martedì 4 novembre 2008

Solo un sussurro

Ore cinque. L’emozione che si prova tornando a casa quando sorge il sole, stanchi, poco lucidi, innamorati. Solo tre desideri: una doccia, un corpo caldo a fianco, una sigaretta ad accompagnare le ultime parole prima di addormentarsi. Il fresco che si sente uscendo dai locali affollati di fumo e sudore, il profumo di un’altra notte che finisce, l’aggrapparsi ad una mano appiccicosa, il sentire il peso di una notte deliziosa sugli occhi. Camminare in mezzo alle strade, ancor meglio se è piovuto di nascosto, prima; così l’aria sembra pulire i polmoni e le ultime energie sono perfette per infastidire le pozzanghere. Guardare avanti e vedere il sole, lento a salire – guardare dietro e vedere che è ancora notte. Giorno embrione, notte terminale.
Ore cinque, pronti a tornare a casa. Rendersi conto di aver perso una maglia e ridere perché si è felici, perché la maglia dimenticata è un baratto con il positivo che si sente, perché si poteva perdere il portafoglio, perché anche il mondo che va a rotoli ci ha concesso momenti superlativi. Usciamo dal locale. Sordità. Sorrisi ebeti tra di noi. Cervelli lenti. Amore ovunque. Nessuna macchina, silenzio, profumi di risveglio. Mi abbracci con la destra, chiudiamo anche l’ultimo bottone della giacca. Infilo la mano nella tua tasca, tiepida almeno quanto le coperte che tra cinque minuti ci proteggeranno.
Ore cinque, pianifichiamo il nostro futuro in silenzio mentre si fa giorno e camminiamo ormai nel sogno. Usare la parola oggi riferita a ieri, ripassare le cose da fare domani che è già oggi. Ore cinque, quasi sei, ormai. Casa, rifugio ospitale. Shhssshh, non svegliamo nessuno. Doccia di tre secondi, tanto per. Ultima sigaretta per congedarci dal sogno vissuto e sprofondare in quello incontrollabile del sonno. Musica impalpabile per cullarci ancora un istante. Seminudo e delicato mi baci la fronte, poi ti giri. Piumone fino al naso. Respiro sulla tua schiena e chiudo gli occhi. Solo un sussurro: buona notte. E veloce nasce il giorno.

giovedì 8 maggio 2008

Mr. Bartolozzi


Con le metafore è meglio non scherzare.

Da una sola metafora può nascere l’amore.

Milan Kundera

Ho capito di amarlo almeno mille volte negli anni in cui siamo stati insieme, ma ce n’è una che più di tutte ricordo come simbolica e densa di significato. Stavamo insieme già da due anni, quell’inverno abitavamo in una soffitta, eravamo ospiti di un amico. Nevicava tanto, era freddo, dormivamo su un materasso nel soggiorno, il pavimento era in legno e sdraiati potevamo vedere sopra di noi una finestra incastonata al tetto, la neve sembrava una pesante tenda bianca e se si cercava di pulirla aprendola nevicava anche sul letto. La sera quella finestra era così bianca da sembrare che la luna ci spiasse. Con questa piccola premessa contestualizzatrice sembra che tutto profumasse di rose e avesse i colori dei fiori, in verità era già un rapporto in crisi: continue liti per nulla di grave, nessuna intimità forse per pigrizia, mancanza di desiderio o privacy; pochissime dolcezze a rinforzare sciupati sentimenti. Gli unici momenti in cui ci divertivamo e ci sentivamo in contatto erano le lunghe ore di gioco al computer, uno contro l’altro, nella stessa stanza, bevendo gin tonic e amministrando legioni di guerriglieri pronti a sfidarsi. Essere consapevole di come il nostro grande amore si fosse trasformato in una pochezza abituale e mediocre mi uccideva. Quando ogni sera si addormentava lo guardavo, era tiepido. Sentivo le lacrime salire veloci agli occhi quando pensavo che il nostro era un rapporto in crisi e lui nemmeno riusciva a comprenderlo, sentivo un grande vuoto all’idea di abbandonarlo, allo stesso tempo mi sembrava inevitabile. Un mattino andò a comprare il pane; in fondo alla via, all’incrocio, c’era un piccolo chiosco con panini perfetti, morbidi e croccanti, stellati di sesamo o semi di papavero, sempre tiepidi. Io lo aspettavo seduta sul letto, in quel momento suonò una canzone, era di Kate Bush, il titolo non lo ricordo, ma era il nome di un uomo, forse Mr Bartolacci o Mr Bertoluzzi; era una canzone con una melodia tristissima, non capivo del tutto le parole, ma parlava di vestiti e lavatrici. Di colpo, ascoltandola, nella mia mente si creò un’immagine, lui non sarebbe tornato dal piccolo chiosco di panettieri ed io sarei rimasta sola, nel soggiorno, circondata dalle sue maglie vuote di sostanza, ma ancora feconde del suo odore, le avrei raccolte una ad una piangendo, le avrei odorate, le avrei messe in lavatrice e poi non avrei avuto il coraggio di lavarle, per non togliere il suo ricordo dai tessuti. Questa immagine mi era così straziante che iniziai a piangere, non riuscivo più a smettere, la vita senza di lui mi era negata, il suo odore mi avrebbe ricordato per sempre infiniti momenti, e ogni maglietta avrebbe tenuto vivi nella mia testa i suoi colori. Aprii la finestra e una brezza freddissima mi rinsavì per un istante, la neve si sciolse veloce sui miei capelli e si mischiò al calore delle lacrime. Mi rendevo conto che era un pensiero insensato, un’immagine forse creata dal subconscio per desistere dal proposito di chiudere quella storia purtroppo troppo insoddisfacente, eppure, l’idea di me china e in lacrime a spiare un oblò immobile di odori mi rendeva impossibile la razionalità. Il tempo passava e lui non tornava dal chiosco del pane, un misto di presentimento e follia, di preoccupazione e rabbia, impostai il repeat e continuai a piangere e ascoltare, a percepire la sua mancanza come inaccettabile, il suo odore come presenza insufficiente e necessaria. Mi tramortivo emotivamente ogni volta che il ritornello cantava: “washing machine, washing machine, washing machine”. La porta si aprì e lui mi sorprese nel mezzo di una tristezza davvero complessa da descrivere, forse impossibile perché dettata da un’immagine, da una metafora, da un’idea stramba e insopportabile. Si avvicinò veloce, mi abbracciò fortissimo, come se fossi una bambina che si è persa in un grande centro commerciale e non sa più che fare perché ogni persona sembra un gigante mostruoso, perché le gambe dei passanti sono ormai alberi che con i loro rami graffiano il viso, perché le scale mobili trascinano nelle segrete di un castello stregato e buio, e freddo. Mi abbracciò come intuendo che ero vittima della mia debolezza emotiva, come sapendo che la solitudine può uccidermi. Sentii la sua neve sciogliersi e mischiarsi alla mia, le sue scarpe avevano fatto una piccola pozzanghera sul pavimento in legno, mi ripresi, lo guardai e gli dissi solo: “non lasciarmi più da sola”, mi baciò la fronte e cambiò canzone, mi distese e si adagiò sul mio corpo. Il suo peso mi protesse, la sua carne era appoggiata alla mia e la sentivo premere le viscere, schiacciare i polmoni, ora ero al sicuro. Da una sola metafora può nascere l’amore sostiene Milan Kundera, grazie a una metafora il mio amore è sopravvissuto fino ad oggi.

venerdì 2 maggio 2008

La Cravatta Arancione

Non le era ma piaciuto andare dal dentista, fin da quando era bambina. Sdraiata sulla poltroncina reclinabile si sentiva a disagio, diventata ansiosa, il sangue le fluiva alla testa, il bavaglino le faceva mancare il respiro, il rumore del trapano la faceva svenire, l’anestesia amara le procurava dolorose emicranie, il sapore metallico dei ferri le faceva più male delle stesse carie, il fatto poi che qualcuno vedesse le sue imperfezioni orali e avesse l’ingrato compito di porvi rimedio la faceva vergognare. Andava una volta all’anno, solo quando la situazione nella bocca era insopportabile, solo quando ormai faticava a masticare, solo quando anche un sorso d’acqua poteva farla saltare dal dolore. Così chiamava la segretaria di turno e fissava un appuntamento, si recava nello studio, leggeva distratta le riviste auto-convincendosi che era dal parrucchiere, e poi entrava nella stanza, le gambe tremavano ogni passo, come se ogni centimetro l’odore che la circondava le penetrasse nei vestiti fino a corroderle le membra. Il dentista era lo stesso da almeno ventanni, vecchio, un po’ antipatico, silenzioso, non gli aveva mai visto le mani perché aveva i sempre guanti, una volta però lo aveva morso, lei aveva forse ventisei anni, doveva curarsi una carie da urlo, lui le fece così male che lei lo morse. A ricordarlo ora le viene il sorriso sulle labbra, ma in quel momento lui si era notevolmente arrabbiato, e, se non fosse stato il dentista di tutta la famiglia l’avrebbe cacciata, ma perdere cinque persone per un morso deve essere sembrato eccessivo anche al dott. Franchini. Puntualmente, allo scadere dei dodici mesi di libertà il premolare inferiore era diventato insopportabile, con la punta della lingua riusciva a sentire il buco che si era creato all’interno del dente. Si chiese se ci fossero dei timer piazzati in ogni otturazione, una sorta di piccole esplosioni impercettibili pronte a scatenare la nuova visita. Chiamò dall’ufficio il solito numero, lo stesso che nel cellulare era memorizzato come “dentista sadista” (questa buffa rima e il ricordo del morso erano le sue piccole rivincite!) ma questa volta rispose la voce di un uomo. Al contrario del sig. Franchini, che era sempre lo stesso, le sue segretarie cambiavano continuamente, mai vista la stessa per due volte a pensarci bene, l’ultima era una grassona piena di gioielli, sulla cinquantina, voce stridula; quella prima era una studentessa, dinamica, gentile, ma un po’ impreparata e confusa. Questa volta, composto il numero e atteso almeno una decina di squilli aveva risposto un uomo, voce profonda, assonnata. Rimase per qualche istante interdetta, non era la voce diretta del nemico (nonostante parlasse poco aveva ben chiara nelle orecchie la voce del dentista!), questa le era del tutto sconosciuta.

Si scusò per gli istanti di silenzio e disse: “Mi scusi se la disturbo, sto parlando con lo studio dentistico Franchini?” un lieve schiarimento di voce dall’altra parte e la risposta: “No, non che abbia sbagliato numero, è che, il dott. Franchini è morto due mesi fa, lo studio è chiuso e momentaneamente ci abito io ”. Di colpo si immaginò quest’uomo, sicuramente bruno, dormire sulle poltroncine, bere il caffé della macchinetta in sala d’aspetto a colazione, indossare il camice anziché la vestaglia appena sveglio, dissetarsi da quei bicchierini di plastica… le parve una prova di coraggio vivere in uno studio dentistico, circondati da quell’odore asettico, dalla sterilità di ogni cosa. “Le faccio le più sentite condoglianze, non ne avevo idea, la prego davvero di scusarmi” disse interrompendo la serie di immagini che le imbavagliava la buona educazione; “Non si preoccupi, non eravamo intimi, non ci vedevamo da molto tempo, ad ogni modo io rimarrò qui ancora per qualche giorno, devo decidere cosa fare dello studio. Visto che nemmeno voi eravate intimi, almeno lo immagino visto che non sapeva della sua morte, abbiamo già una cosa in comune, cosa ne dice di vederci per cena? So che le sembrerò invadente e presuntuoso, non ci conosciamo e lei potrebbe essere fidanzata, o addirittura sposata, magari è giovanissima o al contrario vecchia… non mi importa, è la prima persona che telefona, qui non conosco nessuno, vorrei solo fare due chiacchiere con qualcuno… le va?” Interdetta per la seconda volta nel giro di tre minuti, che fare, accettare? Rifiutare? Riagganciare? Insultare? Poteva essere pericoloso, in fondo è un perfetto sconosciuto, non so nemmeno il suo nome… d’altro canto. non ho progetti per stasera, potrebbe arrese curioso, una sorta di appuntamento al buio, magari in un luogo pubblico, di certo non nello studio dentistico…

“Mi scusi, come ha detto che si chiama?”

“Ah, è vero, nemmeno o so il suo nome, io sono Amedeo, e lei?”

“Io sono Amina”

“Bene, un’altra cosa in comune, i nostri nomi iniziano con la A, cosa ne dice allora? Facciamo alle otto davanti alla stazione dei treni? Mi scusi sa, ma è l’unico posto della città che conosco”,

“Va bene, alle otto in stazione, ma come la riconoscerò?”

“Vero! Non ci avevo pensato, guardi, io sono abbastanza alto, capelli scuri, indosserò una cravatta arancio, si, mi potrà riconoscere dalla cravatta”

“Ok, allora a dopo, arrivederci Amedeo” .

Riagganciato il telefono si rese conto di aver accettato un appuntamento con un uomo, un qualche parente del suo ex-dentista deceduto da due mesi, che avrebbe indossato una cravatta arancio. Si scordò completamente dei suoi problemi al premolare inferiore e fantasticò tutto il giorno sullo sconosciuto. Dalla telefonata le era parso ottimista, disinteressato, un po’ eccessivo, ma senza dubbio curioso. Finito il lavoro corse a casa, si cambiò e, accesa una sigaretta sotto la leggera pioggia, si avviò verso la stazione. Le gocce cadevano irregolari, le piogge estive le erano sempre piaciute, da quando era piccola e le guardava filtrate dai lampioni, e le sembravano cascate di brillanti luccicosi, saltava nelle pozzanghere e tremava il riflesso sporco che le proponevano. Davanti alla stazione risaltava la cravatta arancione, si avvicinò e disse: “Amedeo?” lui sorrise, “al suo servizio” rispose. Non andarono a cena quella sera, camminarono lenti sotto la pioggia, e chiacchierarono silenziosi delle loro vite, e di come la solitudine a volte faccia invecchiare prematuramente, saltarono tra le pozzanghere (da quanto non lo faceva!) e quando era ormai tardi lei lo riaccompagnò davanti allo studio dentistico. Si abbracciarono come amici e si ringraziarono per la serata liberatoria e senza doppi sensi. Amina tornò a casa con il tepore nel cuore, che bella serata, che semplice serata! Si addormentò ripensando a se stessa, prendendo di nuovo contatto con una parte nascosta di lei che gli avvenimenti le avevano fatto trascurare, la fiducia, la bambina, piccole gioie nascoste dietro alla parola libertà. “Si!” Si disse prima di andare a dormire, “è il momento di ritrovare la bellezza nei profumi e di vedere brillantini anziché semplici gocce di pioggia”. Il mattino seguente si risvegliò presto, andò al lavoro come ogni giorno e verso l’una telefonò allo studio dentistico per salutare Amedeo, le aveva detto infatti che sarebbe ripartito al più presto. Il telefono squillò appena una volta, una voce femminile e sensuale rispose: “Studio dentistico del dott. Franchini, come posso aiutarla?” di nuovo interdetta, qualche istante per riprendersi e disse: “Ma mi scusi, non è morto il dott. Franchini?” la voce con ironia rispose: “Come no! Ho più probabilità di essere investita da un asteroide mentre faccio la spesa che il matusalemme in questione di morire”, quasi sussurrando si scusò per il disturbo e prese un appuntamento per la settimana successiva. Ripensò per il resto del pomeriggio a quanto era accaduto nelle ultime ventiquattrore, non sapeva darsi una spiegazione plausibile e pensò di aver sognato. Finito il lavoro andò a casa e nella posta trovò una busta gialla, non aveva mittente né destinatario. Accese una sigaretta e si preparò un gin tonic, aprì la busta senza rovinarla, dentro c’era la cravatta arancione tatuata in lunghezza con delle scritte a pennarello nero:

“Amina, io parto tra poco, continua a saltare tra le pozzanghere e non smettere di cercarti, è stata una gioia conoscerti!

Ame

PS: immagino che il dott. Franchini sia vivo, ieri hai sbagliato numero, ti prego di scusarmi, non volevo mentirti, ho solo seguito il mio istinto. A volte abbiamo bisogno di fluirci come pioggia per riscoprirci vivi.”.

Con il pollice e l’anulare schiacciò la sigaretta nel posacenere, abbandonò il gin tonic quasi pieno sul tavolo e uscì. Questa sera non pioveva, il cielo però le sorrideva anch’esso pieno, come la pioggia, di brillantini, anche lei sorrise e riappesa la borsa alla spalla continuò a camminare in mezzo alla strada.

martedì 22 aprile 2008

MALEDETTA PRIMAVERA

Non si può rimanere tristi per sempre.

Continua a ripeterlo, come un mantra tranquillizzante lo sussurra tra le labbra, nessuno riesce a distinguerne le parole, guardandola sembra che preghi. Ogni volta che pensa di uccidersi accende una sigaretta e ripete la frase, guardando piccole nuvolette di fumo uscirle dalla bocca. Fuma solo quando pensa di uccidersi. Nell’ultimo mese ha fumato un pacchetto al giorno.

Era sempre stata un po’ instabile, fin da bambina, ogni cosa la turbava voracemente, ogni rimprovero era per lei un attacco alla sua persona, quando sbagliava si puniva da sola, le bastava considerare un proprio gesto “sbagliato” e smetteva di mangiare richiudendosi nel silenzio della propria stanza. Crescendo era diventata un più mite con se stessa e del tutto indifferente al mondo, aveva frequentato il liceo con risultati mediocri, avuto brevi e insoddisfacenti storie d’amore, iniziato e poi lasciato lettere, trovato un lavoro come commessa in una gioielleria e affittato un piccolo appartamento al primo piano del suo paesino.

Le piaceva l’inverno, specialmente quando nevicava: in quei momenti apriva la finestra e respirava l’aria gelida, la sentiva scendere ai polmoni, metteva della musica e se ne stava lì, incurante del freddo e del riscaldamento acceso, immobile ad ascoltare musica classica, con lo sguardo assorto dal lento scendere, con l’addome fresco di nuovi respiri, inerme fino a quando non si concludeva il cd; allora chiudeva la finestra e ritornava alla lettura. Leggeva moltissimo, per questo aveva scelto lettere; amava le parole altrui, amava i mondi fittizi in cui poteva rifugiarsi, divertirsi, rannicchiarsi, arrabbiarsi, vivere. Aveva da tempo accartocciato la propria vita per tante non reali. C’è chi trova la propria via di fuga nelle droghe, nell’alcool, nello shopping, nel ballo, nella bulimia. Lei l’aveva scoperta nei libri, in altre improbabili vite, nell’immaginazione altrui. Dopo qualche mese di università aveva capito che la passione trasformata in dovere perdeva le sue virtù, non poteva permettersi di perdere quell’unica vita, e così completò i documenti di rinuncia e continuò a leggere e vivere nelle parole.

La incontriamo mentre la primavera sta per arrivare. La primavera non le piace molto, quando era piccola, in primavera, aveva scoperto di essere allergica alle api e la disturbava pensare che qualcuno tanto “insensato” quanto un insetto potesse ferirla mortalmente. Ho virgolettato “insensato” perché dobbiamo pensare che era solo una bambina molto sensibile e che cercava semplicemente di giocare con il piccolo volatile bicolor, il fatto che questi poi l’avesse punta al braccio causandole una gita all’ospedale e l’iper-protezione genitoriale ogni giorno con bel tempo per almeno dieci anni dopo l’avvenimento, non poteva che irritarla e non farle riconoscere l’importante ruolo delle api nel mondo. Dunque non ama la primavera, apre la finestra e sente gli uccelli, rimpiange la neve e chiude veloce la finestra, non che il sole la disturbi, nemmeno gli uccelli, nemmeno i fiori, semplicemente questi fattori le sono indifferenti, o forse la fanno sentire più sola. Non che abbia paura della solitudine, anch’essa le è indifferente, semplicemente non le piace svestirsi, non le piace mangiare il gelato al parco, non le piace vendere gioielli ai nuovi innamorati.

Anestetizzata alla vita potremo dire, vorrebbe scomparire, vorrebbe non esserci.

È da un mese che fuma un pacchetto di sigarette al giorno, è da un mese che ogni giorno pensa di uccidersi, ha valutato moltissimi modi, del resto ne ha già sperimentato la maggior parte in molte delle sue vite: si è gettata sotto un treno, addormentata eternamente con i barbiturici, quindici incidenti stradali, dissanguata con delle lamette, annegata in due fiumi, tre mari e un oceano, impiccata a molteplici varietà d’alberi, è stata uccisa da alcuni cecchini, investita da almeno cinque macchine, una volta non le si è aperto il paracadute, un’altra le hanno gettato un asciugacapelli nella vasca da bagno, si è sfracellata al terreno dopo un volo di sei piani, sparata in gola, al cervello, al cuore e alle gambe, alcune volte è stata fatta a pezzi e gettata in ben quattro città diverse, una volta hanno venduto i suoi organi al mercato nero europeo. È già stata fucilata, ha messo la testa in forno, è rimasta chiusa in un frigorifero, calpestata da un elefante, sbranata da almeno cinque animali (uno de quali il cane del suo vicino di casa), e non molto tempo fa, mentre viaggiava con una carovana di zingari è stata colpita per sbaglio alla gola dal lanciatore di coltelli. Ha dunque una grande esperienza di morte alle spalle, ma questa volta, trattandosi proprio di una realtà che le appartiene le sembra più difficile. Non che abbia paura di soffrire, vendere i gioielli è per lei una tortura quotidiana, non ha nemmeno paura di lasciare qualcuno d’amato, si è ben guardata dall’amare qualcuno di carne, e non le importa assolutamente del dopo, è certa che la seguirà il nulla. Cosa allora la preoccupa? È semplicemente ambiziosa, vuole che la sua morte sia inedita, non vuole copiare nessun modo, vuole inventare. E così fuma sigarette in gran quantità e si ripete che non si può rimanere tristi per sempre, alla fine un modo lo troverà! Continua a documentarsi, ha interi quaderni di annotazioni e progetti, ma nessuno le sembra degno di realizzazione. L’idea giusta le venne un giovedì, per caso; aveva aperto la finestra per far uscire il fumo e tra i fiori del giardino aveva notato un’ape. Gialla e nera svolazzava sparpagliando polline, era piccola, ma per lei mortale. Iniziò a scrivere e fantasticare, farsi pungere nel giardino non sarebbe stato sufficiente, qualcuno passando poteva vederla e salvarla, l’ape magari non voleva pungerla il giorno prestabilito, magari una puntura non era sufficiente. Pensò e ripensò, sigaretta dopo sigaretta, preparò il tè e vi aggiunse lo zucchero e proprio in quel momento le giunse l’illuminazione: si sarebbe preparata un gin tonic, avrebbe cosparso il bordo del bicchiere di miele e avrebbe atteso che un’ape si appoggiasse su quell’invitante, dolce, piccolo cornicione, a quel punto, armatasi di coraggio avrebbe avvicinato il bicchiere alla bocca e avrebbe bevuto l’elisir di piacere e morte, l’ape sarebbe finita nella sua gola, per proteggersi l’avrebbe punta inpedendole di respirare mentre il bramato veleno faceva effetto. Le sembrava un piano magnifico, in solitudine, con il suo drink preferito, annientata dall’ancestrale minuto nemico! Sorrise compiaciuta, non aveva mai letto qualcosa di simile, la natura avrebbe vinto ancora, l’incancellabile istinto di un piccolo insetto avrebbe sopraffatto e compiuto la sua opera più grande, una morte nuova. La consapevolezza dell’ebbra morte le regalava buonumore, affidare alla natura il proprio suicidio le suonava mistico ed innovativo. Avrebbe attuato il piano nel fine settimana, sabato, o forse domenica. Venerdì andò al lavoro (il suo ultimo giorno di lavoro!) e tornando comperò miele, una bottiglia di gin, dell’acqua tonica, altre sigarette e un quotidiano locale. Quella sera non poteva leggere tanto era eccitata all’idea della propria poetica fine, a stento prese sonno verso le tre, dopo aver ripassato le semplici operazioni almeno cento volte; da anni non era tanto entusiasta per qualcosa. Il mattino seguente si alzò con un evidente sorriso, accese una sigaretta e sussurrò tra le labbra, mentre piccole nuvolette di fumo le uscivano dalla bocca “non sto più nella pelle, non sto più nella pelle…”. Non bevve il caffé, preparò il drink, aprì la finestra e lasciò entrare il sole, l’aria fresca, le mosche e un’ape. Contornò il bicchiere con il miele, si sedette sul divano e iniziò a leggere il giornale in attesa che l’ape eseguisse il suo compito. Gli articoli narravano tragedie insostenibili, blateravano di politica, reclamizzavano automobili e propinavano curiosi oroscopi, lesse il suo: “E' proprio la giornata giusta questa per farsi venire nuove idee e per iniziare nuovi progetti. Siete in tempo per organizzare tutto come si deve e per godervi in pace il vostro momento di gloria. L' importante sarà non correre troppo e non fare passi più lunghi della gamba.”. “Godermi il mio momento di gloria" sussurrò accarezzandosi le ginocchia, compiaciuta; anche gli astri la appoggiavano nel suo piano ingegnoso. Girò pagina, sempre tenendo d’occhio l’ape che svolazzava ignara del proprio destino, ma sempre più vicina al bicchiere, “eccoti”, esclamò vedendola appoggiarsi e trafficare veloce e precisa con le sue zampine. Veloce recuperò il bicchiere, lo avvicinò alle labbra e bevve un piccolo sorso di freschezza con ape annessa, la sentì nella bocca, e decisa fece per ingoiarla. Come previsto l’ape la punse. Riusciva ancora a respirare, forse l’aveva punta sotto la lingua, tutto il viso le pulsava tanto che era impossibile riconoscere l’esatto luogo avvelenato. Decise di tranquillizzarsi, riprese a leggere, l’occhio le cadde su un annuncio, si trattava di un concorso letterario. La finestra era aperta e il sole continuava ad entrare, guardò fuori e l’abete sembrò sussurrarle qualcosa. Non riusciva a capire le parole, né il loro significato, ma di colpo intese, l’albero le stava mostrando la sua via. Aveva vissuto tutte le sue vite tra le pagine di libri altrui, ora doveva fissare le sue pagine e essere artefice delle sue vite! Quanto sarebbe stato bello navigare e vivere tra i propri sogni, tra le proprie parole! Avrebbe potuto sperimentare altre mille morti, le più strane, le più imbarazzanti, le più cruente, avrebbe potuto decidere lei stessa chi era, come e dove, perchè non ci aveva pensato prima?!? Il viso pulsante non le impediva di sorridere, credendo di muovere le labbra sussurrò tra sé e sé: “vivere nelle mie parole, morire nelle mie parole, vivere…”

La vista iniziò ad appannarsi, si rese conto di avere pochissimo tempo. Corse in cucina (per quanto una giovane donna allergica alle api e punta in una zona indeterminata all’interno della bocca possa correre), aprì il mobiletto delle medicine (è sì, la nostra protagonista conserva le medicine in cucina, al contrario dei film americani che vengono propinati quotidianamente in tv, dove l’armadietto dei farmaci è sempre in bagno nonostante sia insensato se si pensa che nella maggior parte dei medicinali si dice: “tenere in luogo fresco e asciutto…”) e con la poca vista che le rimaneva cercò il siero, lo trovò e impacciata si fece l’iniezione. Con le poche forze rimaste agguantò il telefono e compose il numero d’emergenza, a quel punto svenne.

Ritroviamo la nostra protagonista in ospedale, è viva e con il viso ancora gonfio, apre gli occhi e come al solito vede il sole, li richiude e gioiosa si abbandona al potente fluido della sua fantasia, per la prima volta inizia a vivere.

sabato 19 aprile 2008

L ‘ I L L U M I N A Z I O N E

Quel mattino non si svegliò lento e svogliato come al solito, quel mattino aprì gli occhi e sorrise al giorno. Era presto come al solito, il tempo non era dei migliori, la primavera stentava ad arrivare, solo nel primo pomeriggio illudeva all’atteso cambiamento, ma ogni giorno era lo stesso, un po’ grigio, un po’ annebbiato, per molti piuttosto vuoto. Dunque si svegliò sorridente, pieno di energia, riposato. Si alzo e fece il caffé, non lesse i giornali e ripensò alla notte tranquilla. Era da mesi che non riusciva a dormire bene, sogni terribili lo svegliavano ripetutamente, sogni che si incidevano nella memoria, incubi indimenticabili, vermi che gli immobilizzavano il corpo, terremoti che lo seppellivano sotto le macerie, fiumi che lo intrappolavano sott’acqua fino a riempirgli i polmoni, roghi che lo carbonizzavano, voli che lo sfracellavano al suolo o sugli edifici. Quella notte nulla, nessun sogno, nessun risveglio nel sudore, nessuna conta delle pecore per riaddormentarsi. Bevve il caffé e usci a fare la spesa, a passeggiare, a respirare l’aria fresca e densa, a percepirsi come essere vivente in relazione al mondo. Si sentiva più bello, come se una sola notte tranquilla gli avesse cancellato le profonde occhiaie che da mesi gli facevano abbassare lo sguardo come trascinato al terreno dal peso della gravità che la perenne veglia colorava sotto i suoi occhi appannati. Si sentiva vivo e guardava il cielo neutro con speranza. Come tutti sappiamo è il nostro modo di porci al mondo a influenzare il rapporto che abbiamo con il mondo stesso e infatti quello stesso giorno il nostro protagonista fu investito da una generosa fortuna. Non parlo di piccole cose, come trovare dei soldi per terra (cosa che potrebbe più facilmente accadergli guardando a terra piuttosto che scrutando il cielo), o trovare parcheggio davanti al lavoro (cosa che fa sempre piacere, ma che cambia solo il corso di una giornata, non dell’intera vita); quel giorno di falsa primavera Giorgio incontrò Dio. Camminava a testa alta, sveglio e riposato, era andato a comprare qualche provvista, ma improvvisamente nel negozio era entrato un uomo con una strana maschera sul viso gridando a tutti i presenti (lui, la commessa del piccolo alimentari e un prete) che dovevano sdraiarsi e non muoversi. I tre, spaventati e piuttosto sprovveduti, avevano fatto esattamente quanto richiesto; Giorgio, con il naso contro al pavimento sporco, tremante e confuso iniziò a pregare. Era la prima volta che si trovava in una situazione simile: il rapinatore aveva una pistola e maneggiava con il registratore di cassa, la commessa piangeva rumorosamente, il prete non si muoveva, nemmeno il suo respiro era percepibile. Giorgio pregava silenzioso e un po’ affannato, come se capisse che i suoi minuti erano contati, pregava Dio di mantenerlo in vita, pregava che tutto finisse, si scusava per i peccati commessi, pregava per la salute di sua madre ormai vecchia. Di colpo si udì solo un mistico silenzio, una luce sovrumana inondò tutta la stanza e uno strano calore partì dalle viscere di Giorgio. Si chiese se stesse per morire, se gli altri percepivano le stesse stranezze, se stesse dormendo e come al solito fosse giunto il momento in cui il sogno si trasforma in incubo. Dal silenzio universale che lo circondava non giunse nessuna voce, ma nella sua mente, di colpo, come se qualcuno scrivesse a macchina comparivano le risposte ad ogni domanda. Lente e regolari comparivano le lettere che insieme componevano le parole, che raggruppate formavano le risposte alle sue domande.

N O N S T A I P E R M O R I RE. G L I A L T R I N O N P O S S O N O P E R C E P I R E. N O N S T A I D O R M E N D O.

Ma allora che succede? Si chiese Giorgio senza voce.

S E I S O T T O L A M I A P R O T E Z I O N E. N O N D E V I T E M E R E. D A O G G I S E I U N U O M O N U O V O, H A I U N A N U O V A L U C E.

L’aria d’oro che lo circondava sparì di colpo, così come la visualizzazione del dialogo nella mente, così come il silenzio immacolato. Attorno a lui sentì odore di pulito, il chiacchierio di alcune infermiere, il ronzio di alcuni macchinari medici. Solo quando la somma dei quattro sensi gli fece apparire chiaro che era in un ospedale aprì gli occhi, la testa era fasciata, un camice semiaperto copriva a stento le sue nudità, l’infermiera si avvicinò, gli sorrise e gli disse: “Stia tranquillo, ora sta bene, è svenuto nel negozio di alimentari e la commessa ha chiamato un’autoambulanza. Ha solo un lieve trauma cranico, ma già da domani, dopo alcuni accertamenti, potrà tornare a casa.”.

Giorgio sorrise come da mesi non faceva, aveva in sé una nuova luce.

mercoledì 27 febbraio 2008

PEEPING TOM


Era una giornata di metà febbraio ma l’inverno sembrava essersi già arreso, gli alberi erano spogli e non avevano alcuna intenzione di rivestirsi a festa, il vento sembrava ululare solleticando i rami, ma non era freddo. Camminava piena di speranze, di progetti, di sogni. Si sentiva nella primavera della sua vita. Lei, una giovane donna quasi laureata, anticonformista in punta di piedi, ma nel profondo del suo cuore, a momenti perfino innamorata della vita. Camminava senza badare al mondo, ma lo intrappolava ad ogni passo. Una fotografa. Una donna. Scattava rapida in ogni direzione, non era questo il momento più importante per lei, questo era solo il piacere degli odori, la sensazione del vento sulla pelle, il passeggero dolore ai piedi. Il lavoro vero arrivava a casa. Nella sua stanza, in un appartamento quasi in centro condiviso con altre ragazze guardava le immagini, e le sembrava di vedere per la prima volta la realtà, di possederla al dettaglio, di poterla modificare nei colori e nelle forme. Aveva scoperto la fotografia per caso, in aeroporto. I treni, così come le stazioni, come gli aeroporti e i porti sono luoghi magici. Persone di passaggio, vite in movimento, valige di speranze e vestiti, di rancori e lacrime, bagagli pieni di niente, ma necessari; oggetti catena tra passato e futuro. Saluti, abbracci, pianti, sorrisi, mani che si stringono, mezzi che partono, amici che tornano, amori che finiscono, sogni che sfumano, illusioni che brillano, concentrazione emozionale ingente tra presenze tanto abituali quanto invisibili. Mi sono sempre chiesta quanto destabilizzante possa essere lavorare in questi non luoghi, essere quotidianamente in contatto, addirittura al servizio di una tale mole di instabilità emozionale, non posso immaginarlo. Una volta però mi è capitato di aspettare una persona in aeroporto per delle ore. C’era il sole e tantissime persone, macchine che non trovavano parcheggio, bagni intasati tra carrelli e persone, aria viziata… fumavo sigarette all’esterno, poi rientravo, passeggiavo, guardavo i negozi, vedevo le hostess sfoderare gambe lunghe e stanche. Assaporavo il turbinio emotivo che mi circondava e di cui facevo parte, anche senza bagaglio. La nostra fotografa come me aspettava diligente il suo ex-ragazzo in aeroporto, aereo in ritardo, ore di attesa. Anche l’attesa è luogo temporale con una sua specificità, è carica a sua volta di speranze, paure, sensazioni, pensieri. Si aspetta una persona, un autobus, si aspetta nel supermercato magari solo per acquistare una lattina, in coda dopo sei carrelli stracolmi di prodotti, si aspetta dal dentista, si aspetta la fine di un’operazione, si aspettano notizie, si aspetta la fortuna, i ritardatari, la comparsa di risposte, la fine di una lezione noiosa, l’inizio del film, una telefonata importante. È uno dei motivi più ricorrenti della mia vita quello dell’attesa, uno dei più suggestivi, uno dei più profondi e proficui, lo paragonerei all’istante in cui ci si sta per addormentare, i pensieri fluiscono veloci, analizzano inconsapevolmente tutto l’esterno e lo intrecciano alle emozioni, alle nozioni e ai sogni; i progetti vengono partoriti e poi dimenticati nella loro interezza, ma abbandonano il profumo della consapevolezza, nidificano nascosti, si aggrappano in silenzio all’animo, pronti a riaffiorare, a contagiare. La nostra fotografa aspettava l’aereo, o meglio, aspettava quello che a quel tempo era il suo ragazzo. Passeggiava annoiata avanti e indietro, guardava il tabellone con gli orari, ogni tanto usciva a fumare una sigaretta, osservava le persone e beveva tè freddo al limone. Vide una donna bellissima seduta sulla lingua di plastica rossa (le sedie degli aeroporti mi ricordano da sempre delle lingue… inquietano un po’…), era slanciata, luminosa; leggeva un libro ed era così immersa da non accorgersi che il vecchio uomo che stava presumibilmente aspettando le si stava avvicinando stanco e un po’ avvilito per il poco sentito benvenuto, le si avvicinò e le toccò una spalla, lei alzò lo sguardo e sorrise. Alla vista di quel sorriso la nostra fotografa rimase ipnotizzata, non aveva mai visto nulla di più radioso, semplice e naturale. La strana coppia si allontanò verso l’uscita e incapace di qualunque movimento lei li seguì con lo sguardo, poi gettò un’occhiata alla lingua sproporzionata e vide una custodia nera, probabilmente dimenticata. Si destò e rincorse il vecchio e la bellezza fatta donna per consegnare il cofanetto, quasi scivolò sulla cera, arrivò all’uscita, indagò pronta ogni persona, ma non li scorse, volatilizzati, probabilmente in una Bmw. Tastò l’oggetto e immaginò fosse una macchina fotografica, lo aprì cercando di non bruciarlo con la sigaretta che si era appena accesa e la vide. Era una macchina fotografica vecchio stile, pesante e precisa, nera nella parte superiore e ricoperta in pelle nella parte inferiore, sorrise tra sé e sé e tornò ad aspettare. Vi chiederete se basta trovare una macchina fotografica per scoprire di avere la passione della fotografia, non lo so, io credo nei segni e credo che potrebbe esserlo, ma la nostra fotografa no, non ci crede del tutto, o meglio, non se lo è nemmeno chiesta è semplicemente tornata ad attendere il suo ex-ragazzo. Come abbiamo già detto il tempo dell’attesa crea pensieri incontrollati che nidificano nel cervello, nel cuore, nel corpo, così è stato anche per lei, è tornata a casa, ha nuovamente esaminato l’oggetto (mi sento di sottolineare che non ha fatto parola del suo ritrovamento al ragazzo) e ha notato che al suo interno c’era un rullino, lo ha portato a sviluppare e nuovamente ha atteso, questa volta con la brama della curiosità a solleticarle i sogni. È alla vista delle fotografie che lei ha capito quanto grande sia il potere delle immagini e ha deciso di accettare la sfida. Ha sfogliato le fotografie una a una, sentendo la carta liscia e spessa tra le mani, ha sentito il desiderio di piangere e ridere, le sembrava di percepire i profumi e i suoni, le sembrava per la prima volta di vedere il mondo secondo un punto di vista prezioso. Da quel preciso istante ha deciso a che cosa voleva votarsi, qual era il suo scopo. E cosi la rivediamo mentre cammina assorta dai suoi sogni e programmi, la vediamo scattare decisa e inesatta mentre pensa a cosa cucinarsi per cena, alla telefonata di sua madre alle sette e mezza in punto o al nuovo taglio di capelli della sua coinquilina. Sembra essersi dimenticata il momento in cui è nata la sua passione. La macchina fotografica che usa adesso è digitale, attraverso le foto ha rintracciato miss splendore e il vecchio e restituito tutto, sorpresi e abbagliati dalla sua energia e onestà le hanno offerto in cambio un lavoretto nella loro rivista di scienze naturali. Eccola, si appoggia al bordo del muretto che si affaccia all’Arno, abbassa la testa e cambia qualche impostazione, il vento le scompiglia i capelli che le nascondono il viso, la borsa le scende dalla spalla, il sole sembra ricavare luce dalla sua forza, scelto il seppia guarda a destra, a sinistra, attraversa il ponte e si accende una sigaretta, guarda l’orologio, è in ritardo per la lezione.

Questo testo è dedicato a Marika e a Jenni,

giovani donne e Amiche importanti,

due anime che attraverso la loro passione

rendono il mondo più bello,

due occhi diversi che non hanno paura a mostrare ciò che vedono,

a voi queste poche righe e tutta la mia stima.

sp

lunedì 25 febbraio 2008

MURA DI NEBBIA - testo di Sara Passerini -

Questo è il racconto vincitore per il concorso letterario Nuove Storie Ferraresi, pubblicato da Corbo Editore. (http://www.corboeditore.it/NuoveStorieFerraresi.html)


MURA DI NEBBIA

1.

Pur di non pulirmi gli occhiali guardo di traverso, scruto un mondo obliquo e in movimento tra un alone e un’impronta. Ho gli occhiali solo da qualche mese, la prima ed ultima volta che li ho puliti è stato un mese fa con una spugnetta abrasiva, non credevo che fossero tanto delicati, le lenti si sono rovinate e per un mese ho guardato un mondo striato. Li ho comperati con la montatura tonda, larga, nera, volevo sdrammatizzare. Guardare il mondo attraverso gli occhiali è un modo curioso di vivere, fa riflettere sulle cose. L’altro giorno per esempio, concentrandomi, riuscivo a vedere chi era seduto dietro di me in autobus, mi sono sentito una spia in missione, come quei vecchi investigatori che fanno un buco nel giornale quotidiano per vedere senza essere visti. I miei non sono occhiali da vista, hanno lenti non graduate; a mia moglie non l’ho detto; semplicemente un giorno sono tornato a casa con il viso rivestito a nuovo. Per uno della mia età non è facile rinnovarsi, i capelli non ci sono più da tempo, la pancia persiste e gli esperimenti con la barba sono da evitare, inoltre non mi verrebbe mai in mente di iniziare ad essere elegante o sportivo. Ho optato per la soluzione più comoda e ad effetto: gli occhiali. Avrei voluto fotografarla quando l’ho salutata con il mio nuovo sguardo da vecchio intellettuale, mi ha scrutato a fondo e visceralmente ha riso di cuore. Da quanto tempo non la vedevo ridere così! Si è avvicinata al mio viso ed evitando il suo riflesso sulle lenti mi ha chiesto da quanto tempo io non vedessi bene, “già da un po’” le ho risposto vago, godendo del suo profumo così vicino. Ancora una volta ha sorriso, mi ha dato un bacio lasciando l’impronta del suo naso sulla lente destra e mi ha detto: “ti stanno bene, sembri un politico”. Mia moglie era bellissima ventenni fa, la più bella; ci siamo conosciuti in treno, io andavo a Ferrara per fare il testimone di matrimonio ad un amico, lei andava a Roma, a trovare sua madre, sedevamo l’uno di fronte all’altra, la giornata era calda e nel treno soffocante, lei si guardava attorno e sventolando un giornale si rinfrescava, io leggevo distratto un libro sul legno di cedro. Il legno mi ha sempre affascinato, ogni legno ha un suo colore caratteristico, una resistenza determinata, una flessibilità specifica, un profumo “personale”; il legno di cedro ad esempio ha colore rossiccio e si fessura con facilità. Dimenticai il libro sul treno, lei se ne accorse e scese veloce per portarmelo, il treno ripartì senza di lei.

2.

Il fumo scivola lento fuori dalla bocca, oggi il freddo di Parco Massari penetra nelle ossa. Cammino incerto se andare a lezione o meno, visto che non ho alternative migliori forse andrò. Per l’ennesima volta parleremo di Bassani e della sua ricerca lessicale; io non riesco sinceramente ad apprezzarlo come forse dovrei, mi sembra che solo un forte desiderio di autocompiacimento cittadino abbia potuto incoronarlo e idolatrarlo con l’oro della storia letteraria. Solo una città come Ferrara può esalare un tale scoraggiamento di fondo, quell’esclusione presente a chiare lettere quasi in ogni suo racconto; in questo siamo simili, io e Bassani, per lui questa città è il luogo della memoria, per me ha smesso di vivere già da un pezzo.

Ferrara si cuce addosso ogni piccola vittoria, anche a costo di ferirsi con gli stessi aghi che ne ricamano a chiare lettere i minuscoli pregi. È come se avesse ormai così poco da offrire che ha smesso di guardare avanti, le basta guardare in dietro al suo poco più che mediocre passato. Vive di turismo da terza età e i suoi giovani sono così indottrinati dalle coccole famigliari che non pensano un solo istante a varcare le mura per approfondire l’esterno. Si limitano a correre su quelle splendide mura, ammirare la propria ombra allo scendere del sole, sempre più in forma per “il Pelledoca”, sempre più striminziti, quanto basta per entrare nell’ultima moda cittadina. Si aspetta il mercoledì per l’aperitivo in piazza, e il sabato si scappa a Bologna, perché Ferrara offre troppo poco. Ho vissuto l’identità ferrarese da esterno, e nonostante lo abbia fatto solo per tre prolungati ed interminabili anni, ho continuato a viverla da esterno. Questa città non ama gli estranei, li respinge nei suoi angoli più bui, li lascia soli. Ferrara si lascia morire e tutti guardano compiaciuti il suo decesso. La poca cultura presente è propagandata come d’elite, il “Buskers Festival” tenta un’apertura, ma è ormai così indottrinato e strumentalizzato da far diventare l’arte di strada un puro diletto per quarantenni lampadati. Le zanzare mangiano gli animi e i corpi, la nebbia seppellisce le emozioni, il polline rigonfia i polmoni di egoismo. Sono arrivato a Ferrara tre anni fa, non sapevo cosa aspettarmi e di certo non pensavo al peggio, ma Grazia, la colpevole della mia migrazione, mi ha gentilmente liquidato un mese dopo il mio arrivo. Dopo tre anni qui conosco cinque persone: John, un ragazzo africano che vende libri ogni mattino davanti alla cattedrale, Silvia, una ragazza trentina che studia giurisprudenza ed odia tutto questo quanto me, e tre spagnoli che dopo il loro erasmus hanno deciso di rimanere per opportunità di lavoro. Perché io rimango? Me lo chiedo ogni giorno, ormai ho iniziato a studiare qui, una stupida scelta legata all’amore sta mortificando la mia vita, non posso tornare perchè sarebbe come fallire; preferisco rimanere e lottare.

3.

Quando scende il sole, Ferrara ricambia il suo sorriso; passeggiarvi è una gioia nella prima primavera, il suo acquedotto invita immigrati e badanti a chiacchierare, i bambini giocano e ridono di gioia, la cattedrale fiorisce di bianco e le case mattoneggiano di arancione. L’aria non è troppo inquinata, il centro è veicolato in modo limitato, la gente predilige la bicicletta e in ogni angolo sostano bici colorate. I negozietti invitano al buon umore e alle spese pazze, Via San Romano è pericolosa per l’alta velocità su due ruote e si potrebbe danzare al suono dei campanelli delle bici che tentano di farsi spazio.

Ferrara in alcuni giorni d’autunno permette di pensare, le foglie che cadono accompagnano le passeggiate e lasciano trasportare i problemi lontano. Piazza Ariostea ai primi soli si riempie di persone che giocano a calcio, di universitari che fanno una pausa o si scambiano appunti, di bambini che mangiano il gelato; per me si riempie di ricordi. Mi sono sposata qui vent’anni fa, sono scesa dal treno per riconsegnare un libro all’uomo che sul vagone sedeva di fronte a me, il treno è ripartito ed io mi sono innamorata di lui e di questa città. Ci siamo sposati qualche mese dopo ed abbiamo deciso di vivere qui, nel luogo che ci ha fatti conoscere, nella città che ci ha fatto innamorare. Sto bene, Ferrara mi da tutto ciò che cerco, sono circondata dal benessere, le mie amiche sono bellissime donne di mezza età che sottolineano la calda essenza di questo luogo, ci vantiamo dolci sfoggiando l’eterna voglia di giovinezza, andiamo a teatro ogni settimana; gli uomini sono sempre abbronzati, gioviali e con un giornale in mano. D’estate Ferrara sembra vuota, in realtà è popolata di persone in vita grazie alla climatizzazione, persone che solo verso sera escono a camminare sulle mura o bevono l’aperitivo quotidiano. Ci sono giorni in cui Ferrara appaga di serenità e senso di sicurezza, giorni in cui sembra di volare a cavallo di una bici, giorni in cui le librerie del centro tengono aperto fino a notte tarda e il formicolio che le popola fa sentire vivi. La cosa che amo di più di Ferrara sono i piccoli negozi di antiquariato, sono così pieni di chincaglierie deliziose da far commuovere. Spesso sono nascosti e si possono raggiungere solo per caso, perdendosi nelle strade ingioiellate del centro, percorrendo piccole viuzze ai lati del cinema, cercando la meta ignota di un pomeriggio di tranquillità; basta scovarne uno per parlare a lungo con il proprietario, quasi sempre volenteroso e propenso alla conversazione. In questi frangenti a Ferrara è possibile conoscere la storia del mondo e di chi la popola, tra un bicchiere di cristallo e una spilla a forma di cavalluccio marino, è piacevolissimo ascoltare uomini ormai anziani, al corrente su tutto ciò che li circonda. All’inizio dell’inverno capita di alzarsi il mattino e scoprire, alla finestra, che l’aria è diventata un soffice muro bianco; se si esce in bici ci si troverà umidi e ricoperti di un senso di solitudine gocciolante, pronto ad asciugarsi con un perfetto cappuccino al caffè Europa, se si esce a piedi si può assaporare sulla pelle una sensazione di lentezza. La nebbia di Ferrara è inimitabile nei giorni di tristezza, alimenta la metereopaticità di chi la vive e limita il senso di incomprensione. Il primo inverno a Ferrara è fatto d’immensa compenetrazione tra anime depresse e tempo atmosferico, ma se non si è soli, offre infinite possibilità di rimanere in dolce intimità con chi si ama, ringrazio gli inverni nebbiosi per avermi fatto conoscere la più grande intimità con mio marito.

4.

Ferrara è così statica che se la famiglia Estense tornasse con salto temporale a visitarla la riconoscerebbe. Niente si evolve, niente si muove; il Boldini continuerà ad esserci, l’università potrà forse perire in qualità, ma senza dubbio nessuno ammetterà il suo fallimento, il caffè Europa rimarrà sempre dov’è e la sua fama crescerà senza motivo solo per mancanza di vera concorrenza. Ferrara aspetta silenziosa il suo invecchiamento senza rendersi conto che già da un pezzo è decrepita. Ogni viaggio in treno per raggiungerla sarà sempre più scomodo e per ogni tratta si dovrà cambiare in una stazione maggiore, non solo per il generale disagio dei mezzi pubblici italiani, ma perché, semplicemente, Ferrara è meta di chi ha un adorabile macchinone da parcheggiare senza ritegno appiccicato ad altre cento macchine da star. Mentre il mondo continua e l’età dell’oro per la vecchia città è ormai passata, Ferrara non si accorge che sta diventando pietra calcarea. La sua piaga è il perbenismo di chi la abita, la cecità delle persone che la vivono, l’autocompiacimento lesionista di chi non conosce di meglio. Certo, vivere da ricchi a Ferrara non presenta lati negativi, soprattutto se non si cerca il contatto sincero con le persone: è per eccellenza la città di chi vuole restare solo. Per i poveri malcapitati che per sfortuna del destino amano la convivialità, il “paesone” in questione offre solo relazioni di terza serie con chi suo malgrado è nella stessa situazione o una profonda superficialità con chi è del luogo e si barrica in circoli inattaccabili e irraggiungibili. I malcapitati senza grandi mezzi a disposizione potranno facilmente trovare alloggio con gli immigrati emarginati ai “grattacieli” vicino alla stazione, lavorare nel settore agrario nei comuni limitrofi avendo quotidianamente problemi negli spostamenti, e sperare che l’appartamento offra un minimo di protezione all’umidità fredda invernale e a quella torrida estiva. La solitudine paranoica da cui sono rivestito da tre anni a questa parte rischia di diventare patologica se non trovo una via di fuga. Ricordo il mio primo giorno in questo inferno, scesi dal treno per fare una sorpresa a Grazia, cercai di raggiungerla in Via Savonarola dove alloggiava, era settembre e faceva caldissimo, avevo il mio bagaglio pesante ed ho dovuto trascinarlo nell’arso rischiando di essere investito da almeno un centinaio di biciclette, sono arrivato sotto casa sua a fatica e dopo essermi perso almeno una decina di volte grazie all’avara disponibilità delle persone. Ricordo anche come lei fosse bella quando stupita mi guardava dalla finestra, ricordo il suo sorriso e la sensazione di chiusura alla pancia che provai alla vedendola, ma questa è un’altra storia.

5.

Solo quando scese dal treno per riconsegnarmi il libro mi accorsi di quanto fosse bella, ricordo che portava un vestito a fiori rossi, lungo a tre quarti sulla gamba. Quel giorno perse il treno, mi sentivo colpevole e raggiante per questo imprevisto, la invitai a prendere qualcosa da bere con la scusa di trovare un telefono per avvisare sua madre, quel giorno chiacchierammo a lungo, iniziammo a scoprirci. Qualche mese dopo ci sposammo e decidemmo di vivere nei luoghi della mia infanzia, quegli stessi luoghi che sembravano così di buon auspicio all’amore. Ci sposammo in Piazza Ariostea e credo che per inaugurare una nuova unione non avremmo potuto scegliere posto migliore. Era una giornata di sole, lo stesso caldo sole che ci aveva fatti incontrare, lei era luminosa e splendida vestita di bianco nel verde secco della piazza ovale e Ariosto proteggeva la nostra unione. Ogni anno assistiamo al palio, sediamo sui gradoni che vengono allestiti e tenendoci per mano guardiamo il nuovo perpetuarsi di questa tradizione festosa. È sorprendente vedere quanto per i giovani siano importanti queste manifestazioni, è come riuscire a vedere le radici di una cultura dai fiori che produce. Nel periodo di primavera basta passeggiare in Via Garibaldi per vedere sbandieratori e musicisti che si allenano, che provano e riprovano un’arte che senza di loro scomparirebbe. Purtroppo io e mia moglie non abbiamo avuto figli, ma quando vedo tutti questi ragazzi e il loro impegno sento l’emozione di un padre. Ferrara mi ha fatto conoscere mia moglie, me ne ha fatto innamorare e ci ha fatto vivere una vita serena circondata dalla semplice bellezza dei giorni, certo il nostro amore in molti momenti è diventato una dolce abitudine, ma basta soffiare sulla polvere che si crea per capire come stiamo bene. Quando eravamo giovani avevamo una bici, noi la chiamavamo la rosa nera, aveva il manubrio piatto e argentato, risplendeva sgargiante nella sua lacca nera mai intaccata, le ruote erano ampie e sottili, il sellino in pelle era comodo, ricordo che facevo sedere Linda sulla canna e pedalavo veloce attorno alle mura, lei rideva e mi abbracciava con tutte le sue forze, io gustavo il suo tocco bisognoso di protezione, la sua risata vicino al mio orecchio, i suoi capelli spinti dal vento contro il mio viso, il profumo del sole e della fatica. Volavamo attorno alla città sulla nostra rosa nera e questo era tutto ciò che volevamo.

6.

Quando chiedo informazioni nessuno mi risponde, tutti mi guardano dall’alto in basso e non so se è a causa del mio accento meridionale o a causa dei miei vestiti fuori moda, forse è solo a causa del mio sguardo insoddisfatto e provocatorio. Le lezioni continuano regolari e vuote, anche l’inverno sembra non finire. Le giornate si susseguono tutte uguali, tutte tristi e in solitudine, forse sono io a non adattarmi. In questi giorni ho passeggiato a lungo tra le vecchie case rosse, avevano un’aria così austera, le strade sembravano deserte, e solo un po’ di nebbia mi faceva compagnia. Stare solo, a volte, non è tragico come sembra, vorrei solo che fosse una scelta e non una condizione perenne. Mi sto affezionando a questo luogo senza tempo, per quanto non mi piaccia ed io viva male ho la consapevolezza che è solo una condizione, spero temporanea. Sono venuto qua per amore, forse per un'infatuazione valutando con il senno di poi, Grazia era stata in vacanza da me, era così perfetta nelle sue forme, aveva un accento chiuso che la rendeva semplice, sembrava disponibile ad uno scambio sincero; mi ha fatto credere che qui sarei stato bene, mi ha illuso di credere in me, di tenere al nostro rapporto. Dovevo scegliere cosa e dove studiare, con gli occhi a forma di cuore ho scelto questo luogo. Tutto poi è degenerato, lei ha sottolineato ripetutamente come la mia scelta la facesse sentire in gabbia, ha iniziato a escludermi dalla sua vita, sempre con la scusa pronta ha evitato ogni incontro; mi ha gettato via rendendomi colpevole del suo gesto. Dopo un mese mi sono ritrovato solo, l’autunno scivolava tra le mani e le foglie cadevano come banconote insanguinate.

Ormai ero qui, l’appartamento era pieno delle mie cose, il primo esame era andato bene, ho pensato di poter conoscere altre persone, di potermi costruire una nuova vita. Mi sbagliavo? No, la nuova vita c’è, il problema è la qualità di questo vivere. La solitudine annienta l’amore in ogni sua forma; innalza le percezioni, ma non dà la possibilità di condividere i pensieri, questi continuano a circolare, si ammalano e diventano letali per chi li genera ed accoglie. Ho paura che un giorno imploderò nel male di vivere, ho paura che se vivrò qui, morirò solo. Guardo dalla finestra, un piccolo cortile dorme nel silenzio, forse mi addormenterò presto, anch’io nel silenzio.

7.

Amo le piante da quando sono giovane, mi aiutano con la loro serenità ad affrontare i piccoli problemi quotidiani, me ne prendo cura dolcemente, regolarmente. Da qualche tempo la nostra casa ne è piena, a causa dell’inverno abbiamo dovuto proteggerle dal freddo. I davanzali sembrano provare nostalgia del peso della bellezza, ma in cambio io e mio marito siamo circondati dal verde. Ogni tanto vado con piacere a visitare il giardino botanico, ce n’è uno in Corso Porta mare, in primavera è un piccolo gioiello, mi piace godermi il sole e l’ombra che accoglie, c’è sempre profumo di fiori con il nome impronunciabile e le parvenze di rara bellezza. All’inizio del matrimonio, quando c’era qualche litigio, avevo preso l’abitudine di rifugiarmi lì, passeggiavo e mi lasciavo inebriare dalla delicatezza delle forme, dal verde prepotente e dal giallo compagno del lilla in molte piante, passavo interi pomeriggi a lasciarmi deliziare da quell’angolino di natura, poi tornavo a casa come rinata, ogni dolore era dimenticato e la pace era in arrivo nell’immagine più avvenente. Devo a mio marito e a questa città gli anni più veraci della mia vita. Quante volte mi ha sorpreso con un libro, quante memorie di dolce passione, quante corse in bici attorno alla città. Ferrara sta cambiando, lo vedo nei visi delle persone, tutti mi sembrano di fretta e pronti a lasciarsi scappare le cose più delicate. I nuovi giovani vogliono fuggire e cercano ogni possibilità per farlo, continuo a vedere nei loro occhi l’apprezzamento per ciò che li circonda e un senso di gratitudine alle tradizioni, ma manca loro l’ardore per coltivare nel modo giusto le passioni, si lasciano infatuare dalla prima bellezza e non riescono a cogliere la ricchezza di una conoscenza più profonda; sono categorici nei sì e nei no, e non accettano gli errori con la saggezza del loro non ripetersi. Ci sono sempre più giovani stranieri che arrivano e vogliono conquistare tutto, alla prima sconfitta non provano nemmeno a rialzarsi, preferiscono giacere nello sporco e lamentarsi perché nessuno pulisce. A volte mi rattrista vedere questi sguardi pronti ad uccidere e incapaci di vivere, questa fretta inconsistente dettata dall’intollerabilità verso un sano momento di proficua sosta interiore. Io purtroppo non ho potuto avere figli, avrei voluto mostrare loro la meraviglia di una pianta che cresce costante grazie a cure che la gratificano, il polline che nevica leggero in primavera sulle mura, la grazia delle bandiere che volano eleganti da un giovane all’altro, la serenità di un luogo che si ama e si valorizza nel tempo, la bontà di una coppia appena sfornata mangiata ancora tiepida nella strada tra il panificio e la casa. Vorrei trasmettere tutto questo ai miei studenti, renderli adulti sicuri sulle proprie posizioni e attenti alle mille sorprese che ogni azione porta in sé.

8.

Non riesco neanche più a sognare qualcosa di diverso, sono in un circolo nero e vizioso che mi schiaccia, niente sembra voler andare nel verso giusto. Ho rifiutato un misero diciotto in letteratura contemporanea, mi chiedo come sia possibile, ho studiato molto, eppure non sono riuscito a centrare l’obiettivo. La professoressa Linda Cappelletti ha pensato che non fossi abbastanza preparato, mi ha guardato con aria sconsolata e mi ha semplicemente detto: “Mi dispiace, ma lei non ha trattato con sufficiente profondità l’aspetto politico della scrittura di Bassani, le propongo un diciotto per il modo in cui ha affrontato i testi, ma sappia che non posso ignorare le carenze dimostrate in sede d’esame”; ho cortesemente rifiutato e me ne sono andato. Ho colto perfettamente l’aspetto politico dei suoi testi, è l’unico elemento a cui mi posso aggrappare per leggerli! Ascolto Battiato, oggi ho nostalgia del mondo intero. Non so davvero se devo fuggire o lottare, non so se il problema sia io o la civiltà che mi circonda; una città che ripudia non può essere ragione sufficiente a una tale demotivazione. Sono scoraggiato, disinteressato, studio solo perché non ho altro da fare e non sembro nemmeno ricavarne il dovuto profitto. Il cinema Boldini è diventato la mia seconda casa perché offre sconti agli studenti, non mi perdo un film, anche a costo di addormentarmi; le lunghe passeggiate sembrano avermi riportato in forma, ma il silenzio in cui vivo mi sta rendendo sordo. Vorrei solo conoscere qualcuno a cui poter offrire ciò che possiedo, una persona da amare, una presenza che mi aiuti sognare e mi faccia pensare al domani e non solo all’isolamento che vivo nel presente. Vorrei che il vento improvvisamente fosse ricco di forza vitale anziché di umidità. Mi guardo intorno, cerco, spero, ma non succede nulla. Vorrei solo scivolare sul ghiaccio tenendo qualcuno per mano. Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire. Desidero ballare prima di diventare sordo e amare prima di esserne incapace. Il vento soffia veloce, vado a fare un giro in bici, forse le idee si faranno più chiare, forse capirò cosa voglio e potrò agire di conseguenza, chissà che io non la smetta di subire l’inattività, chissà che non prenda davvero in mano la situazione.

9.

Questa mattina ho rotto gli occhiali. Sono andato a comprare una Camelia japonica, è un arbusto sempreverde che fiorisce nel mese di gennaio, volevo donare a Linda un fiore, volevo vedere il suo sguardo sorpreso e innamorato. La mia bici si è scontrata con una che veloce percorreva il lato opposto, alla sua guida un giovane. Con una mano tenevo il fiore, ancora piccolo ma già forte per natura, con l’altra tenevo il manubrio, improvvisamente mi sono ritrovato a terra, gli occhiali qualche metro più in là riflettevano mille edifici scheggiati di un rosso sbiadito, il fiore tra le mie braccia con il vaso rotto a penetrare tra le dita. Mi sono ripreso qualche istante dopo l’urto, anche il ragazzo era caduto a terra, ma sembrava stare bene. Ci siamo guardati e siamo quasi scoppiati a ridere, l’ho invitato a prendere un caffè e lui ha accettato senza ripensamenti. Al bar ci siamo concessi un aperitivo nonostante l’ora inconsueta. Mi ha chiesto che fiore fosse quello che tenevo con tanta cura tra i cocci di terracotta, partendo da questo pretesto credo di avergli raccontato tutta la mia storia. Non riuscivo più a fermarmi, gli ho parlato del mio amore per una splendida giovane donna nato in una stazione assolata, del nostro matrimonio, della mancanza di un figlio, gli ho perfino svelato il segreto degli occhiali. Lui ha riso di gioia alla mia confessione, ha ascoltato paziente tutta la storia, non sembrava annoiato, gioiva dei miei ricordi e guardava dolce gli occhiali rotti appoggiati al piano bar. Gli ho chiesto di lui, ma ha risposto evasivo che studiava lettere. Ho visto una strana luce nei suoi occhi, erano velati di tristezza, come fiori appassiti. L’ho invitato a casa a bere un tè domani pomeriggio, ha accettato di cuore. Sono tornato a casa dopo qualche ora di conversazione, Linda mi aspettava preoccupata, è così apprensiva! Quando ha visto gli occhiali rotti le è venuto un colpo, le ho donato il fiore nei cocci che cercavano di contenerlo e lei in un misto di amore e paura ha pianto. Non era la reazione che aspettavo, ma i suoi occhi lucidi splendevano di colore vivo, l’ho abbracciata e rassicurata, era così morbida.

10.

La piccola camelia rallegra il davanzale, può rimanere all’esterno perchè le camelie non temono il freddo, sono vigorose come le amazzoni; quando ero giovane anch’io ero forte, lottavo serenamente e con fermezza contro tutto ciò che mi disturbava, ora sono più accondiscendente, gli anni mi hanno resa più tollerante, ascolto paziente ogni cosa e replico solo quando ne ho voglia. Oggi ho risistemato la casa, nel pomeriggio verrà a trovarci il misterioso ragazzo che si è scontrato in bici con mio marito. Ieri mi ha fatto preoccupare, è tornato alticcio nel primo pomeriggio, gli occhiali erano malconci e ciò nonostante mi ha detto che non li avrebbe cambiati sostenendo che ci vede bene, era inebriato e totalmente assorto dal nuovo incontro, ha accennato qualcosa su un giovane sensibile e triste, lo ha invitato oggi pomeriggio per parlare un po’, vedere se in qualche modo si può aiutare. Sono curiosa di conoscerlo, temo che questo attaccamento improvviso sia l’espressione di un bisogno di paternità, spero che sia un bravo ragazzo e che non voglia approfittarsi del mio Francesco. Lo guardo, è seduto in salotto, legge il giornale senza occhiali. Ultimamente è strano, mi dedica attenzioni e sembra improvvisamente prendersi cura di molti dettagli che prima non lo riguardavano. Percepisco la sua attesa, ormai conosco i suoi modi in queste situazioni: guarda spesso l’orologio, ha messo in fresca qualche birra ed alza spesso lo sguardo per vedere se tutto è al posto giusto. Ho paura di essere d’impaccio, di intralciare con la mia presenza la loro conversazione; non so se incontrare il ragazzo e lasciarli soli o intrattenermi con loro, probabilmente aspetterò che l’imbarazzo iniziale scivoli via, ascolterò un po’ di conversazione e deciderò. Anch’io mi sento un po’ effervescente, è da molto che non abbiamo giovani ospiti. Suona il campanello, è arrivato! Un rapido sguardo tra noi e Francesco si alza per andare ad aprire, ascolto attenta, si avvicinano alla cucina, alzo lo sguardo e mi sento sprofondare nell’imbarazzo: “Buongiorno professoressa Cappelletti”, “Ciao Marco”; oh no, non lui, gli ho proposto superba un diciotto ieri in sede d’esame.

Il narratore:

In quel pomeriggio d’inverno, apertosi tra emozioni in contrasto, tre persone diverse, accomunate solo da un luogo, si sono incontrate e conosciute.

Ferrara è un piccolo mondo a sé, ha dimensioni ridotte ma frizzanti, per chi vi vive è facile incontrarsi ma è difficile conoscersi. Da parte mia ci sono odio e amore verso questa città e chi la abita, può addolcire i più bei momenti con sfondi vividi di luminosità innata, ma è semplice cadere in una soffocante solitudine assaporando quegli stessi scorci. Ferrara è nel mio cuore, lo sono ogni sua strada, ogni piazza, ogni suo modo di vivere in simbiosi con le stagioni, ogni persona con cui ho diviso istanti importanti. Ferrara lascia libera ogni persona di essere, non giudica ne condanna, ma allo stesso tempo non ama a cuore aperto. Per me l’identità ferrarese è l’insieme di tutti gli strani sentimenti che la popolano, di tutti i comportamenti che la rendono speciale; è la storia di chi, per tutta una vita o anche solo per un breve periodo, vi ha vissuto, l’ha amata o odiata, ma di certo non le è rimasto indifferente. Ho amato la possibilità incondizionata di aggirarmi nuda per le sue strade senza che nessuno mi notasse, allo stesso tempo ho odiato l’impossibilità di farmi notare nel momento in cui questo era il mio bisogno. Ogni cosa ha il suo posto, ogni persona il suo ruolo più affine.

La prima impressione che dà a chi la visita è quella di essere calda e agiata, la seconda è quella di essere falsa, chiusa e feconda su se stessa.

È facile scambiare l’amor proprio per superbia, per questo è fondamentale pazientare fino alla terza impressione, per capire che lo scudo argentato di cui Ferrara si arma riflette solo il suo bisogno di protezione, per avvertire che quelle mura, siano di nebbia o di mattoni, hanno delle porte aperte che invitano ad entrare e sono una solida base per godersi indimenticabili tramonti.

Dedico questo scritto a Mari, Valentina e Carla,

tre donne importanti con cui ho condiviso un periodo speciale,

quello a Ferrara.

Sara Passerini

IL RISVEGLIO

I'm blind and tortured, the white horses flow
The memories fire, the rhythms fall slow

Jeff Buckley


Ho voglia, bisogno di fluirmi in musica. Volare su una piccola nuvoletta rosa nel cielo irlandese. Lì ti ho scoperto, lì mi sono innamorata. Petali che cadono lenti e ballerini. Vortici di baci dolci. Ho solo bisogno di tenera ambiguità. Abbasso le certezze, l’energia della rinascita mi cattura. Volo. Percezioni diverse. Posso vedere spiriti che mi sorridono. Angeli donna che nudi fertili si congratulano. Basta poco per scappare col pensiero. Una pillolina azzurra, aspirare marijuana guardando il cielo, innamorarsi per la prima volta, mangiare piccoli funghi speciali e un po’ infetti. Inizia il volo, una risata, l’autocompiacimento più sincero, il vedere distorto, il percepire obliquo. Cambia il modo di contare, si beve vino lilla, le colline diventano mari. Fiumi di gin mi lavano e bevo alla fonte, assorbo alabastra il passare del tempo. Ore sembrano giorni, minuti infiniti, aspetto in un fuoco che non brucia e godo dello scoppiettio emozionale. Abbassare la guardia, danzare anziché tener premuto il freno, prendersi per mano e vedere tutto immerso in un arancio vivo, come d’amore. Le voci regalano apici nello stomaco e si intrecciano inebriando i sensi. Fammi camminare, presto, ho bisogno di aria pura e di montagne, di laghi e mari. Voglio bere le acque della terra e ubriacarmi al canto dei grilli. Non ho più paura di morire. Ti aspetto, sono con te. Innalzami al tuo rango, aprimi la porta, busso inquieta, piena. Lune gentili che permettono di vedere, mi voltano la faccia, guardiani maleducati. La spiaggia ci invita e noi rotoliamo nudi e felici tra i granelli scomodi. Come tiepidi soli nell’inverno sconfiggiamo la noia. Voliamo con strascichi argento. Aspettiamo l’alba per poterci specchiare in noi stessi. È l’ultimo arrivederci che ti dico. Ti abbisogno. Mi hai dato così tutto, che ora sto diventando te. L’imbarazzo scompare nei sogni, vedo il tuo viso mischiato al viso di tutti i miei amanti. Baciami in fretta. Accoglimi profumato nel nostro mondo. Non scappare, non ti schiaccerò col peso del mio amore, permettimi di esserci. Volo. Volo. Volo. Non credevo potesse succedermi. Siamo. Suonano le campane della chiesa di paese, e tutti fanno festa, ebbri di danze popolari e vino da tavola. Siamo. Guardiamo aleggiando tutto ciò che abbiamo creato. Mi sono persa in una notte fresca. Mi sono concessa in una notte mistica. Ho fatto vino dai frutti del lillà. Non temo più nulla, ho la consapevolezza di essere la reginetta del nostro mondo. Non vedo bene, ho sete, ma mi lascio vagare leggera, fluida. Sono già pronta per il tuo amore. Note stonate mi assopiscono come una talpa dopo l’amplesso. Ebbra di te mi affaccio alla porta. Guardi sorridi masturbi. Soffice come lana, tremante come pozzanghera, sei così reale. Ho paura di amarti. Finalmente la scopa ha compiuto il suo dovere, come un maestro e una strega aleggiamo e cambiamo le cose. La lega nord finisce nell’immondizia. Scavalchiamo il muro linguistico per concederci le nostre anime. Le ombre sono dietro l’angolo, le sputiamo via in fretta. Assenzio scorri veloce come sangue nelle vene. Non ricorderemo nulla. Possiamo fare tutto. Ci avvolge la leggerezza dell’abisso. Tuffi di testa nel vuoto più roseo. Abbracciati come gemelli appena nati. Sfumati come il tramonto che illumina la ghigliottina. Tienimi forte perché temo di non reggere questo benessere. Dipendenza fiutata e disagio che rincorre. Ti guardo. Ti avvolgo. Morti nel Mississippi ci troveranno incastrati come anelli nati assieme. Busso ancora alla nostra porta. Ultimo tentativo vitale. Cecità avanzata. Guardo dalla finestra e c’è la pioggia e il sole. Volpi copulanti? Forse sono troppo giovane e persa. Forse non concluderò mai nulla, ma non ti lascerò sfuggire. Dove sei stanotte? Ti abbisogno. Ancora nuvole rosa mi catturano e intrappolano in una prigione di cotone. Ti aspetto a salvarmi. Vorrei soddisfare i tuoi sensi. Ti spio mentre dormi, pronta a donare il mio regno per un tuo bacio sulla spalla. Tu ti volti e te ne vai. Butti via il bacio che hai sulle labbra e vestito di metallo mi lasci. Dov’è l’amore? Dov’è la felicità? Cos’è essere vivi? Dov’è la pace? Dimmelo, me lo devi. Te ne vai. Mi manchi, ma è meglio per te se on torni dalla vita eterna, mio angelo. Piombata sulla terra ti odio e rimpiango. Glaciale con le mani nelle mani, fratello gemello. A volte è meglio non sapere, ignorare, tralasciare. Ritmico straziante battito del cuore. Pausa. Il vuoto. Il baratro. L’indecenza. L’annullamento. La morte. Ognuno comprende come può.
Mi sveglio e ti vedo. Ci sei, dormi nudo e profondo come un satiro dopo una conquista. Preparo il caffè per svegliarti e coprirti di attenzioni, oggi ti amo più che mai. Nuda alabastro mi avvicino con due tazze fumanti, apri gli occhi, sorridi. Beviamo il caffè. Non hai sognato, non sogni mai, neanche ad occhi aperti. Io invece mi sento più vecchia dopo questo viaggio. Forte mi prendi per le spalle e mi baci sulla bocca, lenti ci insinuiamo l’uno nell’altra. Sento il tuo respiro mischiato al profumo del caffè, la domenica mattina sei solo mio. Ti assaggio, seme insapore, stai bene. Ci teniamo abbracciati stretti stretti, insieme scivoliamo sotto la doccia. Liscio di sapone ti lasci accarezzare e a mi spalmi di dolcezze. Oggi sei come un fiume d’amore. Ho la mente rilassata per la nostra serata di ieri distesi sui sassi in riva al lago con gli amici più cari. Venticello fresco, acqua che rigenera, fuochi artificiali così maestosi e forti, come frecce sincronizzate pronte a penetrare il nemico di piacere. Dipinti effimeri nel cielo, soffioni delicati che svaniscono mentre si cerca di catturarli, pienezza di colore e suono di guerra, allucinazione. Confusa e affabile vedo le tue rughe vivide. Non ricordo nulla, ma sono felice e stanca, è iniziato un giorno vero dopo mille allucinati. Brutto incubo, bel sogno, inconsapevole mi incollo al tuo fianco.
Oggi non mi sfuggi.


Sara Passerini

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