venerdì 31 dicembre 2010

ricordo di un vecchio settembre


Il terreno del peloponneso era rosso ocra, pulsante e arido. Polveroso. Il cielo era blu e pieno di nuvole e così ampio, così grande. Ballavo nel cortile della grande casa tra un ulivo, un’anfora rotta, lavanda stuzzicata tutto il tempo da api rumorose. Era pomeriggio e qualcuno spiava dalla finestra del secondo piano. Alzai lo sguardo e arrossii sorridendo con le labbra a sinistra, poi chiusi gli occhi e continuai a ballare sotto il sole bruciante, la pelle umida di sudore, qualcosa di simile alla gioia al centro della pancia.

lunedì 20 dicembre 2010

3 regali

Quando arrivai a casa, io che ero sempre stata resistente al pianto scoppiai in lacrime come una povera cosa qualsiasi. (La piazza del diamante - Rodoreda)

Più felice di altri devo cogliere / uno sguardo, un sorriso, una stella, una seta piegata / sulla linea delle ginocchia [...] (Struna Światła - Miłosz)

Con il tempo sono giunto alla conclusione che, quando si comprende troppo bene la sofferenza di qualcuno, si smette di essere la persona giusta per consolarlo. (La decisione di Brandes - Màrquez)

martedì 14 dicembre 2010

libri di storia

In questi giorni non guardo molto i telegiornali perchè sento una repulsione fisica a ciò che sento e vedo. Oggi per esempio per sbaglio ho sentito la parola fiducia, e dal contesto ho subito capito che l'hanno derubata del suo significato, questa povera parola.A volte però mi capita di sentire un radiogiornale guidando, di leggere alcuni articoli, di passare davanti a una vetrina che vende televisori (e beccare l'unico momento in cui la d'urso -minuscolo irrispettoso voluto- è al bagno), d'imbattermi insomma, nella situazione italiana, così come la descrive chi fa l'informazione, quando accade mi sembra di studiare un libro di storia. Nei libri di storia un capitolo sì un capitolo no inizia con una carestia, col malcontento popolare, con rivolte politiche, con abusi di potere, con mancanza di lavoro, con condizioni inaccettabili. Ecco, siamo nel capitolo sì, mi dico. Gli studenti sono in piazza, le madri davanti alle discariche, i mariti nelle strade di rifiuti, i professori sopra i tetti, gli immigrati sulle torri, i mezzi pubblici sono in sciopero, il freddo è il più freddo del mondo, Pompei si sgretola, l'Aquila rimane maceria, le madri uccidono i figli, nel lavoro vige, per i più fortunati, il precariato, la benzina è diventata bene di lusso, la cultura un vezzo.
In questi giorni non guardo molto i TG, non leggo molto i giornali e cerco di ascoltare la Barcaccia guidando, anzichè le notizie, non vedo l'ora di iniziare il nuovo capitolo.

domenica 12 dicembre 2010

Vado a vedere se di là è meglio

È una fortuna senza pari imbattersi nel libro giusto al momento giusto. È un segno divino, la forza del destino. I libri giusti al momento giusto sono pericolosi, perchè pericolosamente indirizzano il lettore verso. Perchè gli fanno, molto spesso, cambiare strada, girare un po’ il timone, guardare un po’ più lontano, buttare qualche peso giù dalla mongolfiera. Vado vedere se di là è meglio è per me il libro giusto, al momento giusto.

Non si legge con facilità, nemmeno con difficoltà, si legge però con estremo piacere se si è spinti da un genuino interesse verso l’Est e/o verso la letteratura. Se questo interesse alla base c’è allora si rivela libro potentissimo, uno di quei libri che appena li si apre li si vorrebbe chiudere, perchè si teme di esserne risucchiati vorticosamente. Un libro che si leggerebbe in un minuto divorandolo, ma di cui si teme la fine; un libro, allo stesso tempo che invita a prendere degli appunti, che regala mille riferimenti acuti, umani, gentili, preziosi insomma. È un libro che filtra conoscenza e custodisce un sapere spesso intrecciato con il ricordo, con l’esperienza, con l’amore stesso. È un libro che si rivela mappa, sia per la struttura dei suoi capitoli sia per i numerosissimi riferimenti bibliografici.

È un libro che userò come bussola e punto di partenza.


autore: Francesco Cataluccio, editore: Sellerio

sabato 11 dicembre 2010

Lista dei saperi discutibili

- l'organo della sala filarmonica di TN sembra una grandissima corona, verrebbe voglia d'imparare a suonare anche solo per nascondersi a natale dietro tanta maestà.
- il Carmina Burana stona con il sole di oggi.
- sole: corsa vs piscina 1-0
- necessario ricordarmi di far convengere prima o poi Est + editoria, scrittura + sapere.
- di colpo penso: potrebbe esserci il mare.
- ricordare che i parcheggi imprigionano le macchine se non si sta attenti.
- a Verona il sindaco ha vietato la vendita d'alcolici dopo le 18.00 nei supermercati (ma questo richiede un lungo e polemico post a sé)
- ieri Verona profumava di Ferrara e un certo giardinetto, vicino a un certo parcheggio, proprio la seconda a destra a partire da. sembrava il giardinetto di Charlottenburg.
- l'altro ieri a Verona era autunno e in Trentino inverno, oggi è autunno anche in Trentino. Ogni giorno è una stagione a sé. Invecchierò prima pensandola così.
- oggi mi sento un po' Nadezhda Zabela, nel quadro di Vrubel.
- Croce disse: La storia è sempre contemporanea. (!)
- Kokoschka in alcuni quadri si firma OK.

domenica 5 dicembre 2010

and this is our last missing kiss

Mare, sale nell'acqua e acqua fino al collo,
e mani a confondere i muscoli con le onde.
Capelli bagnati e pelle oliva lui, e piccole fossette a illuminare la notte.
Capelli radi e ironia sulla punta della lingua l'altro lui, e un mondo di cose che tacciono.
Si leggono, giocano, la schiuma a volte tra le narici, il respiro si avvicina, il respiro sa di mare.
Due mani s'allacciano ai fianchi,
due mani dietro al collo,
respiro, adesso, solo uno.
Lui l'altro l'altro lui.
Sembra un ciao, è un addio.
Gli occhi vanno dentro agli occhi, solo luce di occhi a risucchiare imprigionare imprimere l'ultima immagine.
Labbra distanti una rasatura appena fatta.

Πάτρα, 2007

venerdì 26 novembre 2010

Sour Mango


Ancora non le ho viste sugli scaffali dei supermercati italiani, meglio trentini. Parlo delle Sour mango. Io sono una grande amante del sapore del mango, nel pacchetto Haribo tropical è assieme al lampone il mio gusto preferito, e in generale lo trovo un fresco sapore per caramelle gommose; al contrario però non sono una fan del sour cioè di quell'acidognolo aspretto frizzantino.
Gusto e forma:
Le caramelle sono molto acide, hanno una concentrazione di succo di mango al 10 % (che è un po’ poco), mangiandole è preponderante il sapore del limone e degli acidificanti.
La forma è un ellisse irregolare e a ricoprire la caramella c’è una granella di zucchero bianco. Ho lavato una gommosa per capire se il gusto senza granella (principale fonte di acido nella caramella) fosse migliore. A mio parere un po’ migliora, ma in generale la caramella non si spinge sopra il 5,5 come votazione. La caramella è nel complesso rinfrescante e offre quel tirare la bocca che di certo i cultori del frizzantino (come per brixx, fizzy cola...) potrebbero apprezzare.
Densità:
la densità ricorda quella delle haribo peaches, dunque apprezzabilissima, nonostante la somiglianza però queste al mango sono leggermente più compatte, più piccole e con un briciolo di spessore in più. Dopo queste attente valutazioni sconsiglio l’acquisto, se si ha voglia di limone meglio i ciucci frizzantini (saure schnuller).

giovedì 25 novembre 2010

Katjes Frucht-Kaugis




Voto 9, da subito.
Anticipo il voto al commento perchè queste caramelle gommose alla frutta sono di gran lunga superiori alle generiche caramelle gommose (orsetti –gold o meno-, vermi, puffi, winegums...)

[They do have a quality that clearly sets them apart from other gummies. I’m not sure if there’s some sort of subtle flavoring added, or what the deal is, but they’re dope. They’re like gummies for adults-a sort of refined taste that is extremely tasty, but a little more complex than your garden variety ghetto gummie.]

Estetica:
Le forme sono sei, una per frutto contenuto: arancia, limone, fragola, mirtillo, , cigliegia (a sorpresa la migliore), fragola. La forma riprende il frutto o parti del frutto, l’arancia ad esempio è tagliata a metà, la fragola è triangolare, il limone ha la superficie che presenta piccoli rientri come la buccia del frutto stesso. Il colore è caratterizzato da una piacevole semitrasparenza.

Gusto:
delicato, diverso da frutto a frutto. Il gusto migliore è quello della cigliegia che spesso è sottovalutata nelle caramelle gommose a discapito della fragola o del lampone. Le caramelle non sono troppo dolci, non lasciano palato e lingua ulti o infastiditi ne l’amarognoloplasticoso che invece spesso si riscontra. Il gusto fragola rimanda alla fragola di bosco, soprattutto ad un altro ottimo prodotto di cui non ho ancora parlato, le Haribo Frutti di bosco.

Densità:
Questo è il punto forte, hanno una sola densità uniforme, plasticosa ma nitida, pulita; non si attaccano ai denti e si lasciano mordere cedendo con ordine al momento giusto. Ottima.

Le caramelle sono prive di coloranti artificiali.

Piuttosto che...

Piuttosto che sentire ancora una volta le persone usare "piuttosto che" nel modo sbagliato mi pianto matite nelle orecchie.

(e per modo sbagliato intendo scambiarlo con l'Oppure, insomma, l'"oppure" è oppure, il piuttosto che è invece un "pur di non"!)

Esempio 1
Piuttosto che avere mara carfagna (volutamente e irrispettosamente in minuscolo) come ministro delle pari opportunità rinuncio alle opportunità, a tutte le opportunità, pari o dispari che siano.

Esempio 2
Piuttosto che mangiare in un mac donald (ut supra) mangio vermi vivi

Esempio 3
Preferisco non regnare piuttosto che perdere la libertà. (Fedro)

Ricordo che piuttosto ha anche altri usi, come preferibilmente, o alquanto; ma non come oppure.

venerdì 12 novembre 2010

E giù.

E su e giù.
Non parlo di sesso. Parlo di umori.
Su e giù senza riposo, senza pause, senza equilibri. Anche quando è più su che giù diventa stancante. E poi quando è più su che giù il giù sembra più giù del solito giù, si cade da più in alto.

Adesso di colpo giù, ecco.
Certo che so i motivi. Il motivo. Futile! il motivo futile.
È un’assenza il motivo futile. Una mancanza.

L’uomo con la montatura dell’occhiale zebrata accosta la macchina, metà sul marciapiede, metà in mezzo alla strada. La grandissima macchina non zebrata. La apre e la chiude, entra nella profumeria, esce, prende una scatoletta dalla macchina macchinone, fa pip con le chiavi voltandole le spalle, di nuovo dentro, poi di nuovo fuori. Mezzo sorriso. Uno sguardo interrogativo. Io aspetto infreddolita. Aspetto infreddolita da ventiquattro minuti. Davanti alla profumeria. Nella via stabilita in gran segreto. Il trucco perfetto, i punti sotto agli occhi così tondi che se solo sorridessi sarei solo punti sotto agli occhi e sorrisi dolci. Profumo di fresco nel freddo. Calze un po’ a rete, stivali alti e neri. Un vestitino mozzafiato prendifreddofuordimisura. La montatura zebrata entraesce dalla macchinona e dalla profumeria. Poi, l’ultima volta, fa per salire in macchina, si gira mi guarda: “non è ancora arrivato? Devi metterlo sotto!” sorride come a dire in bocca al lupo santa giovane donna nei guai.

Così il vaso trabocca. Il piede destro congelato.
È obbligo fermare l’umiliazione. Obbligo andarmene subito. Un po’ di rispetto signorina tuttapuntinisottogliocchioniblu. Mi giro e imbocco la strada. Niente di cui piangere, niente di cui arrabbiarsi. È però obbligo non voltarsi più a controllare se da lontano la macchina bianca, il bel sorriso, tutto baci promessi... No! Non ci si volta, e non si aspetta oltre le sedici e trenta.
Anche se a casa nessuno aspetta.

E giù.

lunedì 8 novembre 2010

Jerzy Grotowski (parte 1)



Ora ricordo, iniziò tutto così. Sedevo su alcuni gradini, vicino a me le foglie secche, era autunno e l’Università era appena iniziata, non mi raccapezzavo bene, né con la ricerca dei libri né con gli orari delle lezioni, ero appena tornata da Dublino di corsa, volevo fare teatro. Mi capitò tra le mani un testo di Eugenio Barba, il racconto di un'amicizia, di un apprendistato, di un amore. Lo lessi d’un fiato e pochi mesi dopo ottenni una borsa di studio, destinazione Polonia.

venerdì 29 ottobre 2010

appunti sulla bellezza

Non ho più aggiornato, è passato del tempo, tempo ricco di emozioni ed esperienze degne di nota.
Gli amici più cari le sanno, non starò qui ad elencare le grandi fortune di cui godo quotidianamente, una cosa però desidero scriverla.
L’ho vista ieri: la più bella.
In generale sono convinta che la più bella sia mia sorella. Ne sono consapevole da anni, ogni volta che la vedo lo penso, al di là delle circostanze – dei vestiti – delle innumerevoli boccacce, persino quando apre la bocca mentre sta mangiando.
Raramente m’imbatto in donne più belle di lei, quando capita però lo ricordo come un’esperienza fuori dal comune.
La prima volta è successo nel 2008, a Pasqua, lo ricordo così bene perchè ero in aeroporto, di ritorno dalla Serbia. Ero molto stanca, l’aereo ritardava già da qualche ora, ero sola e senza libri, non avevo dormito perchè era appena trascorsa la notte del saluto, quelle notti dove si sta tutti svegli anche se gli occhi si chiudono, all’alba ero salita sull’autobus, nel freddo più freddo, nel buio più buio. Fumavo ancora allora, e ricordo che fumai nel freddo, sulla pensilina, sotto le luci gialle della piccolissima stazione autobus di Vranje. Più divago nel ricordo più realizzo che i Balcani da non fumatrice saranno una bella sfida, giuro che così, a sangue freddo, non riesco a concepirli. Dire: “ho smesso di fumare, domani prendo il volo per Beograd” proprio non funziona, potrebbe scatenare una pacca sulla spalla, un ciondolare della testa. Comunque, ero in aeroporto con la mia valigia, senza libri, molto stanca e piuttosto sporca, ad aspettare un aereo in ritardo, aereo che mi avrebbe portata in ritardo a Malpensa, dove mi attendeva un bel nessuno, nemmeno mezzo treno per tornare a casa. A dire la verità ero di buonumore, come succede sempre quando sono nei Balcani, so che non è qui che dovrei parlarne, richiederebbe un post a sé, ma da sempre mi sento felice quando ho la fortuna di ascoltare un dobar dan, kako si e bla bla, mi sembra di sentire i muscoli della pancia che si distendono, e un po’ di menefreghismo sale alla testa, la pazienza si dilata, gli occhi ammiccano, la bocca sorride, il cervello si apre. Sedevo stoica e di medio umore quando l’ho vista. Bellissima, giovane, carnagione scura, occhi verdi, capelli castani molto lunghi, lineamenti affilati, labbra lucide, sopracciglia squadrate, mani curate. Vestiva con una lunga e larga camicia bianca che a stento lasciava intuire i piccoli seni, aveva pantaloni stretti a tre quarti (pinocchietto è un nome terribile per dei pantaloni, meglio la matematica), non ricordo le sue scarpe. Aveva l’aria di chi profuma di buono, di chi s’è appena lavato, di chi è fresco e. Tra le mani teneva una borsa in cartoncino laccato contenente forse gli ultimi acquisti. Aveva un neo perfetto vicino all’occhio sinistro e ripeto, i capelli lunghi un po’ scuri, come di seta... lucidi, e vi passava le mani senza incontrare alcun nodo, e a volte li raccoglieva e intrecciava con imprecisa disinvoltura con un fermaglio in cuoio. In.di.men.ti.ca.bi.le.!
Ieri è successo di nuovo, mi sono imbattuta in una donna la cui bellezza mi ha onestamente turbata.
Non sono ancora lucida abbastanza da poterla descrivere con precisione, ma copio gli appunti che ho preso, magari tra un paio d’anni diventerà un personaggio degno di nota.
Mi sta di fronte una ragazza bellissima.
Pallida, con capelli rossi rossi e un caschetto irriverente alla Lola corre.
Scrive, felice e ansimante, al cellulare.
Ride e piange, ha preso il treno.
La mano le trema si guarda le unghie della destra, un’ombra di disappunto le appare sul volto.
Di nuovo lo sguardo al piccolo schermo.
Il respiro piano si adegua.
È russa o d’un paese che usa l’alfabeto cirillico.
Ha occhi azzurri, ancora labbra sottili. Dita sottili. Sul medio della dx un anellino intrecciato come un filo. Veste pantaloni metà jeans (davanti) metà pelle marrone (dietro).
Ha una grande valigia rossa (mi ricorda Tereza che con la grande valigia bussa a una porta, le viene aperto, entra e si ammala. Chi aperto la porta la cura. Tereza portata come Mosè. Così la mia Lola e la sua grande valigia). Condividiamo un mandarino, ci guardiamo e sorridiamo. Vorrei stare sul treno per vedere dove scende. Chi raggiunge. Vorrei invitarla a casa e cucinarle una zuppa. Ci guardiamo e sorridiamo. Prossima fermata la mia, mi preparo, mi alzo. Da sotto in su mi osserva, Ha matita nera sopra gli occhi. Ha grandissimi occhi azzurri e capelli rosso acceso, e labbra sottili e mani sottili. E ha lo sguardo che attende, che spera e che teme. Bellissima.

domenica 17 ottobre 2010

correre da sola, parte 1

A volte mi viene in mente mentre corro, sì, parlo di Arvo Part.
Corro, magari i prodigy fino a un attimo prima saltavano nelle orecchie, nelle immagini, dettavano il ritmo e si leccavano i baffi
- e poi sembra esserci silenzio, le orecchie non ascoltano più, le gambe non sentono la fatica, il corpo non si accorge che respira, che corre. Non sa dov'è e che fa, ha impostato il pilota automatico (nel mio caso, per il momento, lentissimo, confesso).
Bene.
In quel momento, a volte, mi accorgo di cantare nella mia testa il De Profundis (1), altre volte Preisner (2); e di pensare. Mi dimentico sempre le cose illuminate che realizzo a ritmo pulsante del cuore, ma continuo a cantare nella testa intere orchestre. Anche stasera.

1

2

mercoledì 13 ottobre 2010

vivere da sola - parte 4


Ogni volta che mi scopro a pensare a settori mi censuro da sola.
Non mi piace scadere nelle banalità.
Eppure sono tanto emotiva da rivestire ogni cosa importante con vestiti d’affetto, d’amore, d’amicizia, di crescita.
Le cose che rimangono nude vengono spesso dimenticate, fino a che non vesto anche loro.
Perché introduco così?
Perché oggi, poco tempo fa, ho chiuso un settore. Un qualcosa che occupava la mia mente giorno e notte. Si tratta di lavoro. E si tratta di passione. E si tratta di parole. E si tratta di.
Oggi abbiamo chiuso un libro importante, e come dopo un esame mi sento piena e vuota, e come quando si esce da un lungo bagno mi sento le mani rugose e la testa chissà dove, e come quando.
E come quando. Al cubo.

E domani? E stasera?

mercoledì 6 ottobre 2010

never on sunday

Così s'intitola il foglio d'appunti che pretende di non farmi scordare un viaggio verso Παραμιθια,
viaggio a cui stasera penso, perchè lo stato d'animo è lo stesso.
Gli appunti citano:
-i colori verde e bordeaux mischiati nei campi
-il paesino paludoso
-passeggiata seralnotturna, di colpo la pioggia in cima alla montagna, scendiamo veloci alla cena formale, la portata servita è la seconda, noi fradici infreddoliti con un'escursione d'età ambigua
-canzoni sull'autobus, donnone e vocione e un movimento ritmico di mano che non potrò, purtroppo, mai possedere
-carezze la mattina, sui capelli, per svegliarmi, e la stessa voce che mi ha accompagnata nel sonno con una lettura incomprensibile, a donarmi un inedito kalimera
-chiacchiere davanti al camino, nel grande salone, dopo che tutti sono andati
-l'ουσερια la domenica mattina presto, tavoli piccoli e pieni e fitti di cibi di odori di sale di ouzo
-e infine: Τα Παιδιά του Πειραιά

-belli gli appunti di viaggio a distanza di anni.

martedì 28 settembre 2010

Flashback 1: Teufelsberg

Mit einem besonderen Gedanken an(zu?) M. :)
Sono nella torre del diavolo,
l'ho raggiunta nuotando sopra un mare d'alberi diventati coralli
è qui, all'ultimo piano
è qui, il paradiso del suono,
Si riflette il riverbero ennesimo,
si rispecchia
si ribalta
frantuma
scompone
rimbomba
amplifica
riempie
rindonda
spinge
tira
scivola
s'innalza
si contrae
accarezza i timpani - invade il cervello - crea nuova sostanza e annulla quella di cui il corpo è composto.
La materia si fa nulla, il suono si fa carne.

martedì 21 settembre 2010

lista d'inizio autunno - la stagione prediletta

- siedo sulla panchina sotto il grande albero, piante d'ulivo tutt'attorno, a prima vista secche. Mi sembra, per un istante, di poter vedere di cosa è fatta la materia, come se i miei occhi-microscopio captassero la tensione tra le particelle, nelle.

- oggi ho assaggiato rum e cola, al primo sorso l'ebbrezza è salita alla testa coi ricordi. Palazzi grandi e bianchi a stagliarsi. Giardini ordinati e sterili, la parte lungofiume con la pergola e gli immigrati a far baldoria, o forse solo a parlare. Berlino di colpo nella bocca.

- Il sole fresco si riflette sulla lamiera ramata prima di scendere, è una semplice grondaia, eppure mi sembra un pezzo di paradiso-la cosa più preziosa di oggi, in questo silenzio, in questo momento di sole in discesa alle spalle. Capisco una cosa importante: a volte il silenzio può tinger di surreale ogni cosa, ma magari servono anche gli ulivi.

- A volte ho l'impressione che anche l'acqua delle fontane di fronte alla chiese sia acqua santa.

sabato 18 settembre 2010

La plastica che ricopriva il manico della moka orgasmica – ovvero: vivere da soli parte 107

Ho una moka. La stessa da sempre, mi ha seguita in ogni stato e città che ho visitato.
È una moka che fa un suono pazzesco quando il caffè è pronto e spruzza da ogni parte il liquido prezioso. La chiamo la moka orgasmica, scherzando, e senza di lei, forse, dormirei e basta.
È una moka metallica, con la panciotta per l’acqua più larga del busto dove sgorga il caffè.
Ha un manico di metallo curvilineo che era coperto da una plastica rossa.
Questo è il punto della riflessione di oggi: la plastica che ricopriva il manico.
Ora quella plastica non c’è più. C’era, ma con il tempo e i diversi tipi di gas (forse anche spinti per accelerare l’uscita del caffè, il suono del paradiso, il profumo del mattino…) si è colata lentamente ogni mattina, e poi si è solidificata con forme curiose durante il giorno.
A me non è mai venuto in mente di toglierla, perché era parte della moka. Così, spesso, la mattina, mi scottavo un po’ le mani; mi si attaccava la plastica bollente alla pelle delle dita.
La cosa era fastidiosa, ma comunque sopportabile. Comunque non volevo cambiare moka, quindi la plastica liquida a volte si attaccava a me, altre alle presine, a volte una goccia rossa cadeva sul gas.
Un giorno è tornato P. a casa, a trovarmi. Anche lui aveva usato sempre quella moka quando vivevamo insieme, ma la moka era più mia che sua, sia per anzianità che per quantità di caffè. Ha visto l’operazione di scottatura e mi ha guardato come se di fronte a lui ci fosse la persona più idiota del mondo. Mi ha bloccata, ha detto: “Saarrraaaa!”, e con la presina ha tolto la plastica deforme e molliccia che ricopriva il flessuoso manico metallico.
Mi sono appena fatta un caffè, lo sto bevendo ora, ma mentre lo versavo, di colpo, mi è tornato in mente il momento della liberazione dalla lieve scottatura mattutina, e di colpo ho realizzato che di certo sono vittima inconsapevole e continua di una lunghissima serie di disagi quotidiani di cui nemmeno mi curo, perché leggo e penso ad altro, perché scrivo e non vedo veramente, e, almeno nelle cosa pratiche che affronto nel quotidiano sopravvivo solo grazie ai ciechi automatismi.

martedì 14 settembre 2010

Fan del fumettista

La ragazza che chiede la firma all’autore ha occhi accesi e un sorriso limpido, e ingenuo. Quando dico accesi intendo proprio proprio accesi, quasi innamorati, luminosi, scintillanti, azzurri, sferzanti. Ha il naso sottile, dritto tra gli occhi. La bocca a triangolo, denti bianchi, capelli corti, aria spigliata. Siede di fianco accavalla le gambe. La punta del destro accarezza la caviglia del sinistro, le scarpe sono basse sportive verde mare. Guarda distratta il lavoro del fumettista che lento e con cura le dedica il libro. Lo sguardo si alza dalla pagina ai baffi. Dalla linea del naso alla punta della penna, dalla mano sinistra che separa con pesantezza la copertina dalla pagina al segno dell’anello nuziale dimenticato forse sul bordo del lavandino. Occhi che indagano senza sapere che la mente analizza e trae conclusioni. L’uomo ormai vecchio tatua la stampa, mi volta le spalle, non vedo le sue labbra -ma la fan sorride, si sporge, pretende d’esser ricordata. L’amica le sta dietro, braccia un po’ incrociate, un po’ a preghiera un po’ lungo i fianchi un po’ a cercar la posizione. Braccia invadenti -l’amica retrostante. Capelli lunghi, frangetta trasversale, fossette. Fossette. Sorriso illuminato di una dolcezza genuina di fossette di bambina. Occhi truccati solo ai lati, maglietta aderente azzurrina, jeans e ballerine come da tradizione giovane donna casual. Fossette. È tutta una fossetta -per questo molto bella. Si nasconde dietro alle braccia e sbircia con le fossette. Un piccolo neo sulla guancia destra, labbra una sola linea, pelle giovane. Imbarazzata. Il fumettista ha alzato lo sguardo una fossetta l’ha forse abbagliato. Dice qualcosa, non sento. Lei arrossisce e risponde un nì con testa a penzoloni, frangetta fissa, nessuna ruga. Mano destra nervosa, mano sinistra sulla spalla dell’amica. Mano destra che stringe e che sfoglia, un fianco, un libro, un’idea. Le labbra rientrano in bocca, la faccia diventa paffuta, la fossetta sorride risoluta.

domenica 12 settembre 2010

...un po' come morire



Spedire o non spedire? A volte ci si trova davanti alla buca delle lettere come davanti a un bivio. Che si tratti di una lettera d’amore, della disdetta di una casa, di un testo per un concorso, di una cartolina nemmeno scritta – il dubbio si trasforma in esistenziale. Eravamo davanti alla scatola rossa. Due bocche: per la città e per tutte le destinazioni. Due bocche simboliche immagino, perché sono convinta che portino alla stessa pancia un po’ a dieta negli ultimi tempi. “le poste e le pompe funebri” diceva mio nonno “sono i posti sicuri, ce n’è sempre bisogno”. Sbagliava. Delle poste ormai non c’è più bisogno. Troppe incertezze. Troppo tempo. Troppa fila. Troppe variabili: una pancia arrugginita e un foglio che s’aggrappa, il soffio più forte d’un vento d’autunno e la busta che rotola nell’aria, un impiegato annoiato, un postino geloso, un vicino curioso… delle pompe funebri non so, la memoria di una persona che non ha potere di protestare agisce più della persona stessa, quindi forse… ma sto divagando. Due donne, una busta, due bocche rosse davanti. Ci guardiamo, mandiamo? Passa una donna silenziosa, ci crede straniere, ci ruba la busta, desidera insegnarci come fare, fa per sfamare. Sorridiamo, la blocchiamo, le spieghiamo. Si scusa, arranca confusa.
Tre donne, una busta, due bocche rosse che chiedono. Ché chiedono? Parole, notizie, speranze, rifiuti, decisioni, saluti, informazioni. Noi: un piccolo grappolo d’uva, la busta: baffuto pampino, la buca delle lettere: la bocca del bambino. No, non spediamo, l’uva è per il vino, e poi spedire è un po’ come morire.

mercoledì 8 settembre 2010

La Passeggiata - un testo dell'inverno


Questo testo è dedicato a Robert Walser, a cui chiedo in prestito il titolo. Mancheranno la sua eleganza quanto i suoi acuti ricami, soprattutto quasi mancherà la miniatura dell’esterno che lui tanto sapientemente sa colorare di vivo.
Sono uscita di casa frustrata l’altra notte, arrabbiata, e pronta a colpire chiunque avesse la sfortuna d’incontrarmi. Ho comprato le sigarette e nella brezza notturna ho acceso la terza sigaretta della giornata. La mia rabbia era dettata dalla solitudine, e dalla mancanza di catarsi, di divertimento leggero. A volte, qui, si vive diligentemente perché non c’è modo di sgarrare. Finita la sigaretta ero all’entrata della ciclabile, vicino al rio. Ipod nelle orecchie, cappotto chiuso, iniziava il buio e i miei passi si facevano ritmici, più veloci, anche i pensieri seguivano lo stesso aritmico flusso. A volte è la musica a pilotare le aree di pensiero, canzoni ricordano momenti, momenti riportano ad altri colori, colori ci ricordano luci, le luci rimandano ai visi, i visi alle emozioni… dobbiamo immaginare tutti questi passaggi velocissimi, il tempo d’una canzone. Quella sera avevo impostato la riproduzione casuale e così erano anche i pensieri: ramdom. E partita Carnaval, di Shumann, opera che non ricordavo nemmeno d’avere in lista. Camminando ho scorto il rio illuminato dalla luna, quasi d’argento, suggestivo, minuscolo, a distanza si scorgeva una strada vuota, in lontananza qualche lampione si faceva puntino luminoso e giallo nel nero. Le stelle invece erano bianche, così come la luna. Stavo già meglio. Ho immaginato di scrivere una lettera a Schnitzler, in questo periodo, come si nota dal titolo rubato, sto esplorando la letteratura tedesca e ne sto rimanendo abbagliata. Caro Schnitzler, già alla seconda pagina de La signorina Else’ ho riguardato la copertina per accettarmi che il tuo nome fosse maschile come ricordavo, per essere certa che fossi un uomo nonostante la tua conoscenza tanto profonda e semplice dell’animo femminile. Sì, Arthur, sei uomo, eppure mi ritrovo nei pensieri che descrivi in prima persona come se fossi donna, nelle realtà che sapientemente narri come fossero storie. A questo punto ho interrotto la lettera e sono giunta ad una profonda verità: le storie sono diverse, ma le spinte, le pulsioni, sono le stesse per tutti, in tutte le storie. Forse basta avere una profonda conoscenza di quegli impulsi per scrivere qualunque storia. Persone leggono i miei testi e vi si ritrovano, io leggo altri testi e ritrovo parti di me e della mia storia. Siamo davvero tutti tanto uguali? Spinti dalla solitudine, dalla rabbia, dal sesso, dalla lealtà, dalla colpa, dal rispetto e dall’amore? È davvero tutto qui? E questo tutto è davvero poco come sembra? Se è così possiamo tutti facilmente capirci, con un pizzico d’empatia potremmo contestualizzare ogni affermazione e accettarla mediata dai filtri che fanno di una persona quella determinata persona e non un chiunque. E questi filtri, quanto influiscono, quanti sono? Mi vengono in mente l’ambiente, la cultura, la natura, la lingua… Questa riflessione ha occupato buona parte della camminata ed ha lasciato scivolare indenni tutti i ventidue pezzi del brano per pianoforte, una canzone di Bjork e una di Kate Bush. Poi quest’ultima mi ha riportato alla mente la neve, quella piccola che cade disordinata in certi giorni senza vento, quando accendere una sigaretta diventa uno dei massimi piaceri perché l’umidità rallenta la combustione e l’odore del tabacco prevale su quello del fumo. Tutto un inverno ho ascoltato Kate con quella neve docile, mentre andavo in teatro ad attaccare adesivi con le date sulle cartoline degli spettacoli. Finite le ore di stage uscivo con la borsa carica di cartoncini ben affrancati da distribuire nei bar e nelle biblioteche, fumavo una sigaretta con le cuffie sotto il berretto e mi sentivo quasi felice. Con l’animo più tranquillo ho segnato con un movimento veloce del piede sinistro il punto d’arrivo e mi sono voltata, quasi piroettando (questa sì che è una parola alla Walser!), il ritorno era più buio dell’andata, la luna alle mie spalle sembrava addormentarsi, e anche le stelle erano di meno, e il vento sembrava più freddo.
Ho immaginato una conversazione con degli amici che non vedo da molto, ma che sento vicini. Iniziavo così: cara C, caro J, non vi conoscete, e siete entrambi distanti, con i Pink Floyd a suonare per me vi penso ora, proprio a un passo dal rio d’argento. Questa notte tutto il mondo è pigramente steso sul divano a guardare il Festival di San Remo, io cammino lenta o veloce a seconda della musica e faccio piccoli passi avanti nella comprensione del mondo. Vi ho già forse detto, anche se con parole diverse, che son certa accadano miracoli pazzeschi ogni giorno, nel mondo in cui viviamo; oggi però nego questa certezza, perché di colpo vedo limpidamente che siamo solo animali autodistruttivi, abbiamo perso qualunque tipo di contatto con la bellezza di ogni respiro, e ci lamentiamo di sputare sangue sul cemento di cui ci siamo circondati. Il rio che sembra fermo, qui al mio fianco, stanotte, è in realtà una lacrima boccheggiante che stride sul fondale, e si lacera incatenata e debole in un corso che non ha più le forze di mutare; il cielo, nero a piccoli e radi pois bianchi, è in realtà il vecchio lenzuolo che avvolge un lebbroso, e quel malato terminale, siamo noi; le vigne secche, che sembrano solo aspettare una primavera che le nutra di vino, sono in realtà   A questo punto ero vicino a un bar, e fuori c’erano quattro, forse cinque vecchi che cantavano a squarciagola, in un modo di discutibile piacevolezza, una canzone a me sconosciuta, forse erano ubriachi, o magari solo felici, perché non ho cantato a squarciagola anch’io prima, in mezzo al nulla? Ho attraversato la strada senza guardare, e affiancato un giardinetto, beandomi delle conquiste che questa passeggiata mi ha portato: “sono più tranquilla innanzitutto”, mi sono detta, “capisco che le pulsioni che spingono ogni azione sono le stesse per tutti, rifletto sull’alienazione che abbiamo raggiunto…” elencandomi le nuove consapevolezze, quasi sorridendo ripensandomi groviglio di inutili nervi quale ero poco prima, ascoltavo l’ultima canzone (Skunk Anansie), e ruf ! un cane, a un volume pazzesco ha abbaiato improvvisamente - ho gridato (davvero!), spontaneamente… un ridicolo, inedito, sorprendente AAAAAAAAA, poi ho riso di cuore per il mio stesso grido e di fronte a me ho notato un bambino che camminava lento e che aveva goduto pienamente della scena, potevo facilmente intuire voleva ridere, ma l’educazione glielo impediva e deformava un po’ il suo viso in un ghigno trattenuto. Appena dopo esserci incrociati ho sentito la risata liberarsi. Mi sono voltata e dopo un secondo ecco che il cane insonne di nuovo ha aperto le zanne e ruf ruf, e il bambino: AAAAAAA! Anche lui aveva gridato, accompagnando, con mia placida soddisfazione, l’emissione vocale a un rapido balzo spontaneo. Il bambino si è girato verso di me, ci siamo guardati camminando in avanti con le teste all’indietro quasi a sfidare le leggi del corpo umano e siamo scoppiati a ridere di gusto, ancora più forte, nel bel mezzo della notte tiranna, in un vicolo abitato da un cane nervosetto.
Casa mia era ormai a un passo, spero anche quella del bambino nottambulo, le mani erano ghiacciate e non avevo raccolto fiori perché l’inverno è il re di febbraio. Ma se li avessi raccolti li conserverei in un libro e rassicurerei l’arzigogolato Walzer: non raccogliamo fiori solo per deporli sulle nostra felicità, li rubiamo come briciole preziose per guardarli da vicino e provare, attraverso ciò che rimane della nostra vista deviata, a scoprirne la magia, e forse li conserviamo in un libro qualunque per lasciarci sorprendere da una secca primavera anche quando, d’inverno, ci vien voglia di leggere un libro dimenticato.

lunedì 6 settembre 2010

CLAUDIA RUSCH A ROVERETO

Lunedì 13 settembre alle ore 19 all'Atelier Foto Paolo Aldi a Rovereto
Claudia Rusch autrice del romanzo “La Stasi dietro il lavello” pubblicato da Keller editore sarà a Rovereto lunedì 13 settembre per presentare il proprio libro e incontrare i lettori. L'appuntamento è per le ore 19 presso l'Atelier Foto Paolo Aldi in via Rialto 47 a Rovereto. 
Seguirà brindisi.

mercoledì 1 settembre 2010

1 settembre - Lista della svolta

- gioisco sapendo che è il primo settembre, mi piace che il crepuscolo lento punti alla merenda
- camminare in mezzo al niente e senza meta è un grande libertà
- camminare veloce con labbra socchiuse per la fatica, - con labbra socchiuse ad accogliere il vento - mi fa sentire come in un video di shakira
- dovrei svuotare la valigia di xxx, sta tornando la temperatura che là mi aveva avvolta
- scoprirò lo stesso peso dei vestiti sul corpo, sono già pronta a commuovermi
- vorrei riempirmi le narici dell'odore del caffè, proprio adesso, proprio mentre ti ascolto docile



- quando avrò finito di autodistruggermi magari ne uscirà un buon libro

lunedì 30 agosto 2010

Sebastian Arnold - Mnemesys


www.sebastian-arnold.net


per chiuder gli occhi un attimo,
col vento della sera tra le dita,
le labbra inferiori morse leggermente dai denti superiori,
un sorriso inconsapevole che sfiora punti cardinali a ritmo di musica,
e punte e talloni che tamburellano...

Confessione

Oggi vorrei dirti tutto di quel giorno nella stanza dalla luce arancio,
dal soffitto alto,
dai tre letti singoli e duri.
vorrei sputare il rospo,
sputartelo addosso, sentirlo gracchiare,
leggere un leggero brivido tra le tue unghie sottili e sciupate.
Oggi vorrei ricordarti di come sorridevi dentro e fuori.
Vorrei toglierti dagli occhi gli anni passati e farti vedere come vedevi.
Come mi vedevi.
C’era un tempo in cui mi volevi proprio così com’ero.
Oggi ti soffierei il passato nelle orecchie,
vorrei sentire muscoli a sorreggermi,
vorrei sentire la mano bagnata.

mercoledì 25 agosto 2010

Lista mirata di mezzo agosto già passato:




-         oggi la mia montagna era una coperta da pic nic appoggiata distrattamente su un prato ricco d’erba, tutto soffice.
-         devo riprendere in mano almeno una cinquantina di testi, adesso che posso dire anche il non dicibile.
-         Vorrei scrivere una lettera aperta a colui che è sparito, anzi, a coloro che sono spariti con il futuro d’altri in valigetta, speriamo almeno in fintapelleluccicante.
-         la lista viene scritta ora, in modo del tutto ramdom tra le cose che girano per la testa, con un mezzo sorriso piuttosto divertito sulle labbra,
-         avevo scritto spalle anzichè labbra, confesso!
-         Carmen torna stanotte, canzone in repeat: la bellezza delle cose, momento di commozione: minuto 3.11
-         La luna era piena mentre scendevo la strada, avrei voluto-dovuto-potuto? spegnere i fari
-         A volte etiscaro un intero album solo per massacrarmi col repeat di una e una sola canzone
-         Oggi è così, eppur non sto male, è solo un po’ d’iposonnia
-         Ricordarmi di teorizzare il processo di scrittura matematica prima di dimenticarne la chiarezza che lo definisce dettagliatamente, adesso, nella mia testa
-         Fermare il repeat il repeat il repeat il repeat il repeat il repeat il repeat il repeat il repeat il repeat
ex: spegnere (repeat)^ ∞
-         Ho visto About a boy, con sceneggiatura di Hornby, il piccolo protagonista si chiamava Markus – ho letto stamattina che il figlio di Claudia Schreiber (autrice di La felicità di Emma) si chiama Lukas; improvvisamente mi sento circondata dai gemelli della Trilogia,
-         A volte ho davvero il timore, per davvero davvero, di leggere il mondo col filtro dei libri che leggo
-         Se il repeat del filtro letterario si fermasse su Agota K. sarebbe una catastrofe  

lunedì 23 agosto 2010

Da solo

Parlo da solo. E immagino personaggi. Ma stanotte è inutile, inutile. Saranno i bicchieri di vecchio vino che ho bevuto, l’ho trovato in cantina, era l’ultima bottiglia, non ricordo d’averlo mai acquistato, è dell’inquilino precedente, schifoso, ho dovuto metterci del ghiaccio per poterlo bere. Dicevo, sarà a causa del vino acido con ghiaccio, o forse a causa della musica country che stasera entra dalla finestra, musica del tutto inopportuna, vivo in un villaggio del nord Italia, qui conosciamo la musica country solo perché Mitch Buchannon ogni tanto la ballava con quella dai capelli neri, Stefany, ecco, solo quindi da qualche scorcio di Baywatch e da Walker Texas Ranger visto tra una pubblicità e l’altra quando si cambia canale, solo grazie a loro ho una vaga idea (sufficiente a non farmi approfondire) di cosa sia la musica country, quindi forse è colpa della musica che entra anche se ho chiuso la finestra. Che sia il vino o la musica, non importa, stasera è inutile, non ce la faccio a immaginare i personaggi delle conversazioni, la vera verità è che parlo da solo.
Non potevo dormire, capita spesso. A volte tengo gli occhi aperti, altre volte mi sforzo di chiuderli. Se uno non dorme non dorme, meglio che li tenga aperti. Tenevo gli occhi aperti nel letto, di colpo la immaginavo in bagno, come quell’attimo in cui sei steso e quasi dormi, ma aspetti che lei entri per due parole, per la pelle fresca, per un bacio al collutorio. Mi sembrava di aspettarla.
Allora mi son chiesto: ti manca? E mi sono risposto: forse sì.
-perché forse?
-perché è uguale. Quando lei c’era c’erano il bello e il brutto. Ora che non c’è ci sono il bello e il brutto. Belli e brutti diversi, certo. Ma anche non troppo diversi. Uno da solo fa più cose, non deve sopportare. Alla lunga però uno ne ha anche pieni i coglioni di se stesso, a volte è più facile sopportare qualcun altro, scaricargli addosso colpe e gioie. Poi quando uno si conosce troppo non ha più vie di scampo, non ha più scappatoie.
-ti manca solo perché sei stufo di star con te?
-no, piuttosto non mi manca perché era difficile da sostenere, era come se con lei potessi già vedere cosa sarei diventato… e quello che vedevo non mi piaceva, volevo e voglio una vita diversa, altre possibilità, e parlare da solo alla fine è il minore dei mali piuttosto che rinunciare a un potenziale futuro.
-parli persante stasera…
-sì, è colpa dell’insostenibile pressione dei verbi modali, puoi, voglio, devo… continua ridefinizione interiore, cercando di non rimanerci sotto, compromessi senza compromettersi
-lo capisco perfettamente, tra il resto lei non mi piaceva…
-dai… non dir così che non ne voglio parlare, e ancor di meno prender le difese, non stasera che di noi ne ho pieni i cosiddetti
-hahahha come li hai chiamati? :D:D:D:D:D
-dai!, è che quando scrivo coglioni mi corregge in automatico e mette ciglioni… e non avevo voglia di correggere. Notte va, chiudiamo gli occhi e via, magari la sogniamo come quel giorno nel bosco, quando è venuto da piovere così tanto che avevamo paura a stare sotto gli alberi-in macchina-vicino alla roccia, quando abbiam preso la coperta che usavamo per il picnic e ci siamo avviati in mezzo al prato coprendoci le teste e ridendo un po’ preoccupati un po’ eccitati, e il suo bacio sapeva di tabacco bagnato, e i capelli le restavano appiccicati in faccia anche se provavo a spostarli col naso, e mentre tenevo la coperta con le mani lei mi accarezzava il viso e la schiena, e si appoggiava dolce poco sotto la spalla, e mordeva la maglietta rossa…

giovedì 19 agosto 2010

Conversazione sull’amore

...Ti penso, e tu? dimmi, mi hai pensato?", 
"Se ti telefono...", 
"Ma non vorrai essere logico!"
tratto da Crampi, Faustra Squatriti
 
Questa conversazione è un piccolo omaggio a F. S., 
da una sua frase infatti si è sviluppata nella testa e intrecciata con le realtà.


La conversazione avviene un mattino, tra un uomo e una donna amici di recente data. Tra loro non ci sono fini amorosi, dalla porta finestra in fondo alla stanza entra una luce fresca, le montagne dipingono il fondale e sembrano quasi entrare per sdraiarsi scomposte sulla poltrona blu appoggiata al vecchio tavolo.


-ma se Lui ti chiedesse se lo ami? Cosa risponderesti?
-se Lui mi chiedesse se l’amo mi cadrebbero le braccia (detto con freddezza e razionalità, con gli occhi che guardano in alto a destra, che cercano un appiglio a metà montagna, mezzo ricordo, persino solo un credibile film, altro)
- beh, dipende dal momento no?
-sì, forse dipende dal momento. Di sicuro dipende dal momento. Guarda che il mio non è cinismo, è che non ce la faccio a costruire se nella mia mente. Non posso nemmeno nella mia testa fingere l’amore e dare delle risposte quando non c'è nella sua spontaneità, o c’è o non c’è. C’è stato, ma non lo ricordo più. Non mi ricordo più l’assenza di logica che lo caratterizza. L’unione di assurde dolcezze di cui si nutre. La deficienza confortante che ne fa un’arma verso il moto malato del mondo. Le ho dimenticate queste cose. E da essere umano lucido e non innamorato non posso concepirle, né immaginarle.
-beh, ma se le hai vissute non puoi averle dimenticate, magari non vuoi spolverarle, desideri tenerle sepolte, sotterrate, sottochiave, incatenate in cantina, riposte dentro la cassaforte cui hai dimenticato la combinazione incastonata nel muro dietro al quadro ridipinto dalla vicina di casa di tua madre cinque anni fa.
- ma che stai dicendo?? (sorridendo, e ringraziando per la demenzialità sdrammatizzante) Il fatto è che le ho vissute, e ricordo le amorose sciocchezze altrui, del mio compagno, dei miei compagni, ma non ricordo cosa provassi a quelle manifestazioni d’affetto di generale femminile attribuzione che ricevevo con sorpresa da parte maschile, non ricordo se ne gioissi genuinamente o se fingessi di gioirne per convenzione sociale accettata e lusingante piacere del vedermi causa scatenante di tanta mielosità.
Davvero, non ricordo.
-è un peccato tu l’abbia dimenticato così bene.
-hai ragione, è una colpa.

mercoledì 18 agosto 2010

Passione - Sàndor Màrai

è davvero nato un nuovo amore.
Uno di quelli grandi, che mi è necessario confessare.
Dal podio cade Bulgakov.
Il terzo posto si eclissa.
Sul gradino più alto, a fianco del furbetto (e grandissimo) Milan Kundera si siede Sàndor Màrai.
Dopo soli due libri, con poche informazioni sulla sua vita, già è a fianco del prediletto mio maestro.
Non è stato amore a prima vista, ma ho appena terminato Le braci e sento dentro quel qualcosa.
Si tratta di rispetto, ammirazione, sorpresa, voglia di... ancora, si tratta di occhi sbarrati che incontrano ancora il potere della scrittura e ci rimangono secchi. Ecco. S. crea, sa, dice, regala grandi cose... poi distrugge qualcosina, descrive ciò che sa, come se volesse davvero farcelo sapere (come se non potesse dirlo più chiaramente di così--- e parliamo qui di massimi sistemi, di relazioni tra gli uomini, di regole interiori ed esteriori...), ma è impossibile.
Ci prepara, ecco, ci prepara a capire ciò che sa e che sapremo appena toccherà a noi incontrarlo.

Ci, Mi insemina (è volontario non aver scritto semina).
Ecco, lo grido, è nato un nuovo amore, meglio, è nata una grande passione,
e rubandogli fin d'ora una frase:
Ogni vera passione è senza speranza...

buona lettura

lunedì 16 agosto 2010

Schon

Sono seduti sulla panchina, lei lo spia da sopra gli occhiali. Si, ha gli occhiali, di quelli con la montatura sottile, che andava di moda una decina d’anni fa, la lente è a ovale, il sottile è dorato, da non crederci. È anche grassoccia, morbida a dir la verità, ma lei si sente un elefantino nei momenti migliori, in quelli peggiori non esce nemmeno, sta sdraiata sul divano con le gambe in alto, le stringe, le guarda da sotto, quasi che con la sola forza del pensiero possano dimagrire. È bionda, capelli alle spalle, occhi azzurri. È il tipo di ragazza che piace agli extracomunitari. Dicevo, lei lo spia da sopra e un po’ anche di traverso. Lui è moro, bianco anche lui di carnagione, alto. No, non bellissimo, ma ha un corpo equilibrato, un neo interessante vicino all’occhio, barba rasata da poco, labbra piatte, ma lisce e ben disegnate. Lui è di qui. Lei non è di lì. Lei non parla nemmeno troppo bene il tedesco, ma un po’ tedesca lo sembra. Lei pensa che di certo lui non ha intuito che lei non è tedesca. Lei non sa che lui non l’ha nemmeno vista e di certo non s’interroga sulla sua nazionalità. A lei gira per la testa un pensiero, un piccolo sognetto, uno scherzetto: glielo dico o non glielo dico? Dovrei dirglielo, cos’ho da perdere, al massimo mi ringrazia e niente… non può succeder niente di male. Certo che se invece va bene, beh, potremo iniziare a parlare, in inglese, o a gesti, o magari solo qualche parola e… non è sempre necessario parlare. Potrebbe sorridere, togliermi gli occhiali, forse s’impiglierebbero nel ciuffo, ecco, sistemato per benino nel fermaglio, potrebbe togliermi gli occhiali, dirmi che ho degli occhi molto belli, sì, gli occhi son di certo belli, anche il viso in fondo è carino, e solo perché non rispetto i canoni di magrezza che vengono propagandati dalla società occidentale non significa che io non sia bella… potrebbe apprezzare la mia leggera rotondità, giocare con seni adatti al secchiello dello champagne non solo alle coppette! Potrebbe alzare i capelli dal collo, sentire il profumo della mia pelle, giocare con la lingua dietro il mio orecchio, mordicchiare il lobo… gli sorriderei, mi fingerei sorpresa, direi “was… was machst du?” mi direbbe “dskcfjsloi nakjsdh” non capirei, mi volterei e con le ginocchia appoggiate alla panchina mi siederei sulle sue gambe, a quel punto sentirei il suo profumo, le mie mani tra i suoi capelli corti, i pollici a disegnargli il contorno della fronte, accuccerei il viso fino al toccare dei nostri nasi, sorriderei, mangiucchierei… sì devo assolutamente dirglielo, in fondo non può che fargli piacere sapere che una straniera seduta su una qualunque panchina di questa grande città lo trova bello. Di certo non nuoce, a me farebbe piacere… e poi si vedrà, inutile avere aspettative così com’è inutile avere timori… al tre, mi giro, lo guardo, sorrido, fingo di cercare le parole nella testa e socchiudo un po’ le labbra, poi via: esclamo, aspetto la reazione, eventualmente mi scuso per la pronuncia sbagliata, se non mi toglie gli occhiali con la passione nelle mani pazienza, saluto e scappo. Tanto non lo vedrò più, o forse dopo questo passeggeremo a lungo, andremo al cinema, sceglieremo strade da esplorare e gusti di gelato da assaggiare, di certo gli piace il gelato, magari è addirittura un gelataio, sarebbe perfetto se lo fosse, potrebbe raccontarmi i segreti della freschezza, spalmarmi di vaniglia… mi sembra che si muova, forse sta aspettando qualcuno, devo al più presto dirglielo, prima che scappi, tredueuno...ora!:

- Entschuldegung….
Ecco ho iniziato, non posso più tornare in dietro, non so nemmeno chieder l’ora, cazzo!
- Bitte?
Ha voce profonda, non sembra sentirsi disturbato, bene!
- Ich denke dass du bist schon…
Andata, l’ho detto, andata, yeeeee!!!
- Schon what?
Cazzo cazzo cazzo cazzo, dimentico sempre la umlaut! Cazzo!

domenica 15 agosto 2010

sogno

Eravamo in un prato, erba uniforme, verde, alta dieci centimetri.
Il prato era il nostro letto.
Niente lenzuola, solo vastità e verde,
e rimbalzi come voli.

sabato 31 luglio 2010

Tra-m 1000


Per un attimo provo a ricordare il tuo profumo.
Chiudo gli occhi e provo a mettere, come forse ho fatto l’ultima volta che ci siamo visti, il viso tra il collo e il colletto.
Che magnifico luogo! L’orecchio sente il battito, il naso il tuo profumo, la guancia il tuo calore.
Parlo del tuo profumo, ma ce ne sono più di uno,
c’è l’odore degli inizi, quel deodorante commerciale da giovane uomo - a volte, quando prendo l’autobus circondata da adolescenti stranieri lo sento, e mi torni in mente tu.
Lo chiamo: il profumo della giovane patria in nero.
C’è l’odore dei tuoi capelli lunghi, un odore di fumo, di lavoro, di sudore, di sole o di pioggia.
Hai tagliato i capelli, ma ho uno scialle che me lo ricorda, sì, è proprio lo scialle a scacchi, il mio preferito, quello sempre in simbiosi col tempo atmosferico.
C’è il tuo odore di sudore, lo associo all’alcol e all’intimità,
non ho niente a ricordarmelo vivo e pungente così com’era, forse voglio dimenticarlo addirittura.
Poi c’è il profumo che sta lì tra collo e colletto, è il profumo perfetto, è una casa in affitto.

Riconoscersi tra mille. Bello. A volte chiudevo gli occhi e con le dita ti scorrevo tutto il viso. Il profilo. Le sopracciglia. L’attaccatura dei capelli. Resti di barba. Labbra carnose.
Aprivo la tua bocca con le unghie e infilavo tra i tuoi denti le mie dita. Tastavo le gengive sotto, come un dentista senza guanti. Poi sopra. Canini appuntiti, incisivi lineari, premolari come striati, lingua gonfia, sfuggevole, con l’attaccatura a infrastruttura. Volevo memorizzare ogni dettaglio, essere in grado, anche da cieca, di riconoscerti tra mille.
A volte lo facevo anche con le tue mani e con le tue spalle, col sapore del tuo ombelico.
Volevo saperti a memoria.
Non realizzavo che saresti potuto cambiare. I denti però non cambiano, è così che spesso s’identificano i corpi, no?
Cambiamo.
Rinforziamo muscoli correndo. Accettiamo calli alle mani dal lavoro. Lasciamo crescere la barba. Tagliamo i capelli. Combattiamo già perdenti il tempo che passa.
Cambiamo fuori, cambiamo dentro.
Infragiliamo, ci proteggiamo. Arrogantiamo. Modestizziamo. Impariamo. Impazziamo. Incattiviamo. Combattiamo già perdenti desideri irraggiungibili di realizzazione.

giovedì 29 luglio 2010

Ginger candy



Estetica:
le caramelle hanno forma la forma di un piccolo prisma a base rettangolare, lunghe due centimetri, alte mezzo centimetro, larghe poco meno di uno. Ogni caramellina è incartata, aprendola la caramella ha color marrone e una leggera imbiancatura (zucchero? Farina?gggioga?)
Gusto:
molto forte, così forte che consiglio di mantenere metà caramella nell’incarto e succhiarne l’altra metà. Adoro il sapore sprezzante dello zenzero, e ammetto che l’incarto permette a queste caramelle provenienti da lontano (Indonesia) di mantenerlo fresco. Spesso lo zenzero caramellato che si compra a prezzi proibitivi sulle bancarelle perde velocemente la sua forza, e ancora più spesso risulta tanto dolce da smorzare l’autentico schiaffo zenzerino.
Densità:
si tratta di una caramella morbida, intensa, resistente al morso. Si appiccica facilmente ai denti. Il sapore di zenzero permane a lungo.
Voto: 8 ai ginger addict consiglio vivamente questa caramella che offre comode possibilità di trasporto intercontinentale, che permette di estraniarsi per 5 minuti dal proprio luogo e immergersi nel ricordo del mercato delle spezie, su un ferry che pendola tra Asia e Europa, nelle vie trafficata di corpi e mercanzie.
(la caramella è strambamente acquistabile su Amazon.com)

Tabula rasa (1)

Sono in soffitta, se avessi un calidor sarei nel calidor.
No, non apro scatoloni di ricordi ammuffiti,
No, non vi ho riposto ingombranti elettrodomestici inadatti alla vita da sigle dipendente da caramelle gommose,
sono in soffitta ed ascolto la pioggia rumorosa di oggi,
soprattutto il brontolino così profondo del cielo, un lamento costante che sembra arrivare dritto dall’inferno.
Stesa sul legno sporco ascolto, controluce vedo granelli di polvere muoversi.
Scrivendo granelli di polvere subito mi sale alla mente un libro, non ricordo esattamente cosa, la parte di un libro in cui con maestose parole si descrivevano le gocciole di polvere costantemente nell’aria.
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dopo 10 minuti
Ecco, l’ho trovato!
Lo cito, da Crampi di Fausta Squatriti: […] di fare posare il granello di polvere virtuale che le sfarfalla nel campo visivo sovrapponendosi ad ogni altra immagine […]
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Ascolto la pioggia, penso all’umidità, a come l’umore diventi sospeso con l’umidità nell’aria, a come la pioggia scateni voglie di intimità, a come l’acqua scorra coi pensieri.
E poi spariscono le montagne quando piove, di colpo il gelso entra nella nuvola, il monte Baldo diventa solo un ricordo, il Creino, lo Stelvio… fotografie su un hard disk.
Bello dimenticarsi delle montagne certe volte.

martedì 20 luglio 2010

Personali limbi d'incomprensione

Marionetta 1

la donna marionetta numero 1 cammina sui tacchi, tacchi altissimi,
non è molto brava nel farlo e per questo la sua camminata si deforma, e la fa apparire ridicola, come un pagliaccetto trampolista, come un aquilotto che s'impunta con le unghie.
La gamba tende a non rimanere distesa e per una questione di logica ricerca automatica d'equilibrio (il corpo anche stavolta è più intelligente della marionetta che pensa a singhiozzo) e il ginocchio si piega un pochino, entrambe le ginocchia anzi si piegano e si avvicinano.
L'effeto è chiaramente quello di polpacci e piedi instabili a paperella. Solitamente il tacco altissimo è accompagnato da una gonna corta che mostra gambe ossute (secondo logica: a completare l'equazione tacco altissimo + gonna corta implica= ragazza particolarmente magra).
L'insieme è un insulto: alla donna pensante, all'animale capace, all'uomo che si desidera e pobabilmente si crede in questo modo d'attrarre (ma forse lo si attrae davvero...?! forse per un inconscio senso di forza e superiorità che si trasmette in tempo zero... forse per un sottile senso di ribellione e sfida alle leggi naturali della fisica... devo pensarci, tratterò prossimamente).

Eccezioni: ne conosco almeno 3, bellissime, e sui tacchi sembrano sfrecciare, marciare vittoriose, danzare.

martedì 13 luglio 2010

breve Lista del 13 luglio

- da molto tempo non faccio una lista, infatti non mi ricordo più chi sono, meglio, ho dimenticato chi voglio essere.

- l’acqua e menta è deliziosa a piccole dosi, ma dev’essere freschissima, altrimenti è troppo dolce.

- oggi ho spolverato una scatola che riportava la scritta: Σαρα / Μυστικό, l’ho aperta e conteneva:

* tre quaderni pieni di liste, note, appunti, pensieri, momenti, lezioni di lingua
* una catenina con croce ortodossa che un tempo scivolò fresca tra i seni bollenti
* biglietti di siti archeologici, di treni mai persi, di autobus dondolanti dove il controllore a ogni fermata gridava: “φύγε - fighe” quando poteva partire :)

- una persona, oggi, mi ha suggerito un'impellente riflessione: “…le frasi ci si ammucchiano dentro comunque in un modo che è ancora di un'altra specie rispetto alla voce o all'inchiostro”

venerdì 9 luglio 2010

La riverenza amara.



La cosa che più le impediva di gioire di quelle attenzioni non era tanto la paura, quanto piuttosto l’impressione quasi fisica, tangibile, che quelle attenzioni non fossero vere, non fossero sincere, e che addirittura non avessero verso di lei una spinta propulsiva reale.
Accoglieva con gioia i complimenti, rispondeva cortese e curiosa ai loro inviti, alle loro lettere, ai loro impulsi. Ma tutto finiva lì. A loro, i corteggiatori, bastava corteggiare. A loro, gli innamorati, bastava adorarla. Sembravano del tutto lontani dall’avanzare piccole richieste, anni luce dalla ricerca di un bacio, figuriamoci di un coito. Bastava loro sognarla, come cavalieri nel passato. Lei stessa iniziava a chiedersi il senso di tutte queste energie soffiatele addosso a prima vista del tutto gratuitamente, a uno sguardo più attento esse stesse bisognose di continua nuova linfa. Iniziava a chiedersi se quegli uomini avessero capito che non era il personaggio di un dramma amoroso, ma una persona in carne ed ossa, si domandava guardandosi allo specchio, se i suoi lineamenti non fossero forse troppo simmetrici per invitare ai morsi, s’interrogò a lungo sul perché generasse una tale riverenza nei suoi ultimi incontri. La Riverenza è un sentimento formale, caduto ormai in prescrizione, come il profondo inchino indica un timoroso rispetto, come tutti i timori pone una distanza, come tutte le forme di rispetto indica un contorno. Destava riverenza. Il solo pensarlo la faceva arrabbiare, il solo percepirlo la faceva giocare.  

Le conseguenze di su lei erano in primis l’utilizzo di tali immobili e platonici rapporti come palliativi di un amore vero. Dobbiamo immaginarcela circondata da attenzioni che da un lato la rendono un po’ capricciosa, dall’altro non la fanno sentire mai del tutto sola. Cammina con gli sguardi dei corteggiatori dietro la schiena, ammicca a chi ha di fronte per far ingelosire quegli stessi sognatori che vivono, nel loro altrove, nella vita vera, la loro vita vera. Cammina piena di loro, e allo stesso tempo vuota di sé. Perché sostengo vuota di sé? Perché lei stessa ha l’intuizione che ci debba essere qualcosa di fangoso in queste dinamiche similmente ripetute tra persone estremamente diverse. E questo qualcosa di poco chiaro, scrive ogni tanto tra le righe di un quadernetto giallo che ha sempre con sé, si chiama malleabilità. Si rende conto di aderire inconsciamente a chi, gli innamorati, a turno, vogliono che lei sia. Si plasma a loro ideale con una naturalezza che imbarazza lei stessa, scopre già mentre la trasformazione è in atto che si sta trasformando in un qualcosa che, come l’uomo che le sta di fronte, ancora non sa di essere. Anticipa addirittura la consapevolezza del desiderio dell’eroe romantico in questione. La cosa che la sciocca di più è il percepire quest’atteggiamento passo passo, senza poterlo fermare, e senza volerlo fermare (spesso ne è addirittura sorpresa, si sfida quasi: che forma assumeranno gli occhi stavolta?) – non è lei l’artefice di quella perfetta costruzione, ne è forse la vittima, forse la vincitrice.

Che sia un inconscio desiderio d’essere desiderata? Bisogno di conferme? Fame di quegli sguardi che sembrano contenere tutta la purezza e il rispetto di cui forse ha un gran bisogno? Inizia a chiederselo, da poco a dire il vero, da quando l’ennesima persona che le ha mostrato interesse si è proprio limitata a mostrare interesse. Mostrare. Questa potrebbe quasi essere la chiave per capire queste relazioni sospese in loro stesse e senza possibilità di sviluppo.
Mostrare: far vedere, esibire – sottoporre a giudizio altrui. Evoca questi atteggiamenti di cavalleria perché manca, per lo meno a prima vista, in lei, l’umanità - il corpo. Le mancano i pruriti, le mancano i cattivi odori, le manca uno stomaco, le mancano le unghie sporche e i denti cariati. Non le mancano davvero, ma ha scoperto il proprio corpo tardi, da sé, lentamente. Ha rinnegato per tutta l’adolescenza di avere un corpo, e poi di colpo lui le si è mostrato in tutta la sua bruttezza. Così lei ha dolorosamente preso atto della sua esistenza (di quel fardello), vi ha lavorato e l’ha cambiato - con fatica, passione, amore, odio, restrizioni, sacrifici, sudore. Ed ora, che il suo corpo è così come dev’essere, così, pronto a “mostrarsi” in tutta la sua fisicità, rimane corpo. Questa è la fregatura. Ha tolto i chili di troppo, ha tolto i peli fastidiosi, ha tolto le piccole ruvidità, ha limato i calli, riparato i denti, imbellettato le unghie, massaggiato le linee dei muscoli, riparato i capelli sciupati, abbracciato un profumo ormai suo. Ha trasformato-plasmato-creato il proprio corpo secondo modelli socialmente accettabili per poterlo anche lei accettare, ma non ce la fa. Deve urinare, deve mangiare, ha la febbre, suda, ha le mestruazioni, il raffreddore, deve defecare, starnutisce, ha la congiuntivite, si scotta al sole, richiede continue cure e manutenzioni. Senza rendersene conto nega al suo corpo la corporeità - eppure si sorprende quando vede quella stessa (qui tanto desiderata) corporeità nelle relazioni, a sua volta negata. Nessuno vuole vedere il proprio ideale coi denti cariati. Ce l’ha già detto mi sembra Kieslowski nel film Blu. E nessuno è disposto a sopportare di vedere la delusione innocente negli occhi di chi gli è di fronte.

Immaginiamocela quindi, bella, cammina per la strada con addosso gli occhi degli innamorati assenti, decisa in quel suo non corpo ideale - persone si girano a guardarla, perché è bella, perché ha quella luce negli occhi, per il buonumore, perché guarda il cielo e sembra respirare a pieni polmoni - la guardano perché lei sa che la stanno guardando e recita per loro, senza cattiveria, senza inganni - sente tutti gli sguardi dei passanti su di sé, e sente gli sguardi dei suoi fan su di sé, e le sembra di essere felice, e più lo è più si trasforma in calamita per altri sguardi--- e così la ritroviamo dopo qualche metro al bar, a imbastire senza rendersene conto l’ennesimo rapporto che porta già nel bocciolo un’autentica impossibilità a fiorire. L’ennesimo innamorato le siede di fronte, e per l’ennesima volta, senza volerlo, diventa ciò che lui nemmeno sa di volere, ma proprio ciò che lui vuole. Lui la guarda, sospira e senza saperlo le giura fedeltà, e senza accorgersene s’inginocchia come facendo una riverenza e le bacia i piedi (l’unica cosa che le bacerà, perché a casa, probabilmente, il cavaliere ha una famiglia o una compagna, o una relazione di qualche tipo).


NB: i riferimenti non sono causali, ma non sono nemmeno aderenti alla realtà (la protgonista per prima) - ricordi, dubbi, passioni, amori, errori qui si mischiano facilmente.

venerdì 2 luglio 2010

gelso

A volte mi sembra, per davvero, di riconoscere questo posto come casa.
Mi sento parte del gelso, un parte profonda, un elemento naturale del paesaggio,
una mora lì lì a maturare al sole.
Mi siedo alla finestra e riconosco ciò che vedo,
riconosco le stagioni, i cieli, i profili delle montagne a volte blu a volte verdi, ogni notte neri.
Conosco l'inclinazione che lo sguardo deve avere per capire se sta piovendo,
conosco l'altezza da mantenere se sono nuda e non voglio che tutto il vicinato lo veda,
so al volo se col vento d'oggi sbatterà la finestra.
In questo preciso momento mi sembra di poter rispondere chiaramente a Bonells quando si chiede:
"cos'è il paese natale? Una singolarità sorta dall'incontro tra un luogo e un essere?"
Gli risponderei che il paese natale è quel qualcosa che appena lo si incontra rilassa senza alcun volontario controllo i muscoli;
è un istante iscritto nel corpo e non nella mente, un riconoscimento che prescinde la ragione, incontrollabile - come quando le orecchie sentono l'inizio di una canzone che ben conoscono, e si scioglie qualcosa, dentro.
Corpo e luogo, per un attimo l'uno al sicuro nell'altro-l'uno parte dell'altro.

martedì 22 giugno 2010

Proprio lì dove fa male.


Succede sempre, è inevitabile, allo stesso tempo imprevedibile. Un gesto compiuto con la solita abitudine, un gesto normale, facile, curvilineo nell’aria, di colpo stoppato da un qualcosa che sta in mezzo, violentemente stoppato. Uno spigolo sparato lì dove fa male. Un passo interrotto nel ginocchio, una mano che sbatte forte contro un’anta semiaperta, la testa danneggiata da un millimetrico errore di distanza, l’ennesimo silenzio dopo una domanda che mette tutto in gioco.

Non colpisce un muscolo, ciccia, no no no, colpisce proprio lì dove fa male, quell’angolo di gomito che non si sapeva di avere, quel tendinuccio addormentato, quell’insicurezza che giaceva nascosta nel tentativo d’accettazione del sé.

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