giovedì 9 settembre 2021

Eravamo in una casa nel bel mezzo del niente, quasi fosse sull'albero.

 

Eravamo in una casa nel bel mezzo del niente, quasi fosse sull'albero. Avevamo bevuto, forse avevamo bevuto tanto. La musica ci riempiva il corpo, e la testa. Ballavamo scalzi sul tappeto di stuoia, ballavamo senza risparmiarci. Tu sceglievi la musica e io ballavo e tu ballavi, e D un po' ci guardava un po' ancheggiava timido. Parlavate di musica, io tenevo il calice in mano e roteavo quasi avessi veli colorati addosso. Poi s'è fatto tardi e ci siamo salutati con un abbraccio stretto, con un grazie grande quanto il cuore. Poi in macchina ho visto che non vedevo, avevo lasciato gli occhiali lì, nel dionisiaco. Così siamo tornati, c'era la luce gialla nel cortile della casa, come una lanterna. Tu eri seduto su un'altalena, o una panchina. Mi hai accolta, dato gli occhiali, salutata con una tristezza nuova negli occhi. Era appena morta la mamma della tua compagna, ma non me l'hai detto in quella sera lì.


In macchina ho dormito, a casa ho lavato i denti, bevuto tutta l'acqua che potevo, poi ho dormito ancora. La sveglia col mal di testa, le valigie, la partenza. Poi al mare, man mano che riprendevo conoscenza, mano a mano che realizzavo il buffo male alla pianta dei piedi, ti ho scritto e me l'hai detto. E ho capito quel velo cupo negli occhi, nel saluto.


Quel velo cupo ce l'ho anch'io in questi giorni, nei giorni scorsi, in certi momenti di lucidità. È morto il papà di D. E mi capita, adesso in questi giorni di lavoro e di stanchezza, di ascoltare Antony, che abbiamo ascoltato e cantato a squarciagola, e di tornare lì, e sovrapporre quel tuo velo cupo al mio, e cantar via tutto il dolore, con tutta la voce. Anche se non arriva così in alto e così intonata. Cantar via la morte e le nostalgie, le brutture. E riempirmi i polmoni dell'aria della notte, e di questa vita certamente storta.

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