giovedì 8 maggio 2008

Mr. Bartolozzi


Con le metafore è meglio non scherzare.

Da una sola metafora può nascere l’amore.

Milan Kundera

Ho capito di amarlo almeno mille volte negli anni in cui siamo stati insieme, ma ce n’è una che più di tutte ricordo come simbolica e densa di significato. Stavamo insieme già da due anni, quell’inverno abitavamo in una soffitta, eravamo ospiti di un amico. Nevicava tanto, era freddo, dormivamo su un materasso nel soggiorno, il pavimento era in legno e sdraiati potevamo vedere sopra di noi una finestra incastonata al tetto, la neve sembrava una pesante tenda bianca e se si cercava di pulirla aprendola nevicava anche sul letto. La sera quella finestra era così bianca da sembrare che la luna ci spiasse. Con questa piccola premessa contestualizzatrice sembra che tutto profumasse di rose e avesse i colori dei fiori, in verità era già un rapporto in crisi: continue liti per nulla di grave, nessuna intimità forse per pigrizia, mancanza di desiderio o privacy; pochissime dolcezze a rinforzare sciupati sentimenti. Gli unici momenti in cui ci divertivamo e ci sentivamo in contatto erano le lunghe ore di gioco al computer, uno contro l’altro, nella stessa stanza, bevendo gin tonic e amministrando legioni di guerriglieri pronti a sfidarsi. Essere consapevole di come il nostro grande amore si fosse trasformato in una pochezza abituale e mediocre mi uccideva. Quando ogni sera si addormentava lo guardavo, era tiepido. Sentivo le lacrime salire veloci agli occhi quando pensavo che il nostro era un rapporto in crisi e lui nemmeno riusciva a comprenderlo, sentivo un grande vuoto all’idea di abbandonarlo, allo stesso tempo mi sembrava inevitabile. Un mattino andò a comprare il pane; in fondo alla via, all’incrocio, c’era un piccolo chiosco con panini perfetti, morbidi e croccanti, stellati di sesamo o semi di papavero, sempre tiepidi. Io lo aspettavo seduta sul letto, in quel momento suonò una canzone, era di Kate Bush, il titolo non lo ricordo, ma era il nome di un uomo, forse Mr Bartolacci o Mr Bertoluzzi; era una canzone con una melodia tristissima, non capivo del tutto le parole, ma parlava di vestiti e lavatrici. Di colpo, ascoltandola, nella mia mente si creò un’immagine, lui non sarebbe tornato dal piccolo chiosco di panettieri ed io sarei rimasta sola, nel soggiorno, circondata dalle sue maglie vuote di sostanza, ma ancora feconde del suo odore, le avrei raccolte una ad una piangendo, le avrei odorate, le avrei messe in lavatrice e poi non avrei avuto il coraggio di lavarle, per non togliere il suo ricordo dai tessuti. Questa immagine mi era così straziante che iniziai a piangere, non riuscivo più a smettere, la vita senza di lui mi era negata, il suo odore mi avrebbe ricordato per sempre infiniti momenti, e ogni maglietta avrebbe tenuto vivi nella mia testa i suoi colori. Aprii la finestra e una brezza freddissima mi rinsavì per un istante, la neve si sciolse veloce sui miei capelli e si mischiò al calore delle lacrime. Mi rendevo conto che era un pensiero insensato, un’immagine forse creata dal subconscio per desistere dal proposito di chiudere quella storia purtroppo troppo insoddisfacente, eppure, l’idea di me china e in lacrime a spiare un oblò immobile di odori mi rendeva impossibile la razionalità. Il tempo passava e lui non tornava dal chiosco del pane, un misto di presentimento e follia, di preoccupazione e rabbia, impostai il repeat e continuai a piangere e ascoltare, a percepire la sua mancanza come inaccettabile, il suo odore come presenza insufficiente e necessaria. Mi tramortivo emotivamente ogni volta che il ritornello cantava: “washing machine, washing machine, washing machine”. La porta si aprì e lui mi sorprese nel mezzo di una tristezza davvero complessa da descrivere, forse impossibile perché dettata da un’immagine, da una metafora, da un’idea stramba e insopportabile. Si avvicinò veloce, mi abbracciò fortissimo, come se fossi una bambina che si è persa in un grande centro commerciale e non sa più che fare perché ogni persona sembra un gigante mostruoso, perché le gambe dei passanti sono ormai alberi che con i loro rami graffiano il viso, perché le scale mobili trascinano nelle segrete di un castello stregato e buio, e freddo. Mi abbracciò come intuendo che ero vittima della mia debolezza emotiva, come sapendo che la solitudine può uccidermi. Sentii la sua neve sciogliersi e mischiarsi alla mia, le sue scarpe avevano fatto una piccola pozzanghera sul pavimento in legno, mi ripresi, lo guardai e gli dissi solo: “non lasciarmi più da sola”, mi baciò la fronte e cambiò canzone, mi distese e si adagiò sul mio corpo. Il suo peso mi protesse, la sua carne era appoggiata alla mia e la sentivo premere le viscere, schiacciare i polmoni, ora ero al sicuro. Da una sola metafora può nascere l’amore sostiene Milan Kundera, grazie a una metafora il mio amore è sopravvissuto fino ad oggi.

venerdì 2 maggio 2008

La Cravatta Arancione

Non le era ma piaciuto andare dal dentista, fin da quando era bambina. Sdraiata sulla poltroncina reclinabile si sentiva a disagio, diventata ansiosa, il sangue le fluiva alla testa, il bavaglino le faceva mancare il respiro, il rumore del trapano la faceva svenire, l’anestesia amara le procurava dolorose emicranie, il sapore metallico dei ferri le faceva più male delle stesse carie, il fatto poi che qualcuno vedesse le sue imperfezioni orali e avesse l’ingrato compito di porvi rimedio la faceva vergognare. Andava una volta all’anno, solo quando la situazione nella bocca era insopportabile, solo quando ormai faticava a masticare, solo quando anche un sorso d’acqua poteva farla saltare dal dolore. Così chiamava la segretaria di turno e fissava un appuntamento, si recava nello studio, leggeva distratta le riviste auto-convincendosi che era dal parrucchiere, e poi entrava nella stanza, le gambe tremavano ogni passo, come se ogni centimetro l’odore che la circondava le penetrasse nei vestiti fino a corroderle le membra. Il dentista era lo stesso da almeno ventanni, vecchio, un po’ antipatico, silenzioso, non gli aveva mai visto le mani perché aveva i sempre guanti, una volta però lo aveva morso, lei aveva forse ventisei anni, doveva curarsi una carie da urlo, lui le fece così male che lei lo morse. A ricordarlo ora le viene il sorriso sulle labbra, ma in quel momento lui si era notevolmente arrabbiato, e, se non fosse stato il dentista di tutta la famiglia l’avrebbe cacciata, ma perdere cinque persone per un morso deve essere sembrato eccessivo anche al dott. Franchini. Puntualmente, allo scadere dei dodici mesi di libertà il premolare inferiore era diventato insopportabile, con la punta della lingua riusciva a sentire il buco che si era creato all’interno del dente. Si chiese se ci fossero dei timer piazzati in ogni otturazione, una sorta di piccole esplosioni impercettibili pronte a scatenare la nuova visita. Chiamò dall’ufficio il solito numero, lo stesso che nel cellulare era memorizzato come “dentista sadista” (questa buffa rima e il ricordo del morso erano le sue piccole rivincite!) ma questa volta rispose la voce di un uomo. Al contrario del sig. Franchini, che era sempre lo stesso, le sue segretarie cambiavano continuamente, mai vista la stessa per due volte a pensarci bene, l’ultima era una grassona piena di gioielli, sulla cinquantina, voce stridula; quella prima era una studentessa, dinamica, gentile, ma un po’ impreparata e confusa. Questa volta, composto il numero e atteso almeno una decina di squilli aveva risposto un uomo, voce profonda, assonnata. Rimase per qualche istante interdetta, non era la voce diretta del nemico (nonostante parlasse poco aveva ben chiara nelle orecchie la voce del dentista!), questa le era del tutto sconosciuta.

Si scusò per gli istanti di silenzio e disse: “Mi scusi se la disturbo, sto parlando con lo studio dentistico Franchini?” un lieve schiarimento di voce dall’altra parte e la risposta: “No, non che abbia sbagliato numero, è che, il dott. Franchini è morto due mesi fa, lo studio è chiuso e momentaneamente ci abito io ”. Di colpo si immaginò quest’uomo, sicuramente bruno, dormire sulle poltroncine, bere il caffé della macchinetta in sala d’aspetto a colazione, indossare il camice anziché la vestaglia appena sveglio, dissetarsi da quei bicchierini di plastica… le parve una prova di coraggio vivere in uno studio dentistico, circondati da quell’odore asettico, dalla sterilità di ogni cosa. “Le faccio le più sentite condoglianze, non ne avevo idea, la prego davvero di scusarmi” disse interrompendo la serie di immagini che le imbavagliava la buona educazione; “Non si preoccupi, non eravamo intimi, non ci vedevamo da molto tempo, ad ogni modo io rimarrò qui ancora per qualche giorno, devo decidere cosa fare dello studio. Visto che nemmeno voi eravate intimi, almeno lo immagino visto che non sapeva della sua morte, abbiamo già una cosa in comune, cosa ne dice di vederci per cena? So che le sembrerò invadente e presuntuoso, non ci conosciamo e lei potrebbe essere fidanzata, o addirittura sposata, magari è giovanissima o al contrario vecchia… non mi importa, è la prima persona che telefona, qui non conosco nessuno, vorrei solo fare due chiacchiere con qualcuno… le va?” Interdetta per la seconda volta nel giro di tre minuti, che fare, accettare? Rifiutare? Riagganciare? Insultare? Poteva essere pericoloso, in fondo è un perfetto sconosciuto, non so nemmeno il suo nome… d’altro canto. non ho progetti per stasera, potrebbe arrese curioso, una sorta di appuntamento al buio, magari in un luogo pubblico, di certo non nello studio dentistico…

“Mi scusi, come ha detto che si chiama?”

“Ah, è vero, nemmeno o so il suo nome, io sono Amedeo, e lei?”

“Io sono Amina”

“Bene, un’altra cosa in comune, i nostri nomi iniziano con la A, cosa ne dice allora? Facciamo alle otto davanti alla stazione dei treni? Mi scusi sa, ma è l’unico posto della città che conosco”,

“Va bene, alle otto in stazione, ma come la riconoscerò?”

“Vero! Non ci avevo pensato, guardi, io sono abbastanza alto, capelli scuri, indosserò una cravatta arancio, si, mi potrà riconoscere dalla cravatta”

“Ok, allora a dopo, arrivederci Amedeo” .

Riagganciato il telefono si rese conto di aver accettato un appuntamento con un uomo, un qualche parente del suo ex-dentista deceduto da due mesi, che avrebbe indossato una cravatta arancio. Si scordò completamente dei suoi problemi al premolare inferiore e fantasticò tutto il giorno sullo sconosciuto. Dalla telefonata le era parso ottimista, disinteressato, un po’ eccessivo, ma senza dubbio curioso. Finito il lavoro corse a casa, si cambiò e, accesa una sigaretta sotto la leggera pioggia, si avviò verso la stazione. Le gocce cadevano irregolari, le piogge estive le erano sempre piaciute, da quando era piccola e le guardava filtrate dai lampioni, e le sembravano cascate di brillanti luccicosi, saltava nelle pozzanghere e tremava il riflesso sporco che le proponevano. Davanti alla stazione risaltava la cravatta arancione, si avvicinò e disse: “Amedeo?” lui sorrise, “al suo servizio” rispose. Non andarono a cena quella sera, camminarono lenti sotto la pioggia, e chiacchierarono silenziosi delle loro vite, e di come la solitudine a volte faccia invecchiare prematuramente, saltarono tra le pozzanghere (da quanto non lo faceva!) e quando era ormai tardi lei lo riaccompagnò davanti allo studio dentistico. Si abbracciarono come amici e si ringraziarono per la serata liberatoria e senza doppi sensi. Amina tornò a casa con il tepore nel cuore, che bella serata, che semplice serata! Si addormentò ripensando a se stessa, prendendo di nuovo contatto con una parte nascosta di lei che gli avvenimenti le avevano fatto trascurare, la fiducia, la bambina, piccole gioie nascoste dietro alla parola libertà. “Si!” Si disse prima di andare a dormire, “è il momento di ritrovare la bellezza nei profumi e di vedere brillantini anziché semplici gocce di pioggia”. Il mattino seguente si risvegliò presto, andò al lavoro come ogni giorno e verso l’una telefonò allo studio dentistico per salutare Amedeo, le aveva detto infatti che sarebbe ripartito al più presto. Il telefono squillò appena una volta, una voce femminile e sensuale rispose: “Studio dentistico del dott. Franchini, come posso aiutarla?” di nuovo interdetta, qualche istante per riprendersi e disse: “Ma mi scusi, non è morto il dott. Franchini?” la voce con ironia rispose: “Come no! Ho più probabilità di essere investita da un asteroide mentre faccio la spesa che il matusalemme in questione di morire”, quasi sussurrando si scusò per il disturbo e prese un appuntamento per la settimana successiva. Ripensò per il resto del pomeriggio a quanto era accaduto nelle ultime ventiquattrore, non sapeva darsi una spiegazione plausibile e pensò di aver sognato. Finito il lavoro andò a casa e nella posta trovò una busta gialla, non aveva mittente né destinatario. Accese una sigaretta e si preparò un gin tonic, aprì la busta senza rovinarla, dentro c’era la cravatta arancione tatuata in lunghezza con delle scritte a pennarello nero:

“Amina, io parto tra poco, continua a saltare tra le pozzanghere e non smettere di cercarti, è stata una gioia conoscerti!

Ame

PS: immagino che il dott. Franchini sia vivo, ieri hai sbagliato numero, ti prego di scusarmi, non volevo mentirti, ho solo seguito il mio istinto. A volte abbiamo bisogno di fluirci come pioggia per riscoprirci vivi.”.

Con il pollice e l’anulare schiacciò la sigaretta nel posacenere, abbandonò il gin tonic quasi pieno sul tavolo e uscì. Questa sera non pioveva, il cielo però le sorrideva anch’esso pieno, come la pioggia, di brillantini, anche lei sorrise e riappesa la borsa alla spalla continuò a camminare in mezzo alla strada.

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