giovedì 29 dicembre 2011

Appunti sui demoni pre fine anno

Ognuno ha i propri demoni, spesso piccoli.
I demoni non hanno unità di misura, o ci sono o non ci sono.
Il codice binario del demone: 0-senza/dorme 1-c'è.
I demoni dormono.
Poi uno gratuggia il formaggio e il demone si sveglia.
Uno pulisce il gas e il demone dirompe nella vita.
Uno accende la macchina per andare a fare la spesa e il demone lo blocca nel parcheggio, sguardo perduto, macchina accesa.
Ho conosciuto un uomo senza una mano. Ho subito pensato che il suo demone fosse lì, poggiato sul moncherino. Sbagliavo, il demone era il pensiero della sorella, forse lesbica.
I demoni altrui non vanno mai, mai giudicati.
Dei propri demoni vale la pena condividerne solo la forma, sono tanto intimi e dormienti da non interessare.
Una persona può avere più demoni, a volte tutti spenti.
Certe volte i demoni si svegliano tra loro, basta che uno si desti e l'uomo è fottuto.
Ecco, oggi mi s'è svegliato un demone.

mercoledì 28 dicembre 2011

La Jolanda (appunti su via Roma)



Premessa: la Jolanda, qui in questo testo, non è una vagina, è una donna immortale.

Oggi la Jolanda aveva le calze sottili nere o forse gambaletti sotto ai pantaloni lucidi neri. Aveva sandali che mostravano le unghie laccate di un colore sul magenta coperte dalla calza sottile, si trattava di sandali oro con zeppa. Nonostante questo la Jolanda non è una peripatetica. Stava scopando lo spazio all’entrata tra la porta e l’inferriata. La Jolanda è la parrucchiera di via Roma. Ha i capelli platino corti e ricci, il viso molto bianco, quasi senza rughe, labbra sottili e rosse come quelle delle donne dell’est a teatro, trucco sugli occhi sorprendentemente leggero. La Jolanda esiste da sempre, e credo che per sempre esisterà. Ci vanno solamente le vecchie delle via, ci andava la nonna, la accompagnavo, e la Jolanda era già lì, già vecchia. E nel negozio l’odore di lacca, la luce di seconda mano che entrava dai vetri oscurati o forse con tende in trasparenza, ma scure. Divanetto a grandi fantasie sul marrone. Sedie marroni girevoli e specchi ben lucidi, e i caschi, i magnifici caschi bianchi, come uova giganti a pettinare donne Calimero (Priscilla si chiamava la Lei del Calimero? Aveva anche lei un uovo in testa?) sedute in fila con rivista pettegolezzo in mano. Ci accompagnavo la nonna ed era ogni volta l’esperienza più noiosa della mia vita. Non capivo di chi si parlasse anzi sparlasse, non capivo chi fossero le persone sulle riviste, i pettegolezzi erano sempre non detti, il parlare allusivo fin da allora mi sembrava scorretto, fingevo sempre di non sentirlo, non mi piaceva pensare che la nonna era cattiva. Sulla finestra c’era un giglio, credo di plastica. Poi la nonna è morta e la Jolanda ha avuto una cliente bimensile in meno. Quando passo e spio verso il basso (il negozio è qualche gradino sotto il livello della strada) ci sono sempre una o due vecchie. Mi chiedo se anche le nuove vecchie vadano dalla Jolanda, o se una volta morte le sue vecchie una a una sarà costretta a chiudere.

lunedì 26 dicembre 2011

questa sera

In certe sere il libro sbagliato, incubi a catena anche se tutte le luci sono accese, anche se il libro non è dell'orrore. Non capire più il vero e il sogno. Occhi sbarrati. Ogni rumore un sobbalzo del cuore.

E lei, anche lei scrive?

Slavenka Drakulic Il gusto di un uomo, Il saggiatore, Milano, 1996

martedì 20 dicembre 2011

Strenne...1

Ogni libro di Mattotti che mi capita tra le mani è un viaggio. Sarà per questo che tra l'uno e l'altro devo lasciar scorrere tempo e libri e vicende della vita. Oggi però mi è capitato tra le mani Fuochi, e mi sa che era il momento perchè mi ha subito portata via.
Ho accuratamente evitato l'introduzione di Daniele Barbieri. Ho aperto a pagina 9 e sono partita.
La protagonista è un'isola. Sant'Agata. Eppure la protagonista sono anch'io. È il dentro.
Si tratta della lotta tra la natura e la meccanica. Tra il verde e il ferro. Tra l'istinto e il dovere. (E qui accenno a una riflessione illuminante fatta poco tempo fa con un'amica illuminata: l'istinto è razionalissimo)
Il conflitto è tra ciò che si era e ciò che si è, tra gli altri e il sè.
Ecco, troppe cose. Eppure Fuochi è davvero tutto questo. E anche se non si fa, non si fa mai, aggiungo una parte finale, ché tanto chi lo prenderà (il libro) potrà goder di mille cose, e chi non lo prenderà potrà in questo modo beneficiare di un'immagine di per sè assolutamente bella.

lunedì 19 dicembre 2011

Trst (9 appunti)

1. Stivali nell'acqua, acqua negli stivali, cammino evitando le pozanghere, cammina la testa leggera sotto i lampioni retrò.
2. Al mare. A fianco del mare guardo il mare. È azzurro blu e giallo. Trema. 
3. C'è un uomo dalla barba lunga dai capelli lunghi, usa una macchina fotografica con l'obiettivo lungo quasi fosse un fucile.
4. Nel caffè entra la luce solo dalla finestra sulla destra. Entra come un fascio. Solo qualche ora.
5. Entri, sorridi, Che strano entrare qui e averti qui che sfogli libri, dici. Fossette dappertutto, che ricchezza, che bellezza.
6. La domanda difficile mi coglie di sorpresa. Vorrei dire, uffa, l'arroganza è la prima difficoltà che chi corregge si trova ad affrontare, uffa, i ritardi sono la piaga di chi prova a vedere i capitoli come un libro più che come settori, uffa, le pressioni e i ricatti sono il cancro del potere. Ma parlo di traslitterazioni, anche quelle a volte fan perder la pazienza. Ma su, dentro al testo è sempre un'altra storia, c'è la logica delle lettere degli spazi dei significati, col testo non ci si può mica arrabbiare!
7. Le mani curate, l'aspetto curato, la pelle giovane, il naso quasi a punta, gli occhi vispi dietro gli occhiali. E subito m'intimidisco.
8. Passeggiamo bicchiere in mano. Il sole sulla destra anche stavolta. Silenzio. Solo un uccello vomita suoni quando si ferma ogni tre passi.
9. Quattro frecce accese scandiscono il tempo. Manca il giallo. Saluti. Oddio anche quest'anno è successo, anche quest'anno la magia. Niente neve, freddo poco, vino tanto. Libri belli, persone vive. Persone. Non editori, non architetti, non commessi. Persone. Idee. Emozioni motore. Mare. Fogli macchina. 
Ricordare: 1."questo silenzio ha sbagliato tavolo" - Omar Lara 2.http://fierabazlen.wordpress.com/

lunedì 12 dicembre 2011

buon viaggio!


Corso Buenos Aires era fredda. Eppure era bella, ampia, le macchine sfrecciavano, le macchine erano più rassicuranti delle donne impellicciate di corso Napoleone. Cercavamo un caffè dove decidere, dove sederci e appoggiare a uno schienale le schiene stanche dall’asfalto, le menti stanche dalle contraddizioni della realtà, di colpo palesate con violenza sotto gli occhi, di colpo scagliate contro il corpo come grandi borse cartonate piene di regali. Il periodo di natale è veleno. Milano a natale è veleno. Cercavamo il caffè e abbiamo trovato un caffè dove tutti bevevano tè. E poi ho deciso quello che era da decidere, e allora la pancia si è rilassata. E mentre uscivamo la signora filippina senza età mi è parsa la persona più gioiosa, gli auguri ripetuti quella volta in più, il sorriso anche quel secondo dopo. Durata d’improvviso come testimone di verità. Come simboli fuori di un dentro. Siamo usciti e di colpo il dover decidere che fare era sparito, il peso della scelta aveva ceduto alla pigrizia, al desiderio nascosto. E si camminava, e ora c’era tempo e la notte poteva anche durare mille anni. Avevo scelto e potevo sballare gli orologi. E c’era un negozio di borse di cuoio e di fronte uno di prodotti i bellezza, e all’angolo la città del sole, e anche se era domenica il macellaio era aperto e addobbato come un gioielliere, e vicino al macellaio boa di struzzo rosa, e rossi, e blu, e neri. Cascate di piume, e maschere, e colori cotonati a far da tenda, a sbarrare l’entrata, come nella caverna magica. Ci pieghiamo e sbirciamo ed entriamo. Gli occhi s’allargano, perchè tutto non ci sta, dentro agli occhi. Costumi per lo più, e una disco ball gigante, e vetrinette di vestiti gioiello, e piume. E un signore con un cappello, e la cadenza di chi interpreta volentieri un ruolo. La voce di chi guarda dall’alto, di chi non si può scalfire. Tre due uno, bla bla, che meraviglia, ti piace è, sì. Poi usciamo, perchè è stretto e fitto, e il signore occupa il suo spazio e è come se parlasse dall’alto, come se si aspettasse qualcosa, e io ho paura delle aspettative delle persone, anche se sono piccole, anche se sono simboli. Ma mentre pieghiamo la testa e tra i manti cerchiamo la via ecco che dall’alto la voce sicura e di colpo gentile esclama senza ironia: buon viaggio! E corso B.A. diventa solo BA, e almeno per me finalmente sparisce il natale e comincia il viaggio.

lunedì 5 dicembre 2011

La ragazza straniera


A volte mi chiedo se ci vedremo invecchiare. Tremo alla sola idea. Tutta una vita in un posto. Tutta una vita incrociarsi senza mai scambiarsi una parola. Senza sapere i reciproci nomi. Vedere proiettati su lei istanti che avrebbero potuto essere in parallelo, miei.
Parlo della ragazza straniera.
Quando sono rientrata qui, dopo svariati anni distante, sono giunta con il mio compagno, che allora era un ragazzo dell’est. Ci siamo stabiliti, senza troppa convinzione, nel vecchio appartamento di famiglia, l’affitto era al limite delle nostre limitate possibilità e l’appartamento era libero da subito. Io stavo lavorando alla tesi, e davo ripetizioni a studentelli, il mio compagno lavorava in una fabbrica e rientrava solo la sera. Le mie giornate erano lunghe, a volte buone, quando potevo lavorare, a volte frustranti, quando non mi riusciva di scrivere e non avevo studenti. Non avevo una macchina e per questo per ogni spostamento prendevo l’autobus. C’è una fermata non molto distante da casa, qualche minuto a piedi, è lì che l’ho vista la prima volta. È lì che anche ora la vedo spesso. È lì che ci siamo guardate interrogative, nessuna ha aperto bocca. Credo sembrassimo sorelle. Di certo entrambe sembravamo ragazze dell’est. Capelli lunghissimi e biondi, entrambe viso tondo, bianche bianche, occhi chiari, sorriso con fossette. Stile diverso nel vestire, questo sì. Ricordo che indossava jeans attillatissimi, un maglioncino di lanetta a righe orizzontali, lungo appena fino all’ombelico, ballerine marroni. Colpiva subito. Ricordo anche di essermi guardata intorno quella volta e d’essermi chiesta se le persone facessero paragoni tra noi, vista la somiglianza. Aveva un difetto nei denti, non saprei descriverlo, un difettuccio, di quelli che fanno sorridere in modo mite e candido. Di quelli che non penalizzano ma addolciscono.
Dicevo che lì l’ho vista la prima volta. Viviamo nella stessa via, nonostante questo non ho idea della casa in cui lei abiti. So che ha avuto un bambino, o una bambina, ma questo già un paio d’anni fa. Ancora mi ricordo, almeno sei sette mesi dopo il primo incontro l’ho vista con la grande pancia. M’è preso un colpo. Ha un bambino mi sono detta. E tu? E io no, anzi siamo un po’ in crisi col mio compagno dell’est, e comunque bambini anche no. E poi un giorno li ho visti passeggiare insieme, e spingere il passeggino, e avevano quell’aria felice che hanno i genitori stranieri, perchè i genitori italiani hanno sempre l’aria di non divertirsi, quando hanno un bambino, ogni volta che li vedo lei ha lo sguardo tirato (e io giuro che prego spesso il Dio finestra che figli o non figli non mi dia mai lo stesso sguardo cattivo che hanno certe madri a dieta di cibo e di sonno e di sigarette e di vino bianco [...] dopo il parto), e lui ha lo sguardo vittima che non vorrebbe essere dov'è. Beh, il loro sguardo era diverso, tipo “guarda il mondo Misa”, tipo “dai andiamo a sederci al sole che ho la termos e beviamo qualcosa di caldo”. Belli insomma. Anche se lui non lo ricordo neanche un po’. E poi la vedo ogni tanto fare la spesa, scende con le borse, direttamente dal centro commerciale. È una di quelle ragazze che portano le giacchettine in camoscio corte alla vita. E gli stivaletti mezzo tacco. E quando è inverno hanno la coda alta, e forse non l’ho mai vista ma la immagino bene anche con una fascia, negli inverni freddi che le sembreranno miti. Io nel frattempo ho tagliato i capelli e comprato una macchina, e il mio compagno dell’est è di nuovo all’est. E ho cambiato lavori e ho finito la tesi e riinizio presto una tesi. E lei mi vede correre, a volte la mattina, perchè prende l’autobus quando passo per immettermi nella ciclabile e lì correre una mezzoretta. L’ho vista anche stamattina, che per un disguido non avevo la macchina. Abbiamo aspettato in silenzio l’autobus, come quella volta, e come quella volta siamo salite. Però oggi ero sicura, nessuno ci ha scambiate per sorelle.

domenica 4 dicembre 2011

La fine del mondo (rilettura di un'immagine di viaggio)

Immagine di Marika Bertoni


Ha fatto un sogno: le toglievano la lingua. Non quella rosea, nella bocca asciutta. Le toglievano la lingua dalla testa. Rimanevano solo concetti. Nessuna forma possibile. Suoni come latrati, come cigolii. Simboli come macchie, come pozzanghere. E il concetto pulsava e feriva nella testa, voleva uscire senza poterlo fare. E il concetto bucava, senza mai poter uscire. “Ma Dio, Dio mi capisce?” pensava la vecchia nonna nel grande letto sul tetto, all’ombra dell’ulivo secco. Occhi sbarrati, pelle sudata. Il sonnellino pomeridiano le ha portato un incubo. Scesa in casa ha attraversato il corridoio, si è lavata alla fonte e nella stanza della preghiera ha parlato con Dio.
I guerriglieri lì sulle montagne proteggono una lingua, una cultura, una famiglia. Lottano come una vita fa perchè non sanno in quale altro modo possono lottare. Sciarpa stretta sulla testa, sulla faccia e sul collo, pantaloni che cadono un po’, scarponi pesanti, armi inadeguate, ma pur sempre armi. I guerriglieri qui non sono cattivi, sono figli, fratelli, mariti delle figlie e quindi anch’essi figli, sono donne innamorate, sono vecchi intestarditi, sono chi non ha alcuna intenzione di cancellare la propria identità. I guerriglieri sono tanti, un tot per famiglia, tra le famiglie che possono, che hanno cuore. I guerriglieri sono famiglia dei martiri, i guerriglieri sono i futuri martiri forse. I bambini quindi giocano ai guerriglieri, senza cattiveria, senza preconcetti. I bambini del kurdistan forse sanno già tutto e ascoltano silenziosi nei letti sui tetti i discorsi dei grandi, le parole che sfuggono dalle fessure delle porte, dai buchi dei proiettili nei vetri. I bambini assorbono senza giudizio, sono quello che sono accettano quello che hanno. Il loro altrove è dentro. Zara, pollice alla bocca e sguardo distante guarda fuori, pensa. Zara mi ha mostrato i suoi disegni, di sera. Li ha fatti con Gira la moda. Li guardo uno a uno, mi concentro sui dettagli, sui colori, mi fingo sorpresa. No. Sono sorpresa. Anni 13, sandali bianchi laccati sopra i calzini marroni. Parla tre lingue. Chissà in che lingua pensa. Di certo guarda fuori e pensa che deve andare a scuola anche il sabato, finché può soprattutto. Avrà difficoltà ad uscire dalla Turchia, avrà difficoltà a realizzarsi in una Turchia che danneggia i curdi, che ostacola le donne, che inonda i villaggi. Mi ha dato tra le mani un album di disegni da guardare, si tratta di figure femminili vestite con abiti da lei disegnati o incollati, il suo portfolio. Di colpo ho pensato: nessuna chance di essere stilista. Nessuna. Sfogliavo pagina per pagina il malandato quaderno, guardavo con una commozione forse immotivata forse del tutto fisiologica quella bambina-ragazza. Quella futura madre di famiglia, se tutto va bene. A volte tutto va bene. Alla madre di Zara, koçer illuminata tutto va bene. Mai tanta serenità e allegria ho visto in una persona. Mai tanto calore ho provato al primo sguardo. Con l’ipad nelle orecchie, libri nelle valigie e amati nel mondo ho invidiato la gioia della giovane già madre che curva lavava i piatti sul pavimento. Ho invidiato sorpresa il suo viso disteso, il suo credere in Dio, la sua fiducia nel suo uomo. È la donna più felice del mondo, ho pensato, e ho bevuto un altro sorso di tè.

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