Sono cresciuta in mezzo al legno. È l’elemento che unisce
passato e presente, è mio padre, è la mia terra. Ricordo la segatura tra le
dita, la carta vetrata bordeaux di diversi spessori e ruvidità, le assi di
diverse lunghezze e sfumature appoggiate al muro del garage. Ricordo trapani, e
circolari, e seghetti. E portapacchi della macchina sempre carico di tavole
impilate. Vengo dalla terra del legno. A scuola col traforo perimetravo cuori
per la festa del papà, della mamma, per natali e san valentini, vi attaccavo un gancetto, vi dipingevo una scritta con
qualche stella alpina di decoro. Sono cresciuta nel legno, non mi hanno mai
spaventata le schegge nelle dita, e l’odore dell’impregnante mi fa sempre
pensare al papà, vestito in blu, chino sui cavalletti con un pennellino, e
anch’io che voglio metter la vernice, ma no che ti sporchi, dai solo una
spennellatina, solo una, giuro. E giù di vernice, senza lasciare nemmeno un
angolino scoeprto. Anche adesso veste col camice blu, a volte lo guardo e con
gli occhiali risponde da sotto in su, che sembra un Geppetto. Un giorno mi ha
fatto una montatura per occhiali in legno, la conservo ancora sopra a qualche
libreria, è in legno d’abete, non ricordo bene perchè l’avesse fatta, ricordo
che abbiamo riso molto, forse era il periodo iniziale, quello in cui scoperta
la miopia mi rifiutavo di mettere gli occhiali. Quando ero adolescente, per un
periodo ho pensato di voler imparare la sua arte, così un pomeriggio sono scesa
nel suo studio, che chiamarlo studio sembra una presa in giro, meglio
laboratorio, officina. Si tratta di un luogo suo, gli attrezzi appesi, ma anche
per terra, e nelle scatole, alcune di legno altre di ferro. Le vernici in alto
sulla vecchia credenza smaltata di azzurro, le chiavi inglesi appese in ordine
decrescente sulla parete in fondo, e cassettini, centinaia di piccoli
cassettini con viti diverse e chiodi diversi e giunture diverse non so che
cos’altro. Tutto diviso e ordinato in quest’ordine meticoloso e poco
comprensibile. E i morsetti fissi al banco in ferro, che sempre sono stati la
mia passione, come mani prensili e immobili, e forti. Sono entrata, un
pomeriggio delle vacanze di natale mi sembra. Facciamo una scatola per i miei
cd?, gli ho proposto. Ma come la vuoi questa scatola? Mi ha subito detto. La
voglio fatta da noi, il resto non m’importa. La voglio di legno. E così abbiamo
fatto la scatola, ma non l’abbiamo finita, perchè volevo dipingerla e poi
mettere una vernice trasparente, ma non l’ho mai dipinta, sostenendo che le
cose non devono per forza dove essere fatte e completate dall’inizio alla fine,
che a volte ci si può prendere del tempo per pensarle, per capirne destinazione
e tono. Le solite vie di fuga? Forse. E forse è per questo che scrivo un blog e
non scrivo libri, e che non sistemo mai le cose. Paura di un definitivo. Paura
di una forma immobile. Come se la vernice finale stabilisse che la scatola è
così e così deve rimanere. Paura della vernice finale. E poi ha qualcosa di
primitivo e maledettamente importante la consapevolezza del tempo che passa e
rovina, e colora. Il tempo che segna. Che insegna anche, certe volte. E poi il
legno che fa il suo corso e subisce non solo gli anni ma anche la pioggia e
l’umidità e la polvere, che s’impregna d’odori e cambia il colore. E poi è solo
una scatola. Ma giuro che un giorno di questo natale torno in laboratorio e
imparo i nomi, magari non di tutto, solo degli oggetti nei cassettini, di
qualche attrezzo, solo un pomeriggio a disturbare e coccolare, ad ascoltare e
invertir le chiavi, vestita anch’io col camice blu, a finger che la segatura
sia sabbia, a carezzare le vene di un asse di ciliegio, a casa.
Circondata dalle rappresentazioni, dalle narrazioni. Provo a interpretare, a leggere il mondo. Cerco brandelli di realtà, poi rinuncio, poi capisco; e senza pretese m'immergo nello scambio.
1 commento:
Sara, go bisogn den tabiel, dam en tok de legn; per piaczer.
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