a
carte con gli adulti, che non osavo mostrare i piedi a nessuno, che
piuttosto che mettere un vestito barattavo ogni gioco e ogni libertà,
che fin da piccola ho imparato a non esserci, a non disturbare. Però
quando le imparavamo era bello, l'aria sapeva di sapone e di sole, e
tendevamo le lenzuola prima di piegarle, un verso ogni piega, Tira!,
e io tiravo più forte che potevo e speravo cedesse, speravo che una
piccola crepetta si facesse buco, e un altro verso e un'altra piega,
Tira!, e le mollette del colore dei capi stesi, e la nonna che aveva
una memoria pazzesca, che sapeva tutte le filastrocche del mondo e
nomi dei fiori, e cento giochi alle carte, e che le tabelline erano
il suo pane, e i calcoli li prendeva e se li girava e rigirava nella
testa, e veloce rispondeva e cambiava e giocava coi suoni, ma questa
è un'altra storia.
mercoledì 3 luglio 2013
appunti su Mutterseele
Lavoro a un libro bello in questo
periodo (spesso, ma questo di più). Ne sto facendo la seconda
rilettura e me lo sto godendo, pulite le cose più grandi questa è
la parte che preferisco, perché il libro lo conosco già e ci ho già
messo le mani, e qui, a questo punto:
ancora non mi ha stufata + posso
cogliere meglio alcune cose appena intraviste + posso scoprire nuove
cose + posso fare un bagno nella lingua, ché ormai sento come
parlano le persone (in questo caso la, una donna).
E questo libro, in questa seconda
lettura, mi sembra un testamento. Alla prima lettura mi sembrava un
monologo interiore, ora mi sembra di coglierne i grandi temi, le
somme, se così si può dire.
Un lascito. Un lascito spigoloso e
realista, disincantato e tremendamente d'avanguardia perché fuori
tempo.
L’ho vista subito, la prima ruga, è
comparsa di colpo, da un giorno all’altro, e non ho fatto neanche
in tempo ad abituarmici che ne è comparsa un’altra, e poi le
successive mi hanno scavato il viso sempre più in profondità, e le
ciglia hanno cominciato a cadermi, e gli occhi a impallidire, e il
bianco dell’occhio si è fatto giallo, e sul petto sono spuntati
dei peli e sopra il labbro superiore dei baffetti, al punto che non
sapevo più se ero un uomo o una donna.
Una volta comunque si invecchiava prima rispetto a oggi, a trent’anni la vita era praticamente finita. E nessuno ti guardava più come donna. E quando non si ha più nessuno per cui essere bella si perde la voglia di esserlo anche per se stessi, o di essere grassi o magri, e quando arrivano le rughe prima si assiste al loro espandersi sul viso, da principio sottili sottili come una ragnatela delicata, e poi al loro incidere la pelle più in profondità, sempre più in profondità, e d’un tratto ci si vede come un fossile e ci si spaventa a guardarsi allo specchio, ma non si cede, perché si vuole ancora qualcosa in cambio di tutto il lavoro fatto, e si vorrebbe stare a guardare il più a lungo possibile i risultati di quello che si è stati in grado di fare e di produrre. Quando si è giovani ci si chiede perché i vecchi rimangano così attaccati alla loro misera vita, e si pensa che prima o poi debba arrivare il giorno in cui se ne ha abbastanza e non si ha più voglia di andare avanti, sì, proprio così, perché si è avuto tutto dalla vita oppure perché si è abbastanza saggi da sapere che quello che si è tanto desiderato non arriverà più; eppure si impara a farsene una ragione, anzi si impara a farsi una ragione di tutto, e a sorprendersi che la notte la schiena faccia più male del dolore per il figlio morto.
Una volta comunque si invecchiava prima rispetto a oggi, a trent’anni la vita era praticamente finita. E nessuno ti guardava più come donna. E quando non si ha più nessuno per cui essere bella si perde la voglia di esserlo anche per se stessi, o di essere grassi o magri, e quando arrivano le rughe prima si assiste al loro espandersi sul viso, da principio sottili sottili come una ragnatela delicata, e poi al loro incidere la pelle più in profondità, sempre più in profondità, e d’un tratto ci si vede come un fossile e ci si spaventa a guardarsi allo specchio, ma non si cede, perché si vuole ancora qualcosa in cambio di tutto il lavoro fatto, e si vorrebbe stare a guardare il più a lungo possibile i risultati di quello che si è stati in grado di fare e di produrre. Quando si è giovani ci si chiede perché i vecchi rimangano così attaccati alla loro misera vita, e si pensa che prima o poi debba arrivare il giorno in cui se ne ha abbastanza e non si ha più voglia di andare avanti, sì, proprio così, perché si è avuto tutto dalla vita oppure perché si è abbastanza saggi da sapere che quello che si è tanto desiderato non arriverà più; eppure si impara a farsene una ragione, anzi si impara a farsi una ragione di tutto, e a sorprendersi che la notte la schiena faccia più male del dolore per il figlio morto.
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