mercoledì 21 dicembre 2016

quel freddo lì

Da qualche giorno penso a Israele. Forse perché quest'anno è iniziato così e ancora non l'ho ben capito, né l'anno né quel pezzo di mondo.
Era caldo e freddo insieme. Sia fuori che dentro.
La cosa che turbava di più era quel senso di controllo, dappertutto.
L'aver paura di fare la cosa sbagliata o di fare la cosa qualunque al momento sbagliato.
Tanti militari, giovani, armatissimi. Tanti controlli, dei documenti, della borsa, metal detector addosso, spiegazioni, tantissime spiegazioni, ai militari, ai civili.
Israele è bellissima, almeno la parte che ho visto io. Tel Aviv ha spiagge che tolgono il fiato, su cui correre e camminare per giorni, ha onde alte, e tetti piatti, tante antenne e localini.
Gerusalemme è intatta, è un labirinto sotto e sopra, tra i cunicoli e i palazzi e le viuzze, e poi c'è la spianata che è tra i posti più belli che ho visto. E ci sono tramonti mozzafiato, e quella vegetazione bassa bassa e così esotica, per me delle montagne, quella vegetazione che a sé fa già vacanza.
E poi c'è l'accesso linguistico. Un pezzo di Medio Oriente in cui si parla inglese senza difficoltà, in cui si chiede e c'è risposta, almeno quando ci si perde, perché poi se si chiede altro, se si scava, non si trova niente. Rigidità.
Io sono stata bene, a parte il senso un po' claustrofobico di essere indagata, di avere addosso occhi che mi guardavano come fossi colpevole di qualcosa, ecco è questa la sensazione: in Israele ci si sente colpevoli del solo fatto di essere lì. Comunque io coi sensi di colpa ci vivo da sempre e quindi per certi versi era catartico nascondersi dietro a quelli in cui per forza ero innocente.
Comunque, dicevo che sono stata bene, ma poi mentre stavo per prendere il volo per tornare qualcosa ha mosso le acque della vacanza e tutto il torbido in qualche modo è risalito e a me è rimasta un pochino quell'immagine lì.
Siamo in aeroporto, appena entrate, il nostro volo dopo una vita, ché dicono che bisogna arrivare tanto prima, almeno tre ore.
Sulla porta una giovane ragazza, coda alta, sottile. Non so dire se vestita mimetica o hostess. Guarda i documenti, ci lascia entrare.
Lo spazio centrale è grande e vuoto, non c'è coda, né gente. Veniamo divise.
Io vengo portata da una parte da un ragazzetto coi capelli rossi e gli occhiali, c'avrà vent'anni, mi sta vicinissimo con la faccia, non mi lascia poggiare gli occhi su niente, li tiene incollati ai suoi. Parla inglese, mi chiede il mio nome, ha il passaporto in mano, sara passeggini, dico, mi chiede di togliermi gli occhiali e mi squadra, e gli occhiali non me li lascia rimettere fino a che non mi dice che posso andare. Mi chiede quanti anni ho, e io dico 34, mi chiede con chi sono qui, indico la mia compagna di viaggio, mi chiede quante volte sono stata in Turchia, gli dico un paio, forse tre, mi chiede quanto sono alta, rispondo, cerco di scherzare senza successo, mi chiede cosa ho visto di bello in Israele, rispondo le cose giuste ma resto sul vago, mi chiede quando sono stata in Turchia, provo a ricordare, dico date sommarie, mi chiede di che colore ho gli occhi, e mentre faccio per rispondere mi chiede che ci facevo in Turchia, e io dico turismo, a trovare un'amica che studiava lì, e lui mi chiede se mi sono divertita in questa vacanza, e io vorrei rispondere sì fino adesso, o anche sì se non foste così paranoici, o cose così, ma mi sa che non dico niente. Sono spossata e non vedo bene, mi sento insultata dal suo atteggiamento, atterrita. Mi pare di aver subito un'ingiustizia, non ho fatto niente di male e mi sento trattata come una criminale.
Poi mi lascia andare, ci scorta al controllo valigie, anche con la mia compagna di viaggio. Abbiamo solo il bagaglio a mano. Scandagliano ogni cosa, tirano fuori tutto, scorporano persino il burro cacao dal coperchio, guardano tra le mutande sporche. Trovano anche quello che non si sapeva ci fosse, e lo eliminano. Hanno strumenti strani e io sono molto confusa e spossata. Tra l'altro la notte prima a Tel Aviv ho fatto tardi e festeggiato e mi sono perduta nelle viuzze pronta a tutto. E tutta quella gioia in un attimo è diventata fredda, lucida, feroce.
Ecco, tra le altre cose mi porto via questa. Quel freddo lì.


martedì 20 dicembre 2016

io e la bambina, appunti

stasera ho riordinato le foto sul PC, sparse qua e là negli anni e nei luoghi e nelle cartelle e nel download c'erano alcune foto di me e della bambina.
non ci facciamo quasi mai foto, eppure nel corso del tempo il padre ne ha rubate alcune.
rubate, e si vede.
stiamo spesso un po' distanti, quasi a una distanza di sicurezza.
solo in un paio ci teniamo per mano camminando.


sul tenerci per mano camminando ho fresco un aneddoto, al posto di una foto.
un giorno ho accompagnato la bambina a scuola.
siamo partite da casa presto, perché io non ero sicura del parcheggio e della strada e siamo due ansiose.
in macchina ha ascoltato una fiaba, io guidavo con attenzione, c'era un bel sole fuori, forte abbastanza da inchiodare un pezzo di scialle al finestrino e farne una tendina per la bambina.
arrivate non c'era parcheggio ma c'era poco distante e l'abbiamo messa alla stazione.
siamo scese e ci ha inghiottite un freddo freddissimo. abbiamo camminato a passo veloce per scaldarci. io avevo la cartella in mano.
la bambina faceva per prendermi la mano, così ho spostato la cartella e preso la manina.
e la teneva forte questa mano mentre raccontava storie sulle case della via. poi abbiamo fatto una scaletta, la bambina aveva dei pantaloni un po' a zampa e quando faceva il gradino le sbucava solo la piccola punta delle scarpette viola.
e tra punta di scarpette e manina stretta stretta, ho sentito della tenerezza.
poi lì davanti a scuola raccontava cose tecniche sull'interno dell'edificio.
lì a fianco c'erano dei giardinieri che tagliavano un albero o dei rami (uno di loro era arrampicato), e ne abbiamo parlato un pochino.
poi su una panchina freddissima abbiamo letto un libercolo scelto prima di uscire di casa, uno corto, per sicurezza se per caso poi arriviamo lì presto e bisogna aspettare.
un bel libretto su un lupetto ben educato, con tanto di capovolgimento finale.
e poi abbiamo suonato il campanello e siamo entrate, la ricreazione era appena iniziata e la bambina è andata verso la classe senza salutare, e io ho fatto per seguirla per salutarla e la bidella mi ha fermata: signora non può andare. e allora ad alta voce io: bambina! e la bambina si è voltata e veloce la mano ha guizzato un ciao.



martedì 6 dicembre 2016

coccodrillo

Volevo scrivere di due o tre cose in questi giorni, cose che premevano con urgenza, volevo scrivere del giusto cosmico e di quel sentimento di pena e affetto che a volte mi scopro a provare e del bellissimo film che ho visto e dello disgregarsi lento dell'autostima quando questa è sottoposta a continui piccoli attacchi velati.

Ma è accaduta una disgrazia e non riesco a pensare ad altro. È morto il falegname. È morto quella specie di nonno della via, è morto il mio vicino di casa di sempre (perché a dispetto di tutto la casa per me è quella). Mi pare di non sapere niente di lui, nonostante l'abbia incrociato milioni di volte per almeno vent'anni e una volta aspettavo l'autobus alla fermata in fondo alla via e lui m'ha dato un passaggio e guidava malissimo. So che fumava il sigaro, e lo teneva spento tra le dita della destra, che aveva una voce appassita, con quei timbri che si perdono nell'aria. Prendeva sempre i nostri pacchi e poi la sera suonava e al citofono diceva: “va che è arrivata una scatola”, oppure “ghelo to papà” o ancora “averzeme che meto dentro ...” i puntini stanno per l'attrezzo che di volta in volta si scambiavano, lui e il mio papà.
Pare un rapporto utilitaristico scritto così, eppure son qui che piango, perché era una di quelle certezze, di quelle cose stabili della vita, della via, come un albero, qualcosa che c'è, di cui si avverte la tanta presenza proprio nel momento dell'assenza. E poi aveva una storia d'amore. Anche qui non ne so molto, sono via dal villaggio e non seguo bene. Ma so che lui, vedovo, stava con una signora, sempre della via, vedova anche lei. La mattina passava a prenderla, questo lo ricordo perché facevo la corsetta e lo incrociavo che con la macchina accesa la aspettava sotto casa. E mi si stringe il cuore a pensare alla signora che ha perso un altro amore. E a quella rosa fresca, appoggiata per terra davanti alla bottega, stamattina.
Aveva i baffi, i capelli castani o già bianchi, con lo stesso taglio per trent'anni. Io l'ho visto sempre col camice blu da Geppetto. La porta della bottega da falegname di fianco al nostro portone sempre aperta. Aveva il suo parcheggio, come tutti noi della via, giochiamo a rubarcelo tipo gioco della sedia, perché c'è sempre qualche macchina in più, ma ognuno sa chi è di cosa, e lo è per vita, come un diritto acquisito dall'uso abituale.
Quell'albero sempreverde è stato investito, investito nel villaggio, di fronte al supermercato, di fronte a casa. Chissà cosa doveva comprare, chissà se ieri si è alzato e ha sentito qualcosa o se era un giorno come un altro.
Come mi spiace.

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