mercoledì 23 dicembre 2015

Gli arrogantelli (e mi rammarico di non sapere il francese, il titolo sarebbe stato di certo più poetico)

Il periodo di Natale al locale è il periodo peggiore. La gente è brutta e tutta insieme a fingere di festeggiare fa pena. Le cene aziendali sono un'accozzaglia di persone senza niente in comune, se non le facce tese e delle pigne nel culo. Ieri sera cinque ragazzi mi hanno fatta arrabbiare e spero di incontrarli per strada in questi giorni, per poterli insultare. L'arroganza di certe persone è incredibile, ma ci sono abbastanza abituata e me ne frego, di solito è comunque accompagnata dall'educazione e quindi mi basta prendere le distanze.
Quando però l'arroganza sfocia nel maleducato che si deve fare?
Le cose sono andate così: locale pienissimo, entrano cinque ragazzi tra i venticinque e i trent'anni, vestiti bene e con delle facce da culo, quelle facce mezze angelicate, finte ingenue, da schiaffi per capirci. Si mettono al banco e chiedono sei, sette volte un tavolo. C'è da aspettare e alla quinta volta vorrei dirgli che possono anche andarsene se pesa loro così tanto star lì. Si libera un pezzo di tavolo ma aspettano che si liberi tutto, perché non penseremo mica che possano stringersi in quello spazietto lì?! Rimango spiazzata, e il rimanere spiazzata (insieme a un epidermico fastidio) è il sentimento che provo per tutta la sera, perché questi cinque mi sembrano brutte caricature dei loro genitori cagoni. La serata prosegue pesante e loro insopportabili fino alla fine, quando chiedono una decina di volte il giro della casa. Gli arriva il giro della casa mentre pagano il conto facendo i simpatici e chiedendo se volevo contribuire con una quota. Ho detto che non ne vedevo il motivo visto che non erano poi stati di grande compagnia. Rovesciano un amaro mentre sto sparecchiando i tavoli, sono gli ultimi nel locale e è tempo che vadano, prendo uno strofinaccio e vado per pulire (di sicuro con la faccia scocciata) il biondino con barbetta (che spero di incontrare per, non so, avere un confronto o una rivincita quando siamo pari) mi dice lascia faccio io, io dico non preoccuparti, lui capisce non puoi e mi dice: non posso? ma lavarmi le mani posso? io gli dico: ho detto non preoccuparti, n o n  p r e o c c u p a r t i, e non che non puoi, con le tue mani puoi fare quello che vuoi il bagno è dietro la libreria a destra. E da qui inizia il degenro, vengo apostrofata e presa in giro: "l'hai fatta arrabbbiare", "le serve una camomilla" e via così. Faccio un respiro profondo e cambio stanza, poco dopo se ne vanno.
Ecco, sembra una cazzata, ma io non capisco come si faccia ad avere così poco rispetto del lavoro altrui e come ci si permetta di prendere in giro chi è in una posizione in cui non si può difendere del tutto. Sono sul posto di lavoro e sto lavorando e simpatico o antipatico che sia chi ho davanti devo essere e sono gentile e professionale. Non mi sono difesa alle prese in giro perché non mi sarebbe venuta una battuta o una frase che ghiacchiasse l'atmosfera (stamattina ne ho centomila), in quel momento avrei usato dei semplici ignobili insulti, o addirittura le mani, nella mia fantasia splatter mettevo una mano sulla nuca del biondino e gli fracassavo la testa sul bancone di legno. Ma non posso, né dare del coglione frustrato così pieno si sé da farmi quasi pena perché per diventare così chissà che infanzia ha avuto, né fracassare la testa sul bancone.
Quindi mi rimane l'amarezza, e la promessa a me stessa che l'anno prossimo nel periodo di Natale non lavoro.

mercoledì 16 dicembre 2015

buonumore in aeroporto!

Stamattina son partita per tornare, assonnata e frastornata dal mattino e attutita da quel caldo degli edifici grandi quando fuori è freddo ho passato i check in, e tutti erano gioiosi, mi pareva addirittura che stessero facendo un musical. E così mi son lasciata trasportare dal buonumore, anche se una bottiglietta d'acqua costava più di tre euro.

 E poi ho cambiato autobus e treni e ho letto fumetti, aspettato trasporti per ore, sempre con la sonnolenza che pian piano si faceva stanchezza, e una sorta di nostalgia, per le cose non fatte il giorno prima.


marco polo, la via della seta, Marco Tabilio, becco giallo

giovedì 19 novembre 2015

un mese o poco più di scartoffie

“Non ce la faccio”.
E all'altezza del diaframma qualcosa è compresso, la bocca è serrata, il silenzio inonda la stanza rallenta i minuti. È quasi buffo, di sicuro ridicolo. Una persona adulta che deve dire qualcosa a un'altra persona adulta. Qualcosa di civile in modo civile, una difficoltà, una serie di difficoltà, una fila di parole e preposizioni e verbi e pause provate e riprovate e pensate e ripensate in dialoghi fittizi.
Nella testa le parole ci sono tutte, le ho dette e ridette e ripetute milioni di volte, a ogni corsa o passeggiata, quasi ogni giorno, per quasi due anni. Poi mi sono decisa ad aprire la scatoletta dei problemi. L'ho fatto con una lettera, ho solo scritto una serie di temi di cui parlare inerenti a cose che non mi fanno stare bene. E la lettera, una volta ricevuta, ha aperto la scatoletta. E una volta aperta era ora di parlare. La voce, non qualcosa di scritto, non nella mia testa, voce, dialogo. Uno dice e l'altro risponde e insieme si trova una soluzione, si dibatte, si capisce meglio l'altro. Ma non è uscito niente di quello che doveva uscire. La bocca serrata, l'attesa inappagata, i minuti rallentati, l'imbarazzo, qualcosa lì all'altezza del diaframma che pulsa e vuole esplodere o implodere, e lo sguardo verso le cartacce sotto la scrivania, verso le mani che si torturano l'un l'altra, e nella testa le cose da dire, tutto lì in fila, pronto, preparato con discussioni con gli amici, con interrogazioni interiori per sviscerare le cose, e niente. Solo a un certo punto, dopo qualche minuto o mese silenziosissimo la bocca si apre, le spalle s'abbassano, lo sguardo si alza. 
La bocca si piega, un sorriso rassegnato, e dice: “Non ce la faccio”.
Il corpo vince sulla testa in qualche modo. L'affetto o la paura (di ferire? Di ferirsi? Di frantumare-rsi? Di abbandonare? Più subdolamente di distruggere l'idea che si crede l'altro si sia fatto di noi?) l' affetto o la paura, pensavo, ammutoliscono la ragione.
La scatoletta rimane aperta, lì sul tavolo. 
Dopo un mese e più ci sono scivolate sopra un sacco di scartoffie.

mercoledì 18 novembre 2015

sogno, in breve io e il leone

Vendevo libri in un'aiuola. Erano tutti appoggianti per benino per terra, in questa aiuola che era anche una rotonda. Non riuscivo a venderli, ma ero lì per quello. A un certo punto ho accettato il fatto che non li avrei venduti e li ho messi via, con l'intento di tornare a casa. Dietro di me c'era un edificio religioso, ho pensato di farmi una doccia per rinfrescarmi, prima di andar via, lì nell'atrio dell'edificio c'erano dei bagni, e anche se c'era del via vai me ne fregavo. Stavo togliendomi il vestito con difficoltà nel farlo uscire dalla testa quando ho visto un serpente, ho gridato, anche se era piccolino e non ero spaventatissima, poi però, di colpo, il serpente ha agguantato la testa di una lucertola e di colpo si è mosso verso di me. Ho gridato ancora, spaventata, lui è uscito dalla porta ed è andato verso l'aiuola, finendo di mangiare la sua lucertola sul marciapiede. Proprio in quell'istante da dietro un angolo è spuntato un leone, e difronte a lui una scimmia, e il leone si è messo in bocca tutta la testa della scimmia. Ho di nuovo gridato, impaurita e disgustata, ci giocava, la metteva tutta in bocca e poi la faceva uscire dalla bocca, questa scimmietta (tipo quella di Ali, per capirci). Poi mi ha visto e veloce si è avvicinato alla porta dell'edificio, che era di vetro, ma di quel vetro mezzo plastica, finetto, e che aveva la struttura delle porte dei saloon quelle che si aprono da tutte e due le parti. Il leone veniva verso di me, io dovevo tenere chiusa la porta senza spingere né tirare. Il leone ha gettato di lato il corpo della scimmietta senza vita e di è piazzato lì, davanti a me che tremavo e tenevo le porte in qualche modo. Lì, grande e potente, ci siamo guardati negli occhi, i suoi erano piccoli e bellissimi.

martedì 29 settembre 2015

Strangosar

L'ho sentita dopo tanto tempo oggi questa parola. Camminavo, e vicino a una vecchia lavanderia chiusa una vecchia signora parlava sul portone con un'altra signora, appena più giovane. Mentre passavo la più vecchia ha detto: Strangoso anca mi den posto come quel lì. O questo era il senso e mi son dimenticata le parole giuste, a parte quella parola lì, la chiave: strangosar.
Che parola da appuntarsi. Non trovo un corrispettivo, vuol dire: far gola, è un volere che ha dentro un po' d'invidia, e, ma forse qui azzardo, ha dentro la possibilità e il vietarsi allo stesso tempo.
Mi pare sia una parola che contiene la spinta verso e il freno a. Un freno morale prima che materiale, una possibilità che non ci si concede, un limite che si dà a se stessi, il nome che si può dare a un vizio che non ci si permette, a un'occasione a cui non ci si abbandona deliberatamente, perché c'è qualcosa, in quella occasione, in quel volere, in quel vizio, qualcosa che non sta bene, di cui è giusto privarsi.
Una tensione non allentata, un verbo che nomina quell'attimo in cui il cervello domina sulla pancia senza dirle le bugie, senza far finta di niente, una parola che prende atto del desiderio e lo imbalsama così, come desiderio.

martedì 8 settembre 2015

dall'Internazionale 1117, L.Penny, L’intolleranza è il vero pericolo per l’Europa

... forse dovremmo adottare un atteggiamento diverso. Quelli di noi che hanno la fortuna di essere
cittadini europei dovrebbero fare un bel respiro e prendere coscienza del fatto che forse, dico forse, in questo caso i nostri sentimenti non sono la cosa più importante.
Che forse, se migliaia di persone sono così disperate da rischiare la morte per raggiungere le nostre coste,
il nostro disagio per il fatto che vengano a vivere nel nostro quartiere non dovrebbe essere il fattore decisivo
nelle scelte politiche.
Da questo punto di vista la stampa di sinistra non ha meno colpe. Teoricamente, alcuni mezzi d’informazione
più compassionevoli si prendono la briga di ricordarci che i migranti in realtà “arricchiscono” la nostra cultura e costituiscono un vantaggio economico.
Il fatto che questo sia assolutamente vero non lo rende un argomento meno ofensivo.
Se i migranti vengono in occidente da paesi dilaniati dalla guerra come la Siria, l’Eritrea e l’Afghanistan
o da qualsiasi altro posto che in secoli di sfruttamento imperialistico e post-imperialistico è stato colonizzato,
occupato e poi bombardato e derubato delle sue risorse, non lo fanno per arricchire la vita degli occidentali
e ravvivare con qualche spezia la nostra insipida cucina. Vengono qui perché temono per la loro vita. Vengono a chiedere asilo, sicurezza e opportunità, e hanno tutto il diritto di farlo, se non per legge in base ai princìpi di giustizia e umanità.
La più grande minaccia al nostro “modo di vivere” non è l’immigrazione. È vero che l’immigrazione può contribuire a cambiare una società, anche se molto meno, per esempio, della tecnologia, dell’austerità economica, della disuguaglianza, della globalizzazione o del cambiamento climatico. Ma la più grande minaccia al nostro “modo di vivere”, se mai esiste qualcosa di simile in questo continente così vasto e vario, non è che un giorno io o voi potremmo trovarci su un autobus e sentir parlare pashtun o tigrino. Il vero pericolo è che iniremo per lasciarci convincere che i migranti, tutti quelli che vengono dai paesi non europei, sono meno umani di noi, pensano e sentono di meno, contano di meno.
Noi europei siamo abbastanza capaci di starcene tranquillamente immersi nell’acqua bollente dell’intolleranza ino a quando non avrà fatto evaporare tutta la compassione che ci è rimasta. Questa è la vera minaccia al nostro “modo di vivere”.

martedì 28 luglio 2015

5.11 - La delusione

Ho guardato 81 puntate di Queer as a folk, ottantuno. Durano una media di 56 minuti a puntata. Un totale di ore che non so neanche calcolare senza mettermi a fare i calcoli dei sessanta minuti e così via (almeno 75 ore comunque). 
Ottantuno puntate. 
E a due puntate dalle fine della quinta serie decido che non vedrò le ultime due. Sono arrabbiatissima. Mi sento presa in giro, truffata.
Mi sono molto affezionata a Brian, e anche identificata con lui, con la coerenza di cui mi pareva capace, mi è piaciuto fin dall'inizio il suo portare avanti un'idea di amore diverso, non convenzionale, imperfetto, ma quantomeno ritagliato su di sé e sui propri bisogni, una questione di onestà. L'ho visto ammorbidirsi, indurirsi, mi pare persino di conoscere a memoria il suo corpo visto che fa un sacco di sesso in ogni puntata, e adesso lo fanno sposarsi. Alla terzultima puntata chiede di sposarlo a Justin, gli compra pure una bella casetta fuori città. E glielo chiede perché ha paura di perderlo. Perché Justin di colpo vuole una famiglia. Ma dio mio! Ma davvero così di colpo si snatura un personaggio e si dà il contentino alle casalinghe che vogliono il romantico dappertutto? Soprattutto quando viene redento il cattivo! Non ci posso credere.
Perdo la speranza, e mi vergogno e sorprendo che nessuno osi proporre una narrazione che provi a superare le convenzioni. Mi dispiace moltissimo che gran parte del mondo (omosessuali in primis) non osi fare una battaglia più grande, che veda trionfare l'amore in forme originali, personali, innovative, non sempre e comunque legate all'ideale di famiglia.
Mi sento tagliata fuori dalla narrazione, chi non vuole una famiglia non ha spazio nelle narrazioni, se non come figura caricaturale e fredda. È spiacevole non potersi identificare con nessuno, è spiacevole che uomini e donne sulla trentina non possano essere rappresentati come persone con un'identità forte e onesta anche senza che facciano o desiderino fare una famiglia, è disdicevole che chi ha sui trentanni e non vuole (con tanto di motivazioni sensate, di progetti di vita e desideri e impegno) fare una famiglia sia ritratto come un incapace, una persona poco seria o non sia per nulla ritratto.
Ecco, non guarderò le ultime due puntate, e anche se alla fine rinsavisse e non si sposasse non m'importa. Resterò con la mia delusione.

venerdì 24 luglio 2015

Sotto questo sole

Sotto questo sole mi sento sola.
Rientro senza pace, rientro troppa pace.
Tempo che si perde, che muore di caldo mentre aspetto la sera.
Leggo Barthes, lo leggo e rileggo, sempre lo stesso libro.
E sempre mi fa un effetto pazzesco. Di chi ha intimamente capito.



venerdì 17 luglio 2015

Ultima notte

Sera. Sfrecciato sulla bici nella notte. Salutato le persone care. La città l'ho salutata ieri, con la corsa. E adesso è tardi, le valigie non sono pronte. La grande m świeci come ogni sera davanti alla finestra. Socchiudo la porta, mi accingo a dormire, soeto in sogni polacchi, almeno un altro paio di sere. E il cuore è pieno di saluti, di persone più che di luoghi, e mi pare così strano, così inusuale.
che bellezza tutto questo cambiare.


venerdì 10 luglio 2015

Lista dei pensierini

Dal formicaio mezzo vuoto la mattina parto per la corsa. Corro lungo il fiume per più. Se ho tempo esploro i dintorni, c'è un  grande parco.
Lungo il fiume c'è molta immondizia.
Nella città s'incontra il disagio, nei giorni festivi è maggiore.
Stasera ho visto dei corti di padre e figlio Łoziński. Mi sono piaciuti da matti.
Sto a lezione tutto il giorno. Le lezioni sono difficili, più entro nella lingua più diffido di come parlo. Poi torno all'italiano, e diffido anche di quello. Allora mi sento più tranquilla, paradossalmente.
Scopro parole che aprono nuovi modi di intendere il mondo, a volte sono parole inutili, anche quelle volte però mi chiedo come si fa, a vivere senza.
La stanza alle quattro e cinquanta circa del mattino si riempie di luce. Ogni mattino mi sveglio e guardo l'ora. Non sbaglio mai di più di cinque minuti. Torno a dormire senza troppa convinzione.

Bottino

Gommose alla rosa selvatica e gommose cuoricino :-)


mercoledì 20 maggio 2015

vivisezione

un pezzettino alla volta.
un persona diversa per ogni pezzettino.
per capire qualcosa sull'insieme.
persone mute, parlano le carte, le lastre, i test, i controlli.
e l'umano si perde quasi di vista se non mi ci aggrappo con tutta me stessa.

un pezzettino alla volta, a nessuno pare interessare il disegno d'insieme, che è corpo e testa e abitudini e storia e cibo e fatiche e avi persino.

un pezzettino alla volta per quella grande somma che non torna mai.

Blast - Larcenet

Il salone del libro mi ha lasciata con un bottino: Blast, un fumetto di Manuel Larcenet.
Avevo già letto il primo e il secondo volume (è composto da quattro in tutto), rimanendone molto colpita, al primo giro di stand al salone sono capitata a fandango/cocconino e l'ho visto lì, il terzo volume, nemmeno sapevo che fosse uscito, e in effetti era al Salone in anteprima. L'ho comprato subito e non ho osato aprirlo in fiera, perché mi pare uno di quei testi che si meritano tempo e concentrazione.
E il giorno dopo sono tornata allo stand, e ho comprato anche il volume uno e due, così belli.
E poi, rientrando in treno, ho preso l'uno e mi sono rimessa a leggerlo. E poi il giorno dopo ho preso il due, e il giorno dopo ho finalmente scartato il mio regalo. Perfetto.
Ieri nella corsa pensavo a come spiegarla questa storia così ricca di spunti e cose capite e accennate sull'uomo, pensavo a Polza, antieroe per cui il lettore si trova a tifare nonostante tutto, perché ha il coraggio di essere quello di cui noi, io quantomeno, ho paura di essere e per forza sono, perché parla di quel lato nero, di quel grande male, di quell'ombra che è parte della natura dell'uomo stesso.
Sempre correndo però ho pensato che non mi piace per niente la parola antieroe, incasella già, così come le recensioni. E questa non è una recensione, è solo dire senza trovare le parole per dirlo un vuoto che in qualche modo spaventa. Poesia.
Poesia sull'impossibilità di accettarsi, sul bosco, su come la perdita di alcune persone ponga una linea tra il prima e il dopo, sulla banalità delle regole che determinano le nostre azioni, sulla solitudine, sulla violenza.

Spero che esca tardi in Italia l'ultimo volume, così da dover riprendere in mano tutto, così che non finisca subito.

lunedì 20 aprile 2015

sul luogo dell'infanzia

Dopo vent'anni, oggi, sono tornata nel luogo dell'infanzia. Sul luogo dell'infanzia anzi, come il luogo del delitto, un luogo dove è accaduto qualcosa, un luogo dove non si entra forse, dove si sta.
Sul luogo dell'infanzia oggi ho passeggiato. Era diverso, più piccolo di come me lo ricordavo, oggi mi pareva un fazzoletto, nell'infanzia mi pareva in labirinto a più piani. Questa dimensione dell'altezza l'ha persa tutta, oggi è quasi piatto, vent'anni fa aveva un sopra, un sotto, un altro sopra.
Oggi ci sono andata con la mamma, nell'infanzia ci sono sempre andata coi nonni. Oggi per un attimo avrei voluto avere una telecamera, e raccontare col corpo come era. Dire come fa quell'artista del Balcani, di cui non ricordo il nome: è in un prato, in Germania o in Olanda (non mi ricordo nemmeno questo) e in questo prato ricorda com'era la sua casa, si muove a passi e a passi pare misurare i ricordi, le stanze, con le braccia disegna finti tavoli e credenze vuote. Ecco, lì, sul luogo dell'infanzia, oggi, avrei voluto disegnare gli spazi dell'infanzia: qui c'era la casetta, dietro c'erano le pergole con le more e sotto al pergolato un tavolino con due panchine e sul tavolino giocavamo a carte. Poi sotto c'era la stradina col pozzo, e una piccola cisterna vicino alla rete. E Fiori, tante dalie e gigli giapponesi, e dietro l'orto un'altra strada che lo circumnavigava, e sotto alla barchessa del nonno il pollaio, i pollai anzi. E vicino al pollaio mi sale il ricordo di un cane che non era il mio cane, ma che c'era per un po'. Diana, un cane che aveva paura di tutto. “ne ha viste tante” diceva il nonno. “Lo picchiavano con il bastone e adesso ha perfino paura quando spazzo” diceva la nonna. E poi avrei detto: qui c'erano tre scalini. E poi: qui una discesina. Potevo correre dieci giri attorno a tutto. Ma non avevo una telecamera per fortuna. Allora sul luogo dell'infanzia ho abbeverato il nuovo orto, con le nuove cipolle, i nuovi porri, le nuove zucchine e le nuove fragole. E ho passeggiato tra gli alberi da frutto, alcuni in fiori, i meli e i peri, e altri alberi che non sappiamo. E ho il bottino di una piantina di basilico, da mettere vicino al PC. E poi ho visto il bambù, un'isola di bambù, impertinente, innalzarsi nel mezzo, stratificarsi nella terra. Bambù bellissimo, verde e color sabbia, grosso e sottile, frondosissimo. E dall'altissimo di quelle cime arrivavano saluti del passato, di quando quel bambù era un rametto solo.

mercoledì 15 aprile 2015

L'ordine delle stelle (Zeiner)

Lavoro a un libro meraviglioso. Lungo, e di quel lungo che non pesa, vorrei quasi che non finisse mai.
Lavoro a un libro che avvolge, che si dispiega negli anni, nel passare delle stagioni. Lavoro a un libro al lavoro e poi nel tempo libero, la sera nel letto rileggo alcune parti. E ogni tanto mi fermo, per assorbire alcune cose, per non farmi soffocare dalle vite degli altri. Da un po' non mi capitava un libro così. Mi manca la razionalità per dire cosa mi piace e cosa no, cosa funziona e cosa no, so che vado avanti dieci, cento cinquecento pagine, vado avanti lenta e piano costruisco l'insieme, riannodo il mio passato con i fili del libro, rileggo certi paesaggi con luci nuove.
Poi mi lascio scivolare, anche se fuori c'è il sole e vorrei passeggiare, la testa è lì, e stavolta non vuole scappare.

mercoledì 8 aprile 2015

immagini di alberi

ieri sono svenuta, senza accorgermene. prima ero in un posto e poi ero in un altro posto.
pochi secondi, un altro mondo.
cadendo ho picchiato la testa l'occhio il mento la schiena, non so, oggi sono tutta acciaccata e ho mal di testa, che non so neanch'io se sia confusione o solo la botta.
però prima di tornare nella realtà e rendermi conto che ero per terra, che le amiche mi bagnavano il collo e la fronte, che mi ero vomitata addosso e così via, ero da un'altra parte. come un sogno, vedevo alberi e prati, vedevo le mie sorelle, chiacchieravamo forse, tanto che quando ho sentito chiamare Sara, Sara e mi sono destata, non so, è stato come certe mattine che ti svegli e sei in una stanza nuova, e il sogno ti sembrava vero e il primo attimo lucido non capisci bene dove sei, ecco così, però con gli occhi pieni di alberi, di verde.

e poi non ho dormito sola, ghiaccio sulla testa e un abbraccio di sorella così caldo e confortante.

mercoledì 18 marzo 2015

La vita è terribile e insieme meravigliosa (post notturno banalotto probabilmente)

Ecco, la vita è terribile e insieme meravigliosa. Stasera ce l'ho sulla pelle. Stasera mi si mostra aperta sul palmo della mano. Stasera decido come voglio abitare il mondo.

Stasera è stata una bella sera, una sera di grande lavoro, tanta gente, tanti bicchieri da lavare e servire, tanta pazienza e tovaglioli e caffè e dolci e.
Poi relax, la gente se ne va e restiamo noi, ci sediamo intorno a un tavolo, tutti amici, alcuni nuovi amici. Apriamo una bottiglia di bianco, odora di bosco, di animale, di selvaggio. Lo annusiamo, lo beviamo. Poi una di bollicina. La porta è aperta, fumiamo sigarette, chiacchieriamo della vita, delle cose della vita, dei progetti, del tempo. è bello, stiamo bene. decidiamo di bere l'ultima cosa.
In quel momento entra una persona, noi siamo chiusi, il locale è chiuso e le serrante tirate. Entra questo ragazzo con lo sguardo torvo, annebbiato. Dice: "non ho soldi, ma voglio una birra", C risponde: "adesso sara te ne dà una se vuole". Tempo che io mi avvicini al bar e lui inizia aggressivo a mettersi sulla difensiva, arrabbiato, scortese, minaccioso. Penso che piuttosto che dargli una birra me la bevo di resta (sara non beve birra, n.d.r.). Ascolto immobile, è portatore di una rabbia ingiusta che ci si riversa contro gratuitamente. Rovina la serata, l'atmosfera, il clima. A un certo punto esagera, XXX gli dà uno spintone e lo butta fuori.
Un paio di persone al tavolo di amici restano di sasso, criticano l'azione, c'erano altri modi. Eppure lui è stato così arrigante che l'avrei spinto io, giuro.
Poco dopo sradica il pilastro dei fiori, e urla per le strade, urla di rabbia perché non è stato dato un permesso di soggiorno, perché sono quindici anni che è qui ma, perché qui non c'è un cazzo, perché.
Finisco di pulire il bar, usciamo tutti insieme, a calmarlo, a sopirlo, a proteggerci l'un l'altro da tanta rabbia, da tanta fisicità.
Arriva la polizia, gli si spiega, poi facciamo per tornare a casa, alterati tutti.

In macchina penso all'accaduto e al libro che sto leggendo. Un libro tagliente e acuto che critica fortemente l'assimilazione con l'etichetta di integrazione.

Poi quando sono all'altezza di mcdonald c'è uno che fa l'autostop.

Ecco, io mi fermo sempre quando qualcuno fa l'autostop, perché anche paka lo faceva, e s'è fatto cento viaggi polonia-italia in autostop, e io ho pregato che ci fossero persone di buon cuore che lo prendevano, ogni volta ho pregato che non fosse al freddo su una strada senza nessuno che si fermava.
Penso tre secondi se prendere o no quest'uomo in macchina, perché sono le due di notte e sono da sola, e sì, anche perché sono una donna e non ho fatto nessun corso di autodifesa.
Alla fine di tutti i pensieri mi fermo e sporgendomi abbasso il finestrino.
Il ragazzo (l'uomo) mi dice: "grazie, se vuoi ti faccio vedere il documento", No no, rispondo, ma vado a Mori, il villaggio più vicino, a due passi. Lui dice: "meglio di niente". E in macchina, sarà che mi vuole rassicurare, non so, mi elenca le persone che conosce del mio villaggio, mi racconta la sua storia. Che è senza macchina perché si è separato, che lei , l'ex, non gli fa vedere i bambini, che fa il pasticcere e ha perso l'ultimo autobus per Riva, che ha provato a chiamare un taxi ma gli chiedeva cinquanta euro.
Allora lo accompagno a mori vecchio e faccio per tornare a casa. Lui va a Riva, attacca alle quattro.
E mentre torno a casa, penso che un giorno in bosnia ero sperduta perché avevo preso l'autobus, ma qualcuno m'ha accolto a casa sua e offerto un caffè e della musica, e la rassicurazione di non essere sola e sperduta al mondo. E questo qualcuno l'ha fatto gratis, senza volere niente, senza chiedere niente. E così torno indietro, e sento che la vita è meravigliosa, perché ci son persone belle, che fanno quel passo in più qualche volta, e cambiano la vita di altre persone, e che se anche stanotte, tardi per tardi, faccio quei chilometri in più non muoio, e passo il testimone.

martedì 10 marzo 2015

lista di marzo, fragilità

- Notte, rientro a casa, sono stanca, stanchissima. J direbbe esistenzialmente stanca.
- J. Riappare questa lettera ultimamente, come ci cercassi dentro delle conferme.
- Alzo la testa e non vedo tregue all'orizzonte. di nuovo.
- Stamattina la corsa è stata bella, inizia a non essere più freddo.
- La settimana scorsa ho lavorato molto, anche sabato, volevo finire un lavoro per oggi. Oggi l'ho finito (non proprio come volevo, ma comunque finito, lavorando anche il pomeriggio) e mi è stato detto che non cambia niente, che siamo comunque in ritardo.
- Penso spesso alla nonna, quando faccio il risotto mi ricordo che lei lo sgranava, anzi, me lo faceva sgranare (che poi sgranare forse vuol dire altro): lo metteva su un piatto o su un pezzo di scottecs e mi diceva di controllarlo, i grani brutti non si mangiavano. Io li cercavo a più non posso quelli brutti, bastava un segnetto e correvo da lei e chiedevo: e questo. E la nonna sorrideva, diceva: Via, via.
- La settimana scorsa sono successe cose che mi hanno scossa, piccole cose che anzi non sono successe. è il potenziale che è bastato a scuotermi. Tutto si è risolto per il meglio. Eppure questo pochino è bastato a capire che non mi sto più difendendo. Che non ho scudi, che sono meno forte di quello che credo. Ecco, capire questo mi ha scosso tanto, quasi più del potenziale.
- Quando entro in cucina S. è sempre di buonumore, canta. Canta il mio nome certe volte. E si abbandona ingenuo alle frivolezze, non ho mai conosciuto nessun uomo rimasto tanto bambino. Ogni volta me ne sorprendo. Non è fascino ciò che questa cosa esercita, è proprio sorpresa, anche una sorta di gioia.
- «Ha criticato Stalin anche sul piano personale?»
«Gli ho fatto notare come, in occidente, susciti sconcerto il culto della personalità che lo circonda».
«Ha taciuto?»
«No, ha detto che l’impero sovietico è tanto grande da costringere a gridare molto forte a Mosca, se c’è l’intenzione di farsi ascoltare fino a Vladivostok».
- Barthes, soprattutto Barthes: La depressione arriverà quando, dal fondo della tristezza, non mi potrò neanche aggrappare alla scrittura.

mercoledì 4 marzo 2015

50 sfumature di perversione (spoiler)

50 sfumature di perversione.
Lui dice proprio così, giuro. Lei piangente chiede perché? perché non possiamo essere una coppia normale? (e neanche per un istante riflette sulla superficialità di quel normale)
E lui le risponde: perché sono fatto così, perché ci sono 50 sfumature di depravazione in me.

:) :) :) :)
e viene da ridere (e quasi da sperare che le elenchi almeno uno non ha buttato via un paio d'ore).

ma a parte quest'attimo così trash da essere divertente, il resto è proprio una merda. Sì, pura banalità che neanche telenuovo dieci anni fa nell'infrasettimanale, accozzaglia di stereotipi e scene già viste (la cravatta, il ghiaccio, le bende...). E il desiderio di lei (vergine) di essere felice con lui, il bellone perfetto ma un po' ombroso che le regala una macchina sportiva, il semplice puro desiderio di andare al cinema come le persone normali. E davvero questo persone normali le esce tanto dalla bocca, così tanto che anche a me vien voglia di sculacciarla per farla pensare a quello che dice. E alla fine, per quanto lui abbia messo tutto in chiaro, per quanto stesse provando a diventare "normale" nonostante fosse ben consapevole di avere determinati desideri. Al desiderio di lei di capire fin dove può arrivare, lui la colpisce sei volte (probabilmente la studentessa di letteratura inglese aveva letto jane austen e non de sade, e nemmeno visto nynphomaniac), lei piange, sbatte la porta, lo manda via, poi se ne va da casa sua, e non si lascia riavvicinare. E il film chiude così, con una grande condanna morale verso il masochismo e il sadismo, anzi, coll'insegnarci: "finché è ghiaccio nell'obmelico e seta... ok, quando va oltre non va più bene". Ed è questo il lato terribile del film. Perbenista fino al midollo, nemmeno una nota di rispetto verso il fatto che persone consenzienti e adulte fanno quello che vogliono, tutto il film pervaso dall'imperativo di essere normali.
Credo sia stato tacciato di maschilismo, io credo che lo sia, un film maschilista, ma non perché la povera verginella abbagliata da valori come la ricchezza il potere e i muscoli venga sedotta e usata (per pochissimo tra il resto e con anche una dose di romanticismo quantomeno degna della sua levatura morale), ma perché è lei a essere bigotta e scema, a proporsi come ingenua e essere dannatamente superficiale e grossolana nel modo di pensare. Presentare donne di questo tipo è maschilista, perché al contrario dei modelli femminili di questo film le donne hanno testa pensiero desidero conoscenze amore complessità e forza, persino forza di subire volontariamente se ne hanno voglia e le rende felici.

mercoledì 18 febbraio 2015

Giorni pieni

Trieste senza vento e poi di notte Trieste col vento.
E il mare placido e azzurro, visto solo due volte, una di sfuggita, l'altra scrutato ben bene. E infatto c'era una barca, in fondo in fondo, come dei disegni delle elementari.
E il caffé dai soffitti alti e i tavolini piccoli piccoli, dalle tante persone ormai care, dai vini sempre pronti.
Trieste a carnevale, troppe maschere, troppo adulte, più di mille centouno.

E la notte vagabondi nelle vie pulite, spazzate; il cappotto stretto stretto al bavero, lo sguardo basso, il passo veloce alla ricerca di un riparo anche se non piove. Risate ad alta voce. Un gruppo di individui per una sera gruppo, o per due sere. E i locali già incontrati. E i bicchieri presto vuoti. E a volte rovesciati. E discorsi adulti, stranamente adulti, e scherzosi. E troppe sigarette. E rientrare in albergo e parlare degli uomini della storia e del passato, che di colpo sembrano a portata di mano. E scorre belvedere con ghiaccio. A Bobbi! Nazdrowie! Zivili! (cappellino sulla zeta necessario). E la porta girevole che non si blocca. E la stanza piena di interrogativi, e il sonno che resta un bisogno insoddisfatto tra le lenzuola di seta.
E poi il giorno, la sveglia azittita, il caffé, la corsa coi jeans, il pesce, gli incontri, tanti sguardi, i vini, i saluti.

martedì 17 febbraio 2015

:) Brecht, magnifico

... 
 
In me si combattono
L'entusiasmo per il melo in fiore
E il terrore per i discorsi dell'imbianchino.
Ma solo il secondo
Mi spinge alla scrivania.
 
(da: Brutti tempi per la poesia) 

giovedì 12 febbraio 2015

Giorni lenti

Giorni lenti questi, scanditi dal dolore, dal collirio, dall'antidolorifico.
Giorni dominati dal corpo. Giorni in cui la luce è una lama.
Giorni strani, tanti pensieri, qualche lettura, qualche corsa prima di pranzo.
E una parte bella del nuovo libro:

Se ne stavano seduti al tavolo di legno e all’ombra dell’eucalipto, discutevano come fosse una questione di vita o di morte, bevevano la limonata fatta da Marta. Per prendere fuoco, Brecht aveva bisogno di obiezioni, di dubbi e di contrasti. Per sbloccare le sue sfavillanti trovate, la sua arguzia, il suo cinismo e la sua sfrontatezza, edificava sulle solide fondamenta costituite dalle cognizioni
di Feuchtwanger, dal suo realismo, dalla sua logica, dalla sua sensibilità per la costruzione, la drammaturgia e la psicologia.
«Lei è il mio unico maestro, dottore» disse una volta Brecht, e poiché ebbe probabilmente il timore di aver fatto un complimento troppo grossolano, si affrettò ad aggiungere: «Perché è l’unico in grado di spiegarmi quali regole sto trasgredendo».

(Modick, Sunset)

giovedì 22 gennaio 2015

latte alle ginocchia

giuro, quando prima di certi video parte la pubblicità della zimil a me viene il latte alle ginocchia, soprattutto quando quell'insopportabile uomo finge di essere un papà. Coi grandi occhioni dietro agli occhialoni, il corpo secco secco, e tutto il disagio del mondo mal celato nella sua parte, dietro a quel sorrisone con le spalle alzate. Come quando un adulto si sforza di parlare con un bambino.
Intollerabile nella solita famiglia perfetta marito moglie due marmocchi, e alla fine l'immancabile coro: buono!


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