martedì 5 aprile 2011

L'usignolo di Dyiarbakir


raggiungendo i Dengbej, foto di J.D.P.
La potenza della voce è qualcosa che si coglie perfettamente in un cortile, il terzo giorno di primavera, tra le mura di Diyarbakir, mentre scende il sole dall’altra parte e un çay riscalda le mani quanto basta. I cantastorie si passano il turno con uno sguardo e un grido, le loro voci hanno età diverse, la lingua curda è la stessa per tutti, la storia raccontata è come un poema, e parla d’amori negati e guerre perdute, di coraggiosi e sfortunati. L’usignolo di D. è un omino sottile, vecchio. Ha mani eleganti, scure, un anello al mignolo della mano destra, mano che muove come a indicare vie e conclusioni logiche. Si riesce a cogliere il piacere che prova cantando. Lo si vede quando socchiude gli occhi e gira lo sguardo verso sinistra lasciando che la voce si allunghi e solletichi la gola, alza un po’ il mento, per un attimo sembra abbandonarsi. La voce che utilizza è quella della superficie, è lei a dettare il ritmo, è lei a insegnare una lingua, a trapassare una storia.
Ha il cappello quasi calato sugli occhi, la mano sinistra gioca aritmica col rosario, le labbra sono piatte, alcune parole permettono d’intravedere la fila dei denti, che risaltano bianchi nella pelle color terra, alla faccia del compagno tabacco. Ha due solchi che sembrano tagli, due rughe che disegnano un volto nel volto. Questo piccolo viso interno sorride. Gli occhi sono del colore degli occhi dei ciechi, un glauco opaco (solo più tardi, alla fine del viaggio, capisco che questo è il colore del Tigri in certi giorni di vento). A lungo ipnotizza chi vuole ascoltare anche senza capire, poi passa il turno e si accende una sigaretta, la tiene con la destra e per sbrasare usa l’anulare, chiacchiera sonoro, beve un çay, di nuovo, anche senza cantare, racconta una storia.

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