martedì 24 maggio 2011

Non vedo l’ora di diventare bambino

Gigi Meroni nasce il 24 febbraio del ’43 e muore il 15 ottobre del ’67. Gigi Meroni fu un calciatore, ma secondo me sarebbe potuto essere chiunque volesse essere. Ah, era anche un innamorato, e qui, romanticamente, vorrei dire soprattutto.
Quando provo a scrivere le cose con ordine è perchè mi rendo conto che ho un subbuglio dentro, così è in questo caso, apro con la sua data di nascita e di morte, un paio di frasi per accennare alla persona di cui parlo... ma dentro, nella pancia, preme il sentimento. Si agita la voglia di dimenticarsi dei fatti, dei chi dei come dei quando (che in questa storia, meglio forse dire vita, sono davvero determinanti) e si sente l’impulso a buttare fuori tutto e subito. Si sente che esce dalle dita il fatto che è morto quando non doveva morire. Si sente che i lucciconi agli occhi già vestono di romanticismo (senso artistico-culturale del termine) una figura eclettica, originale, quasi per certi versi eccentrica, eppure semplice, eppure vera, eppure capace di un grande amore.
Ecco che torno qui, all’amore. Sì perchè di tutta la faccenda la cosa che più mi strugge è questo amore, tra lui e Cristiana. Un amore che la società che “innalza la verginità come valore” non permette loro di vivere pienamente. Son certa che chi non conosce la storia non può capire questo riferimento. E voglio che venga capito. Riinizio con l’ordine, chissà che non ne esca qualcosa di buono. Si conoscono per caso e s’innamorano, Gigi e Cristiana. Si innamorano di quegli amori grandi, di quegli amori di altri tempi, diremo oggi, ma forse a me piacerebbe dire di quegli amori rivoluzionari. La famiglia di lei la obbliga a sposare un altro uomo, lei lotta e prova a resistere, ma non ce la fa e si sposa. Però non consuma, si conserva illibata, non cede al povero marito (e dico povero perchè immagino non sia un tiranno brutto e cattivo, ma solo un uomo che si è sposato alla persona sbagliata e che comunque vive rifiutato...), poi finalmente, complice se non sbaglio uno zio, se ne va dalla casa coniugale e prova a chiedere l’annullamento del matrimonio. Numerose le visite per controllarne la verginità, anni previsti prima di una possibile dispensa da parte del pontefice. Ma la coppia, Gigi-Cristiana non molla, sta insieme, trova una mansarda nascosta, vive insieme, nella castità, nell’amore, nella speranza di poter costruire un futuro. E lei fa rinunce, e lui fa rinunce, e l’amore cresce. E il 15 ottobre del ’67 lui muore. Investito da un suo tifoso, futuro presidente del Torino Attilio Romero.
E uso parole altrui, perchè perfette così come sono, per dire quello che questa storia mi fa sentire:
“poi trovo davvero struggente la fisicità mancata del loro amore. Credo che un rapporto che non sia anche carnale sia davvero manchevole, carente di un fondamentale elemento di unione e conoscenza e sintonia e legame. Però nel loro caso è diverso. Il loro non far l'amore non è scelto, ma è obbligato, è necessario per poter riconquistare la libertà di Cristiana, per poter conquistare la libertà di potersi amare senza vincoli e ostacoli pubblici e privati. nel loro caso l'astenersi mi sembra un grande gesto di amore, di speranza, di condivisone di un sogno e di un futuro. Struggente pensare che  la morte  abbia loro impedito di essere l'uno dell'altra almeno per una volta.”
E infine cito un libro che è anche un dono, e che attraverso la figura del Ribelle Granata riesce a dare una pennellata realistica e critica a un tempo non distante eppure, per fortuna, già lontano.


mercoledì 18 maggio 2011

Lista sbrigativa, povera e trasversale sul corpo

- Stasera penso al non detto, al taciuto. Un taciuto che però non è inganno, un taciuto che è complicità. Quel taciuto che si sa e non si dice a volte per educazione, altre per non saperlo per davvero. Ecco la chiave, penso a quel che si sa con la testa ma non si sa col corpo.
- Penso anche alle attese, soprattutto quelle che vengono all'ultimo deluse. E alla delusione che ne segue, ma poi a volte vengono all'ultimissimo resuscitate, e allora la delusione si cancella e ci si ritrova a correre per la strada all'ultimo per raggiungere sudati un sogno che è stato nel giro di dieci minuti frantumato e incollato.
- Lo sguardo rimane anche dopo che l'orologio è stato tolto dal muro, il gesto rimane anche dopo che i capelli sono stati tagliati. A volte è il corpo che comanda. A volte?

mercoledì 11 maggio 2011

Appunti dal viaggio - l'amore in collina

La coppia segreta paga il biglietto del museo per darsi un bacio all’ombra della storia.
La coppia segreta si tiene timida per mano sulle stradine polverose della kali.
Lei tiene il velo ben stretto dai fermagli e il vento ondeggia solo la piccola gobba d’aria formatasi dietro la nuca, e un po' la veste lunga fino ai talloni. Lui giacca aperta e camicia bianca ha le scarpe lucide come una macchina nuova, anche i capelli.
Li vedo appoggiati a un pilastro. Li vedo ridere. Vedo il braccio di lui appoggiarsi alla spalla di lei, e cingerla. Vedo la testa di lei appoggiarsi alla clavicola un po' villosa di lui. Insieme guardano il niente. Insieme siedono in silenzio abbracciati. La coppia innamorata e non sposata non ha vita facile nel sud est della Turchia. Nemmeno la giovane coppia di esploratori occidentali ce l’ha. Le effusioni non sono apprezzate, così come soffiarsi il naso, ma l’uno è peccato, l’altro maleducazione, ai fini del paradiso pesano diversamente. La coppia innamorata nel museo a cielo aperto che sta sopra la città mi fa tenerezza. Non sono turisti in visita, sono innamorati. Non visitano la kali né leggono una guida, vogliono solo un posto dove, di nascosto dagli altri, appoggiare la testa alla clavicola e il braccio alla spalla e sentire il profumo del dopobarba lei, il sapore della fronte lui. Esplorarsi le mani pensando al futuro guardando la città tappeto stendersi ai piedi, a valle. La coppia innamorata, così, la domenica paga un biglietto, entra nella kali assolata, si siede all’ombra di un pilastro, che regge la vecchia colonna, e sta lì, a non consumare un amore per ora proibito. A ogni ombra che si muove il corpo ha un fremito leggero, il braccio invisibile scende alla pietra, la guancia appoggiata si scosta veloce, le mani si slacciano, le schiene si raddrizzano. Poi l’ombra passa, le labbra si sorridono complici, la guancia si riappoggia, il braccio ricinge, le mani s’allacciano, il profumo si espande, la città torna ai piedi, il calore passa tra le vesti e riaffiora sulle gote. Poi passeggiano un po’, e il vestito di lei quasi tocca terra, e il velo non si scosta, e la mano di lui si avvicina a quella di lei, la sfiora poi l’acchiappa, e lei lo guarda emozionata, e lui ricambia orgoglioso, e la polvere si alza sotto il sole, e le pelli sono scure e i corpi sono blindati.

lunedì 9 maggio 2011

posso affondarti ora, con la lingua tra i denti

Periodicamente torna nel mio orizzonte questa canzone, e quando la sento succede qualcosa nel busto. Un po' è dolore, un po' è commozione, un po' è la somma di ricordi miei e non miei che mi fanno sentire stretta nello stomaco. Ecco, credo che questa canzone abbia la chiave d'accesso alla memoria collettiva.

martedì 3 maggio 2011

Il tempo è la distanza più crudele

C’è un pensiero che non posso togliermi dalla testa in questi giorni. Volevo capire davvero il da dire, e poi scriverlo trovando un aggancio all’oggi, una riflessione sul tempo e sullo spazio, sul ritagliare un mondo che è vero se così lo si vive. Il punto è che ho solo alcune immagini e non riesco a concentrarmi per trarne conclusioni e cose sagge. Quindi ne uscirà un noiosetto insieme di ricordo e riflessione non strutturata, chiedo scusa già adesso.
L’immagine uno è una coperta, una vecchia coperta a scacchi, rossa e un po’ blu o nera, misura un metro e mezzo circa per lato, in un angolo c’è un contrassegno, un piccolo pesce ricamato col filo blu. Non so se è una coperta ancora presente, o è stata buttata o viene usata per coprire il fondo del trattore appoggiandovi utensili appuntiti e taglienti e sporchi. Il contrassegno del pesce credo fosse di mio padre, la copertina è infatti vecchissima. Come contrassegno avevo la prugna, l’ho sempre trovato terribile, e terribilmente ho vissuto fino alla fine delle medie il dover confessare che avevo un così brutto contrassegno. Alla fine si finisce sempre a parlar di contrassegni, perchè c’è quella che indica la tendenza che di certo aveva il castello di sabbia, la sua amichetta il panda dormiglione, le seguaci in ordine: la margherita dell’amore, l’arcobaleno scivoloso, l’altalena in volo e lo scrigno semiaperto. Di fronte a tali meraviglie la prugna mi creava sempre disagio. Torno alla coperta rossa e a quello che ha significato per me bambina. Ogni fine settimana si faceva un picnic, nel bagagliaio un paio di scatoloni, uno con cose utili al mangiare, uno con il cibo, la borsa frigo (che era una scatola frigo d'un verde intolerabile) e le due coperte, la mia fiammante e una un po’ marroncina un po’ arancio dei miei genitori. Si partiva. Potevo portare solo alcuni giochi, un numero limitato, forse tre, forse cinque; i libri non valevano nel conto. Portavo sempre Bamse l’orso bianco fatto proprio come un orso, gli altri dipendeva dal momento, spesso cose tecniche tipo lego. Si fermava la macchina, si camminava fino al prato, si stendevano le coperte a debita distanza. Sparpagliavo giochi e libretti sulla mia coperta, di solito all’ombra. I miei non so, sonnecchiavano, parlavano, leggevano il giornale. La coperta rossa in quei giorni era il mio mondo, meglio era la parte sicura del mio mondo, a volte una zattera, a volte un tetto, a volte una macchina, un tappeto volante, un’autoambulanza che salvava gli animali, un letto sospeso... era come se il mondo fosse pericolo e la coperta rossa il luogo sicuro. Io ero nel luogo sicuro e dovevo salvare, pensare a come muovermi per salvare, progettare il chi e come salvare. L’idea di un mondo, di una casa, di un rifugio che finisce nel perimetro di una coperta è magica, magica come l’idea che il mondo della notte nei boschi sia solo quello illuminato dal fuoco. Sarà che sono influenzata dai racconti delle infanzie altrui dopo che ho ripetutamente pensato e divorato Nel sonno non siamo profughi, forse è il timore che non si facciano più picnic che m’invita a rilanciare con energia il mio vissuto, forse è che leggo in quegli anni qualcosa di speciale, la capacità gratuita d’inventare, la sensazione così viva e reale di poter fare qualcosa per salvare il mondo, il tempo vuoto: un tempo mio, da riempire a piacere, sul rosso verde del prato coperta, da manipolare col gioco solitario della fantasia, da lasciar scorrere senza la pressione del devo. Ecco, se dovessi scegliere a posteriori un contrassegno sceglierei la coperta rossa a scacchettini: l’emblema dell’infanzia.

lunedì 2 maggio 2011

Lista del maggio iniziato, del tempo perduto

Oggi è stata una giornata ricca e difficile, le riflessioni veloci mi hanno lasciato solo qualche flash che provo a tradurre-fissare.
- la vertigine di fronte al tempo vuoto
- cutting: il dolore fisico e visibile forse è più tollerabile di quello psichico/emotivo
- Dio come vocazione a non smettere di essere esseri umani
- Perchè i versi non sono, come si crede, sentimenti, sono esperienze (Rilke)
- la mano sinistra ha imparato a memoria il tuo profilo nella notte dei dubbi, se avesse potuto avrebbe cancellato i timori, se avesse potuto avrebbe lisciato le giovani rughe, se avesse potuto avrebbe diffuso profumo di scorza d'arancia.
- Ziglit: l’urlo con la lingua, come quello di xena, come quello di donne astemie e velate nella sabbia.
- noia come forno che fa lievitare le idee
- quello che non c’è attiva la testa a come usare quello che c’è
- La nausea del disorientamento: lo stomaco si chiude, la testa s’inchina, gli occhi sebbene aperti entrano nel buio – ma prima d’entrarci vedono il mondo storto e non raddrizzabile, tutto si blocca  e persino la stortura cerca un equilibrio. La nausea è proprio la ricerca di quell’equilibrio, il frutto del non abbandono al buio e della progressiva perdita di lucidità nello spaziotempo del momento.
- La mia pelle / ancora non riesco a capire / se finisco sulla pelle o se sulla pelle comincio (G. Quarenghi)

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