lunedì 17 ottobre 2011

legno, ricordi senza vernice


Sono cresciuta in mezzo al legno. È l’elemento che unisce passato e presente, è mio padre, è la mia terra. Ricordo la segatura tra le dita, la carta vetrata bordeaux di diversi spessori e ruvidità, le assi di diverse lunghezze e sfumature appoggiate al muro del garage. Ricordo trapani, e circolari, e seghetti. E portapacchi della macchina sempre carico di tavole impilate. Vengo dalla terra del legno. A scuola col traforo perimetravo cuori per la festa del papà, della mamma, per natali e san valentini, vi attaccavo un gancetto, vi dipingevo una scritta con qualche stella alpina di decoro. Sono cresciuta nel legno, non mi hanno mai spaventata le schegge nelle dita, e l’odore dell’impregnante mi fa sempre pensare al papà, vestito in blu, chino sui cavalletti con un pennellino, e anch’io che voglio metter la vernice, ma no che ti sporchi, dai solo una spennellatina, solo una, giuro. E giù di vernice, senza lasciare nemmeno un angolino scoeprto. Anche adesso veste col camice blu, a volte lo guardo e con gli occhiali risponde da sotto in su, che sembra un Geppetto. Un giorno mi ha fatto una montatura per occhiali in legno, la conservo ancora sopra a qualche libreria, è in legno d’abete, non ricordo bene perchè l’avesse fatta, ricordo che abbiamo riso molto, forse era il periodo iniziale, quello in cui scoperta la miopia mi rifiutavo di mettere gli occhiali. Quando ero adolescente, per un periodo ho pensato di voler imparare la sua arte, così un pomeriggio sono scesa nel suo studio, che chiamarlo studio sembra una presa in giro, meglio laboratorio, officina. Si tratta di un luogo suo, gli attrezzi appesi, ma anche per terra, e nelle scatole, alcune di legno altre di ferro. Le vernici in alto sulla vecchia credenza smaltata di azzurro, le chiavi inglesi appese in ordine decrescente sulla parete in fondo, e cassettini, centinaia di piccoli cassettini con viti diverse e chiodi diversi e giunture diverse non so che cos’altro. Tutto diviso e ordinato in quest’ordine meticoloso e poco comprensibile. E i morsetti fissi al banco in ferro, che sempre sono stati la mia passione, come mani prensili e immobili, e forti. Sono entrata, un pomeriggio delle vacanze di natale mi sembra. Facciamo una scatola per i miei cd?, gli ho proposto. Ma come la vuoi questa scatola? Mi ha subito detto. La voglio fatta da noi, il resto non m’importa. La voglio di legno. E così abbiamo fatto la scatola, ma non l’abbiamo finita, perchè volevo dipingerla e poi mettere una vernice trasparente, ma non l’ho mai dipinta, sostenendo che le cose non devono per forza dove essere fatte e completate dall’inizio alla fine, che a volte ci si può prendere del tempo per pensarle, per capirne destinazione e tono. Le solite vie di fuga? Forse. E forse è per questo che scrivo un blog e non scrivo libri, e che non sistemo mai le cose. Paura di un definitivo. Paura di una forma immobile. Come se la vernice finale stabilisse che la scatola è così e così deve rimanere. Paura della vernice finale. E poi ha qualcosa di primitivo e maledettamente importante la consapevolezza del tempo che passa e rovina, e colora. Il tempo che segna. Che insegna anche, certe volte. E poi il legno che fa il suo corso e subisce non solo gli anni ma anche la pioggia e l’umidità e la polvere, che s’impregna d’odori e cambia il colore. E poi è solo una scatola. Ma giuro che un giorno di questo natale torno in laboratorio e imparo i nomi, magari non di tutto, solo degli oggetti nei cassettini, di qualche attrezzo, solo un pomeriggio a disturbare e coccolare, ad ascoltare e invertir le chiavi, vestita anch’io col camice blu, a finger che la segatura sia sabbia, a carezzare le vene di un asse di ciliegio, a casa.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sara, go bisogn den tabiel, dam en tok de legn; per piaczer.

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