mercoledì 27 giugno 2012

Holy Others - Asobi Seksu - Trails


Certi testi nascono nelle notti solitarie, certi testi sono solo frammenti di una lista -lunga e inutile- che escono con la canzone giusta, inevitabilmente impostata sul repeat.
  • Una notte ero stesa su una strada di villaggio, in un paese remoto della Bosnia. Era notte, era estate. Vicino a me c'era A. un'amica di sempre. Si guardava il cielo, forse a tratti si dormiva, parlavamo di libri di sicuro. Forse l'aria della notte era umida e fresca. Forse, nella prima casa dove sono stata nella quale bisognava togliersi le scarpe all'ingresso, qualcuno cantava o suonava la chitarra. Di certo qualcuno si dava la buonanotte, perché poi, rientrando piene dell'emozione del tempo insieme, del tempo sereno, del fresco come pausa al caldo isterico del giorno, abbiamo dovuto fare pianissimo per coricarci.
  • Nell'odiata città una notte andammo in bici. Ancora non sapevo andare senza mani. Le strade erano pulite e vuote, vuote, splendidamente vuote. Così vuote che la luna si rifletteva sul ciottolato. Io davanti, col cappotto leggero in pelle bordeaux, e i capelli che si strecciavano e ingarbugliavano e volavano. Lunghi, color luce. E vie contromano, e discorsi che non so più, e un vecchio noi fatto di gioco. E l'odiata città per un attimo era casa.
  • Il mare che fa rumore. Che è nero e giallo nelle notti di autunno. E che puzza e profuma insieme all'entrata della casa. Sul muretto che separa il cortile dalla spiaggia, punzecchiata da una pianta d'aloe prego che nessuno mi tocchi una spalla. Prego che il mondo resti immobile dov'è e mi lasci lì, a guardare il nero, a vedere pezzi di luna come vele all'orizzonte. Non voglio più parlare, né ascoltare. Non voglio fare l'amore, non voglio dormire con nessuno, non voglio essere come sono. È bello sentirlo a ogni onda avvicinarsi. È potente la sensazione di poter chiudere gli occhi e cancellare tutto. Scrivo un nome per ogni onda. Le spalle si fanno man mano più leggere.
    Anche oggi sono sopravvissuta a me stessa, penso soddisfatta.

martedì 26 giugno 2012

Un çai, mille çai, in attesa del corpo.

Un villaggio di donne in attesa, nelle stanze donne che piangono, che urlano, che pregano.
Il villaggio, quando un guerrigliero muore, si ferma.
Il villaggio, quando un guerrigliero muore, lo aspetta, chiuso nel dolore.

Donne nelle stanze piene di tappeti, i capelli nascosti, gli occhi gonfi. Le voci interrotte, ogni attività interrotta. Nel villaggio c'è tempo e spazio per il dolore. E il dolore è vissuto in ogni sua fibra. Lo si sente arrivare e lo si accoglie, mai da soli, mai da soli - come per ogni cosa. Nel villaggio il dolore è di tutti. E una mano stringe un altra mano, e una donna tiene salda nella realtà un'altra donna. E poi una carezza sul capo appoggiato alla spalla. E un çai, mille çai, in attesa del corpo.

mercoledì 13 giugno 2012

Apo // _____appunti 1#


Il materasso è appoggiato per terra, perpendicolare rispetto ai due letti.
Sul materasso giocano un bambino e una ragazzetta, sono fratello e sorella, lei avrà una decina d'anni, lui quattro circa.
Lei con le dita compone dei numeri, lui li deve dire. Loro parlano turco, il curdo lo capiscono, i genitori parlano curdo e turco, a Istanbul anche chi vuole parlare curdo parla turco.
Parte la ragazza con la mano aperta e lo guarda con aria di sfida.
Beş, cinque.
Aggiunge un pollice e un indice dell'altra mano.
Yedi, sette.
Toglie quattro dita.
Dört, quattro. (l'errore non viene colto, passa inosservato)
Apre entrambe le mani.
Attimo di silenzio e conteggio interiore... On! (dieci)
Güzel, bravo!
Poi mette indice e medio a mo' di V di Vittoria e lo guarda furba, Adesso ti frego sembra sottintendere.
Il bambino la guarda e risponde veloce: Iki, due.
Lei alza gli occhi, schiocca la lingua e ridendo sotto i baffi gli dice: Yok, Apo!
foto presa in prestito da FB.

domenica 10 giugno 2012

Il momento giusto

Parte il muezzin, le acque del Tigri cambiano colore a ogni cambio di luce, nel giorno sono marroni o verdi, al crepuscolo sono glauche come gli occhi dei saggi, la notte sono nere e sembrano feroci.
Parte il muezzin ma è giorno, le acque sono chiare e fresche, si è fatto un picnic sulle sponde, una coperta, bottiglie d'acqua per fare il cai bollendola su un falò, qualche pomodoro e cetriolo, un po' di carne del giorno prima. stendiamo la coperta sulla sabbietta, sotto un gelso di more dolcissime, cadenti e fin troppo mature. Il bambino va a pesca di granchi, chi gioca con l'acqua, chi prepara il tè sotto la calura, chi legge o chiacchiera. I vicini di albero ci donano una pentola di bulgur, qui funziona così, sorprendentemente, si condivide il cibo con tutti. ricambiamo con delle prugne verdi e acide, erik.
Mangiamo, fumiamo, riposiamo. Poi, all'improvviso Lui ci saluta, sta partendo. Il sole è a metà nel cielo, sembra un pomeriggio come un altro, sembra che niente debba finire e lui parte dal bambinuzzo pescatore e uno a uno ci saluta. Era qui da due giorni, un qui discutibile, perché l'amore doveva esser già finito qualche mese fa, ma anche lei era felice che fosse qui, per chiarire e parlare ancora, per essere vicini e salutarsi...
Ci saluta e vien da piangere anche me, ché è una persona bella, ché leggo negli occhi cose buone, ché indirettamente è parte della mia vita già da qualche anno.
Lui è sul ponte, in alto, sopra il Tigri che veloce spinge a sud; lei è sotto, a bordo del fiume. Piangono entrambi, soprattutto dentro, ma un po' anche fuori, si mordono il labbro, rughe sul mento. Si struggono perché finisce un amore, proprio adesso. Si pone l'etichetta fine. Provano un sentimento amplificato, di un amore che c'è ma non può compiersi, perché non è tempo, diranno tra sé e sé.
Lui guarda giù, la maglia a righe verdi e nere, un po' di pancetta nonostante l'età giovane; ha la pelle scura, gli occhi cioccolato, le sopracciglia che quasi si uniscono, lo sguardo buono; fa un cenno di saluto, il cuore pesantissimo.
Lei è giù, ventosa, azzurra, bianca, i capelli volano ricci e biondi, è piena di energie. Gli occhi sono rossi per il dispiacere. Forte è la convinzione di star seguendo il proprio destino. Forte è la fatica del seguire questa scelta mille volte rimandata.
C'è un filo che li unisce, che dal ponte va al fiume, lo vedo persino io, sono sguardi e sentimenti, è la totalità simbolica di qualcosa che si allontana e s'allenta fino forse a spezzarsi, appena finisce il ponte, appena in tempo -cinica aggiungerei.
Lui vorrebbe fermarsi, correre indietro, rifare il ponte, scendere per la strada di ghiaino e sabbia e more succose, vorrebbe raggiungerla sulle rive e abbracciarla, e prometterle di diventare tutto quello che lei vuole. Forse anche lei per un attimo teorico vorrebbe adesso che si fermasse, che tornasse in dietro, di sotto, che l'abbracciasse, e diventasse esattamente chi lei vuole. Ma se tornasse, se si fermasse, voltasse, scendesse... il sentimento si ghiaccerebbe in un solo istante. Lui diventerebbe un macigno, il peso di una persona che non la lascia andare. Se lui rimanesse, adesso, il distacco struggente di un amore passato diventerebbe l'incubo delle nuove spiegazioni di un infinito lasciarsi.
Ecco, lo sanno entrambi, anche per questo il filo si tende e l'amore rimane sospeso nell'aria, con tutta la sua forza e la sua dignità. E infatti si salutano con le lacrime agli occhi, e lasciano intatto il sentimento passato, la verità di un amore che è stato.

venerdì 1 giugno 2012

ıl vıllaggıo Parte 1/prıme due persone

1 La mamma da cui vivo è minuta e fiera. Porta vestiti di velluto pesante, il capo coperto di stoffa. Ogni risvolto del vestito brilla color argento. Nel villaggio le donne sono più eleganti che in città, hanno abiti preziosi, vivono in case dai tappeti morbidi e dalle lenzuola di seta. La madre da cui vivo è seconda moglie. I figli sono tredici, solo tre ultimi suoi, la prima moglie è morta. La mamma da cui vivo è piccola e tutta d'un pezzo. Cammina senza oscillare, passo dopo passo un po' come scivolano le giapponesi, le spalle e la schiena diritti, lo sguardo fiero. La mamma mi ha presa sotto la sua ala, mi vuole bene e me lo fa capire ogni volta che puö. Con tuttı e' severa, con me e' molto dolce. Ierı con ago e fılo mı ha fatto un buco all'orecchıo. Il fılo e' lılla e dı cotone grosso. Mentre lo faceva soffıava nel padıglıone, l'ago scorreva nella pelle, ıl filo scorreva tra le cartilagini. Come un'iniziazione, un rito.
2 İl migliore amico dell'innamorato della migliore amica è bello. Ha un corpo ben disegnato, un sorriso furbo, un colore arrogante. Ha la barba, i capelli neri, la pelle scura, le braccia muscolose di vita. Ha gli occhi che solo al sole sembran curcuma, le ciglia lunghe. È un combina guai, di quelle persone che a volte senza volerlo sono goffe e rompono le cose, scivolano inaspettatamente, si cacciano in situazioni improbabili, la stessa categoria di persone però che ne ride, che si fa una risata sull'errore. Lo conosco così, insieme combiniamo un guaio, piccolo; insieme ne ridiamo di gusto. Siamo sulla riva del fiume, il fiume va guadato, non si posson togliere le scarpe (il perché è ignoto), le pietre su cui saltare sono di certo troppo scivolose e rade. La migliore amica attraversa a cavallo, l'amico dell'innamorato della migliore amica riesce a saltare e mi guarda, accetto subito con lo sguardo di saltare come lui ha fatto. Mi tolgo la borsa di stoffa blu, ne allaccio i manici e mi preparo a lanciarla. La tiro in alto, con un largo margine sul fiume, lui alza le braccia per prenderla spingendola per sbaglio nel fiume. La borsa cade e il blu si fa nero, la borsa scivola e lui pronto s'abbassa s'allunga si sporge, la ferma la prende. Ridiamo, come due pazzi sulle due rive del fiume ridiamo di gusto.

E se dovessı morıre quı? (appuntı dı un gıorno dıffıcıle)

E se dovessi morire qui? E se dovessi morire qui, schiacciata da un cavallo alla fine di un giorno difficile e di una bellissima passeggiata in montagna? O forse cadendo da un dirupo, o sbattendo la testa su una pietra. Se dovessi morire qui dovrebbero trasportarmi fino al villaggio e da lì trovare una macchina e portarmi boh, in ospedale? Si riportano in patria i morti? Dove si mettono? Forse mi lascerebbero al villaggio e qualcuno andrebbe per la strada finché il telefono non prende e da lì avviserebbe la famiglia, e la famiglia forse lo direbbe a Diego, Anna dovrebbe avere il numero. Non è la caduta ad avermi colpito, è quello che ho visto cadendo. Ho visto sopra di me un cavallo e una persona, l'ho quasi sentito perdere l'onda così come l'ho persa io, aggrappandomi a lui e trascinandomelo dietro. E non ho avuto la prontezza di spostarmi, neanche un po'. È stato come un prepararmi al peggio. Due fragili braccia a coprire il viso, gli occhi che spiano nella croce. E ho pensato: No, non voglio morire in un villaggio del Kurdistan, non voglio morire qui, senza D, senza A, senza famiglia. Non voglio morir così, schiacciata da un cavallo. Non son pronta, niente è pronto a che io muoia. E infatti son qui, a provare a dire quello che ho capito. Ho capito che se uno vuole vivere almeno un po' deve stare attento, e avere rispetto di sé, e non buttarsi nelle mani di chi non ha idea di quali siano i suoı limiti. È stata una giornata lunga e difficile, in molti momenti ho creduto di morire, questo però è stato forte, e quel fianco destro di cavallo lo vedo ancora oscillarmi davanti, con C appesa. Ho avuto paura e se ci penso lo sento nella pancia, proprio lì dove sarebbe atterrato, sento una fitta di spavento, una fitta di come è facile non esserci più. Sono stanca e tutto il corpo è rivestito di freddo e di dolore, la pelle è bruciata dal sole e la schiena è lì che accoglie la botta della caduta, e il gomito sanguina, e le caviglie fanno male. Penso che se sopravvivo a cinque giorni così sarò pronta per tante cose. Penso di voler sopravvivere qui con tutte le mie forze. Non so se oggi ho dimostrato la mia forza o la mia debolezza, non lo so nemmeno nei confronti di me stessa.

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