martedì 3 maggio 2011

Il tempo è la distanza più crudele

C’è un pensiero che non posso togliermi dalla testa in questi giorni. Volevo capire davvero il da dire, e poi scriverlo trovando un aggancio all’oggi, una riflessione sul tempo e sullo spazio, sul ritagliare un mondo che è vero se così lo si vive. Il punto è che ho solo alcune immagini e non riesco a concentrarmi per trarne conclusioni e cose sagge. Quindi ne uscirà un noiosetto insieme di ricordo e riflessione non strutturata, chiedo scusa già adesso.
L’immagine uno è una coperta, una vecchia coperta a scacchi, rossa e un po’ blu o nera, misura un metro e mezzo circa per lato, in un angolo c’è un contrassegno, un piccolo pesce ricamato col filo blu. Non so se è una coperta ancora presente, o è stata buttata o viene usata per coprire il fondo del trattore appoggiandovi utensili appuntiti e taglienti e sporchi. Il contrassegno del pesce credo fosse di mio padre, la copertina è infatti vecchissima. Come contrassegno avevo la prugna, l’ho sempre trovato terribile, e terribilmente ho vissuto fino alla fine delle medie il dover confessare che avevo un così brutto contrassegno. Alla fine si finisce sempre a parlar di contrassegni, perchè c’è quella che indica la tendenza che di certo aveva il castello di sabbia, la sua amichetta il panda dormiglione, le seguaci in ordine: la margherita dell’amore, l’arcobaleno scivoloso, l’altalena in volo e lo scrigno semiaperto. Di fronte a tali meraviglie la prugna mi creava sempre disagio. Torno alla coperta rossa e a quello che ha significato per me bambina. Ogni fine settimana si faceva un picnic, nel bagagliaio un paio di scatoloni, uno con cose utili al mangiare, uno con il cibo, la borsa frigo (che era una scatola frigo d'un verde intolerabile) e le due coperte, la mia fiammante e una un po’ marroncina un po’ arancio dei miei genitori. Si partiva. Potevo portare solo alcuni giochi, un numero limitato, forse tre, forse cinque; i libri non valevano nel conto. Portavo sempre Bamse l’orso bianco fatto proprio come un orso, gli altri dipendeva dal momento, spesso cose tecniche tipo lego. Si fermava la macchina, si camminava fino al prato, si stendevano le coperte a debita distanza. Sparpagliavo giochi e libretti sulla mia coperta, di solito all’ombra. I miei non so, sonnecchiavano, parlavano, leggevano il giornale. La coperta rossa in quei giorni era il mio mondo, meglio era la parte sicura del mio mondo, a volte una zattera, a volte un tetto, a volte una macchina, un tappeto volante, un’autoambulanza che salvava gli animali, un letto sospeso... era come se il mondo fosse pericolo e la coperta rossa il luogo sicuro. Io ero nel luogo sicuro e dovevo salvare, pensare a come muovermi per salvare, progettare il chi e come salvare. L’idea di un mondo, di una casa, di un rifugio che finisce nel perimetro di una coperta è magica, magica come l’idea che il mondo della notte nei boschi sia solo quello illuminato dal fuoco. Sarà che sono influenzata dai racconti delle infanzie altrui dopo che ho ripetutamente pensato e divorato Nel sonno non siamo profughi, forse è il timore che non si facciano più picnic che m’invita a rilanciare con energia il mio vissuto, forse è che leggo in quegli anni qualcosa di speciale, la capacità gratuita d’inventare, la sensazione così viva e reale di poter fare qualcosa per salvare il mondo, il tempo vuoto: un tempo mio, da riempire a piacere, sul rosso verde del prato coperta, da manipolare col gioco solitario della fantasia, da lasciar scorrere senza la pressione del devo. Ecco, se dovessi scegliere a posteriori un contrassegno sceglierei la coperta rossa a scacchettini: l’emblema dell’infanzia.

1 commento:

Sara Passeggini ha detto...

Odddio, non avrò mica fatto discorsi da vecchia!?!?!?!

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