venerdì 18 ottobre 2019

La Bambina entra in politica.



Ieri pomeriggio siamo andati a prendere la Bambina, camminando verso la macchina ci ha confidato: ho la testa piena di pensieri. Io le ho risposto che così l’avevamo noi, del resto D. c’ha i pensieri di divorzio, di albo, di shiatsu, di dipingere l’ultima stanza della casa, di vendere bici e montare bici; io c’ho i pensieri del nuovo compito, del difficile passaggio di consegne, del consiglio di mercoledì, del libro complicato a cui lavoro, delle camicie che non ho ancora stirato, del viaggio a Roma. Ma che pensieri ha la Bambina?
La Bambina ha deciso di entrare in politica, di candidarsi come responsabile di classe ed entrare a far parte di una sorta di organismo comunale dei bambini, in cui, tra i rappresentanti di classe, si eleggerà un sindaco dei bambini.
Ora, c’è da sapere che la Bambina è una persona retta, con un forte senso della giustizia e piena di rispetto verso gli altri e verso l’autorità e le regole, ma è anche una timidona, ha tante paure, ha un rito di sei sette operazioni prima di andare a dormire per riuscire a dormire, è convinta che le scappi sempre la pipi a parte quando se ne dimentica, ha timore delle cose nuove e non le piace socializzare.
Eppure ha deciso di candidarsi. Ed ha deciso di candidarsi perché si ritiene una persona responsabile e che ha delle proposte per migliorare le cose. Se non mi fossi ripromessa di non provare fierezza e delusione nei confronti della Bambina, immagino che sarei fiera. E ammiro questa fiducia in sé stessa, e ammiro anche la sua audacia nelle proposte (tipo proporre un giorni di merenda fresca o sana a settimana). E mi fa pensare tanto questo aspetto, lo invidio quasi, questo aspetto di Bambina che con estrema pulizia e grande ingenuità si propone per un compito difficile perché sa che può portarlo a termine e si ritiene adatta a svolgerlo. Mi piace tanto pensare che sia questo lo spirito di chi fa politica, mi piace anche sognare il futuro, e immaginarmi ricordare questo giorno qualunque, in cui la Bambina ha la testa piena e inizia il suo percorso. E mi piace anche immaginarmi il giorno in cui sarà in una situazione di forte potere - magari proprio nelle questioni di genere: in un mondo ormai degenere un gruppo di tante tante persone ha finalmente deciso che è tempo di dire basta agli stereotipi che incatenano tutti e ormai hanno reso il mondo sterile e piatto in una scissione formale di uomo donna che non rispetta più neanche chi quello stereotipo lo incarna alla perfezione… - in quella situazione, la Bambina, ormai rappresentante coscienziosa delle tante persone in rivolta subisce un importante tentativo di corruzione e io le ricorderò questo giorno qualunque, per riportarla all’integrità… ma qui mi fermo, prima di prendere il largo e trovarmi persa.

martedì 4 giugno 2019

Cosa ci si aspetta da un vino rosso porpora di discreta consistenza?


Studio per l'esame da degustatore, e di colpo ho un'intuizione, un obiettivo: scardinare la divisione di vini tra rossi e bianchi (perché a occhi chiusi le certezze spariscono, e a volte anche gli stereotipi)

conversazione:

- cara S., mi annoi da anni per scardinare la separazione del mondo tra donne e uomini quando questo non è il criterio pertinente o migliore per separare i gruppi, adesso te ne salti fuori con l'idea di non separare i più i bianchi dai rossi... dove andremo a finire così?
  - È così, siamo a un punto, nel mondo del vino, in cui la separazione tra bianchi e rossi non ha gran senso, sì nella descrizione è bello dirlo e descrivere il bel colore, ma non si può basare tutta una scheda su quello. I bianchi vengono sempre più spesso vinificati in rosso, con ottimi risultati (penso a certe albana, penso al collio, a cose buone davvero, giuro), i rossi vengono da sempre vinificati anche in bianco (basti pensare ai vini spumanti, allo champagne). Eppure, qui nei miei libri di testo, studio cosa mi devo aspettare da un vino rosso porpora. Come se in un libro di economia domestica dovessi studiare cosa aspettarmi da una ragazza bionda. Mi aspetto un vino giovane, magari con sentori vinosi, di frutta scura e polposa, mi aspetto un tannino ancora graffiante, non levigato, mi aspetto magari un palato leggermente slegato o tutto spostato sulle durezze. Mi aspetto una giovane mediocre e frivola, con tanta voglia di vivere e un bel sorriso pieno, mi aspetto che sappia cucinare così così ma che lo faccia volentieri per l'uomo che ama (certo, mi aspetto che sia eterosessuale), mi aspetto che abbia in piano di sposarsi e fare un paio di figli, ma anche di lavorare part time, così da crescere la famiglia e alimentare il bilancio famigliare.

- Esageri sempre S., sei una gira-frittate, adesso ci tiri fuori le solite menate femministe, che poi cosa c'entra col vino, stai preparando un esame, è utile avere dei profili in cui inquadrare il vino per capirlo.
 - Sì, è utile. E sono una gira-frittate, è vero. Eppure faccio così fatica a incanalare una materia viva come il vino in certi profili. A cercare quello che devo aspettarmi, mi pare di togliermi metà del piacere.

- Lo capisco, ma quello che stai per affrontare è un esame, studi come si deve, poi rimescoli tutto, ma un gradino più in su.
 - Immagino di sì. In questi giorni ci stiamo trovando ogni tanto a degustare, ma la prima degustazione in piedi davanti ai colleghi la ricordo bene. Ricordo che nella descrizione visiva ho detto: “è un vino giallo dorato, il colore è vivace e la luminosità è bella, presenta una splendida nuance ottone”. Era proprio ottone, il pomo di una porta che portava nel vino, mi bastava girare il pomello e chissà cosa c'era dietro. Ma sono stata corretta, mai dire ottone, perché?, è proprio ottone, guarda. Sì lo vedo, ma ottone non è uno dei nostri termini, doratoluminosovivace è abbastanza. E così la porta è rimasta chiusa.

- Eccola qua la romanziera!
- Dai, non prendermi in giro, è che mi piace pensare che alla fine raccontare un vino sia raccontare poesia. Gli stereotipi sono utili e rassicuranti con quello che non conosciamo, non con quello che abbiamo di fronte ogni giorno, in quest'ultimo caso son prigioni, in quest'ultimo caso sono le persone che mi chiedono quando mi sposo o perché non ho ancora fatto figli, sono dieci persone che annusano con un vino con l'unico scopo di sentire esattamente la stessa cosa.

venerdì 8 marzo 2019

Avete voluto la parità...

Lo sento dire sempre, dagli uomini: avete voluto la parità, dalle donne: abbiamo voluto la parità.
Ogni volta penso che sia una frase così piena di insidie da farmi tremare le ginocchia.
Come riprendere la famosa: hai voluto la bici e allora pedala.
Hai voluto la parità? E allora paga la cena.
Hai voluto la parità? E allora lavora.
Provo a destrutturarla, per mia comodità, per aver ben chiare le fallacie, e poi a ragionare sui sottintesi che lascia lì sospesi...

Avete: prima fallacia, abbiamo chi? Solo le donne? Tutte le donne? O a certe andava bene pulire i pavimenti sperando nella paghetta settimanale, andava bene non poter votare? O andava bene il delitto d'onore? O comunque, a chi poteva andar bene che metà società valesse meno (tanto meno) dell'altra metà? È un avete accusatorio e indefinito, che onestamente delinea un noi e un voi che non fa tanto onore a chi lo pronuncia. (tu, persona che ho di fronte e con cui perdo il mio tempo, tu, non l'hai voluto?)

Avete voluto: qui l'errore è che lo fa sembrare un vezzo, un capriccio. Come se fosse una gentile concessione. Vuoi proprio uscire la sera? Fallo. Vuoi metterti una gonna corta? Fallo, ma a tuo rischio e pericolo. Vuoi guidare? Eh va beh, ma poi non lamentarti se devi studiare per fare la patente. E invece io voglio la patente e voglio pure lamentarmi. Cari e care, non è che ho voluto, avrei volentieri evitato di volere in un società più civile. Non è che mi sono svegliata una mattina e ho voluto farmi i capelli viola, piuttosto sono nata in una società dove ogni volta che vado a fare una corsa subisco commenti (sulla corsa, sul mio corpo, sull'andamento lento o veloce, su come possa scopare se voglio dimagrire al posto di correre...), dove vengo esibita come un passo avanti della società perché sono donna e lavoro (giuro, cose tipo: guardate che bravi che siamo, ci sono qui quattro donne in questo mondo del vino), dove a un'amica (per inteso, già madre di famiglia) viene negata una procedura farmacologica a seguito di problematiche col feto perché in quel bell'ospedale del nord Italia non sapevano neanche cos’era; dove a una donna mandano sulla mail di lavoro immagini “divertenti” di suore che mangiano banane. Non è proprio che l'ho voluto, è che non si può fare finta di niente e continuare tutti a sopportare.

La parità: qui è proprio un modo di dire, la questione femminista e quella sulla parità son cose diverse, sono battaglie diverse, e gruppi frammentati, perché si è in quella parte di società che si fa tante domande e si dà tante risposte, e ogni risposta fa un nuovo sottogruppo e così via. I passi avanti in quelli che sono normali diritti civili che prima erano negati a una parte della società, non è che sia proprio parità. È riconoscere la donna almeno a livello legislativo quasi alla pari dell'uomo. E questo secondo me ha relativamente poco a che vedere con tutto il processo di emancipazione dagli stereotipi, con le libertà personali, con la comprensione della complessità dell'individuo e il superamento del concetto di uomo e donna come unico criterio per leggere la società. Manca il livello economico (parità salariale), manca l'indipendenza, manca, nel 2019, di non dover firmare le dimissioni in bianco quando si viene assunte. Non si è capito che tutta la società beneficia dei diritti acquisiti. Insomma, se abbiamo voluto la parità evidentemente non l'abbiamo voluta abbastanza, o abbiamo a un certo punto smesso di volerla.

Sensazioni correlate:
È una frase pericolosa perché ha dei sottintesi, perché lascia in sospeso l'altra metà della frase e suona come una minaccia.
  • Quindi, mettiamo anche che abbia voluto la parità, ma quando a lungo devo pagare?
  • E poi, è curioso che si traduca sempre in qualcosa riferito alle donne, e mai all'uomo stesso, tipo: avete voluto la parità quindi vado a lavare i piatti, quindi lascia stare pulisco il pavimento... sarebbe l'uso grammaticale più logico della frase, no?
  • Perché alla fine sembra che la parità si giochi sempre lì, in cucina, nelle pulizie e nella cura dei figli, nel pagare o nell'offrire una cena, nel non aprire una porta a una persona che esce o che entra. Piccoli gesti di cura reciproca che hanno ben poco a che fare con la società che vorrei, o con quello che “abbiamo voluto”:
    • 10 marzo 1945: per la prima volta le donne votano in Italia.
    • 1975: diritto di famiglia.
    • 1978: legge 194 (ma qui bisogna anche parlare degli obiettori, una media del 70% con picchi del 90% al sud).
    • agosto 1981: viene abolito l'articolo del codice penale 587 relativo al delitto d'onore e di conseguenza anche al 544 sul matrimonio riparatore.
    • 15 febbraio 1996: la violenza sessuale smette di essere un reato contro la morale pubblica e diventa reato contro la persona.
    • 2001: tutela contro le violenze domestiche.
    • 2009: stalking.

domenica 17 febbraio 2019

Capodanno 2019, Passeggina non pervenuta

La Bambina mi ha cancellata dal capodanno.
Eravamo in montagna in tre, io, lei e D., ma nel temino che ha fatto per la scuola erano in due, lei e D.
Erano loro ad aver trascorso la settimana in montagna, loro ad aver fatto la spesa a Trepalle perché costa meno, loro ad aver giocato a labirinto (e la bambina dice che ha perso), loro ad aver mangiato la salamella e aver trascorso una serata così bella, che la Bambina si augurava non finisse più.
Quando l'ho letto sono rimasta molto colpita, mi sono sentita cancellata. Ingiustamente.

Certo la Bambina non l'ha fatto per disamore, non l'ha fatto per me, non è personale, lo so, ma questo evento mi ha molto fatto pensare a chi è la matrigna e a come sia difficile, per un bambino, trovare le parole per dirlo senza percepire una stortura in questa figura.

Parto dall'inizio.
La Bambina mi conosce da quando è piccolissima, da sempre. Ci piacciamo certi giorni, meno altri giorni. So come piange, cosa le piace e cosa no, so quando è meglio lasciarla in pace e quando invece farle il solletico, so i suoi abbracci della buonanotte e so come non le piaccia lavarsi i denti e farsi il bidet, so i suoi odori.
So parlarle di cose serie, so addirittura dirle: “Bambina, mi hai cancellata dal capodanno e adesso, dentro di me, sto continuando a ripetermi che non l'hai fatto perché non mi vuoi bene, ma perché magari non ti sentivi di affrontare l'argomento in classe o altri motivi più sociali che personali, però è difficile, devo proprio dirmi: anche se la Bambina ti ha cancellata ti vuole bene.” e non è facile da dire e neanche sentirselo dire.
Anche la Bambina sa di me, vede quando sono di umore torvo, sa che la mattina dormicchio o leggo il giornale, sa che mi piace ballare, e sa su cosa sono permalosa.
Io e la Bambina andiamo d'accordo, io e la mamma della Bambina andiamo d'accordo, io e il compagno della mamma della Bambina andiamo d'accordo, e così D., con la mamma e col compagno della mamma.
È tutto alla luce del sole, difficile, diverso, ma quotidiano, pulito, pieno di sincerità. Eppure la Bambina non se l'è sentita di scrivere che eravamo in tre, e che io ho vinto a labirinto.
Non credo di raccontarmela quando decido di non prenderla sul personale, ma questo non toglie che un po' di male lo fa.

In fondo sono otto anni di ricordi, fatiche, ricerca di equilibri, bagni al lago, viaggi, prati, libri, cartoni animati, aperitivi, giri in bici, compiti, passeggiate, buonenotti e buongiorni e pranzi, cene, discorsi, pipponi, giochi in scatola, canzoni.

giovedì 7 febbraio 2019

appunti sul libro della madre, e una bellissima citazione

In lontananza, sui campi e lungo la strada, si avvicinarono dei puntolini neri. Si ingrandirono sempre di più. Gli uomini. Gli uomini che tornavano, in uniforme, con lo zaino militare e il fucile in spalla. Ridevano e salutavano, ormai riconoscibili uno per uno. Mia madre alzò una mano, salutò anche lei. «Cane» disse al cane. «D’ora in poi dovremo sopravvivere alla pace, noi due».
(Il grande amore di mia madre, Widmer)

Lavoro a un libro toccante e molto bello, tradotto con la profondità e la spigliatezza con cui, sono certa, è stato scritto. È un libro che mi scatena una sorta di dispiacere intimo. È un figlio, adulto, che racconta una madre. La racconta con severità e con colore, a tratti con un po' d'affetto, torna alle radici, agli avi e lì si mischia alla leggenda, fa un salto in un'Italia passata e contadina, poi si riavvicina a quel presente di prima di lui e poi al presente con lui. Sempre, in tutto il testo, non sento rabbia, sento distanza. Una distanza però che mi pare sia il modo, di Widmer, di capirla, questa madre, una distanza che studia, non che allontana.
Forse il dispiacere non sta nel racconto, nei fatti (sebbene abbia avuto una vita segnata dalla sofferenza, questa madre), non sta nel dentro del libro, che è intimo e non giudicante, il dispiacere che provo riguarda il titolo, è lì, che secondo me, manifesta il suo rancore: Il grande amore di mia madre. Non un libro sulla madre, a specchio di quello del padre (altrettanto bello, ma un bel po' più affettuoso). Mi piacerebbe sapere se il titolo è venuto così, se c'ha pensato, se è proprio una scelta sua o dell'editore, se è un tentativo ennesimo di provare a dire a quel mostro dell'amore della madre che è colpa sua, che ha rovinato una vita o forse di più (ma visto come si conclude il libro non credo proprio).

sabato 12 gennaio 2019

La zia Ida, così, dall'insonnia.

L'altra notte non riuscivo a dormire, e nel dormiveglia ho pensato alla zia Ida. Non so bene perché, avrà avuto a che fare con Venezia, con la vecchiaia, col cantare forse. Ho il ricordo sbiadito della zia che rimprovera qualcuno a tavola perché canta o forse è la nonna che rimprovera la zia perché canta a tavola. E questo rimprovero è un detto che non mi viene in mente, chi canta a tavola... e mi manca la seconda metà.
Così, nella notte insonne, - per non pensare al parcheggio milanese nella zona della movida e nell'ora di punta serale che non sarei riuscita a trovare il giorno dopo, per andare a fare servizio-, pensavo alla zia Ida. So molto poco di lei, ricordo che per tanti anni, ogni anno, lei e lo zio Mario (suo fratello), trascorrevano qualche settimana a casa della nonna. Ricordo bene me e la zia a passeggiare nel villaggio, a comprare un gelato confezionato al Baroldi.
Mi ricordo bene il suo profumo, d'incenso, di naftalina, di cipria, un odore polveroso. Aveva la pelle molto chiara, e sottile sottile come i vecchi, forse è più vecchia della nonna; ho nitida l'immagine di lei con un camice azzurro a piccoli fiori. A quanto ne so ha vissuto tutta la sua vita con il fratello, legenda narra dopo una delusione d'amore. Dello zio Mario ricordo il volto, e poi che era alto e vestiva di marrone, e che riusciva a sbucciare una mela mantenendo un solo lungo ricciolo di buccia.
La zia Ida arrivava in treno da Venezia e regalava gioielli con le pietre. Ho varie parure blindate tra i gioielli della comunione e della cresima mia e delle mie sorelle. Una volta siamo andati a trovarla, lo zio Mario era già morto. Era estate o forse era inverno, ricordo comunque che a casa sua era troppo freddo o troppo caldo. La casa mi era sembrata molto piccola, spoglia e modesta, un appartamentino in un casone nelle periferie di Mestre. Adesso che ci penso, mi ricordo anche che come intercalare diceva “ciò”. Della sua vita veneziana non so nulla, né se lavorava, né se ha mai fatto l'amore. Non so come sia imparentata con noi, né chi sia Eva, nome che associo alla zia, una donna dai capelli lunghi e orecchini lunghi, che devo aver visto qualche volta, da bambina.

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