lunedì 18 aprile 2011

Hasankeyf: la fine del mondo

Abbiamo trascorso ad Hasankeyf qualche giorno, ospiti di una famiglia della zona, abbiamo cenato, fatto colazione e dormito con Mehmet Ali (arabo) e la sua famiglia composta da sua madre, quattro figli e da una bellissima moglie (koçer), abbiamo guardato le foto di famiglia e ascoltato storie divertenti, in bilico tra la leggenda e l’accaduto, in bilico tra ogni lingua possibile pur di dirsi qualcosa, di capirsi. Una sera la figlia più grande, anni 13, mi ha dato tra le mani un album di disegni da guardare, si trattava di figure femminili vestite con abiti da lei disegnati o incollati, era insomma il portfolio di un gioco basato sulla moda. Sfogliavo pagina per pagina il malandato quaderno, guardavo con una commozione forse immotivata forse del tutto fisiologica quella bambina-ragazza brava a scuola, vestita con una parvenza elegante probabilmente per la nostra presenza bionda in una terra bruno-castana, che parla tre lingue e deve andare a scuola anche il sabato, finché può soprattutto. Quella ragazza che avrà difficoltà ad uscire dalla Turchia, e soprattutto avrà difficoltà a realizzarsi in una Turchia che danneggia i curdi, che ostacola le donne, che inonda i villaggi.
“Ecco, quello è il minareto di Hasankeyf, l’acqua arriverà fino alla sua punta” mi risuona un po’ nella testa questa frase, questo scenario catastrofico è degno di un film americano, eravamo seduti su un cartone in un vecchio granaio affacciato sul Tigri, il suo colore era scuro e specchiava la valle. Come si può soffocare una terra usando il suo fiume, il suo cordone ombelicale? C’è sorte più cruenta?
“Se la diga viene costruita perdiamo tutto” ora siamo su un tappeto, nelle mani di ognuno un bollente çai, davanti a noi piattini di semi da rosicchiare, “cerchiamo di non pensarci, si ha paura a ribellarsi, non si sa come possiamo fermare il progetto, a cosa si andiamo incontro, nel farlo”.
Hasankeyf e i suoi abitanti vivono sospesi nel tempo, vittime di un conflitto più grande, dove la storia si scontra con la modernità, gli interessi nazionali con quelli locali, l’esigenza di crescita personale con la preservazione delle proprie radici.
Il mattino, come ogni mattino, ci sveglia il muezzin, sensuale il suo canto si appoggia nelle orecchie mentre il sole appena nato sembra già alto, viene stesa nel cortile una tovaglia, sopra vi vengono appoggiati del pane, l’immancabile çai, il peşmek, formaggio salatissimo, olive nere, yogurt, una frittatina da dividersi. Seduti o inginocchiati ai bordi facciamo tutti insieme colazione, sarà l’aperto, sarà la fame, sarà la compagnia, ma è tra i migliori risvegli degli ultimi anni; si prova ancora a parlare, la nonna araba ha il kajal agli occhi, fa fatica a muoversi ma prova i miei occhiali in un momentaneo e incredibile momento di collettiva ilarità, sul tetto già è posizionato il letto per l’estate, dormiranno sotto un soffitto di stelle vere, ma adesso è ancora troppo presto, la notte aleggia il freddo. L’obiettivo del giorno: camminare ed esplorare i sentieri della zona, farne fare una mappa più o meno realistica per proporre percorsi alternativi ai turisti delusi dalla chiusura del sito archeologico, lasciare il disegno della vecchia via della seta, luogo dove le culture dell’Asia centrale e della Persia s’incontravano con l’occidente.
Abbiamo passeggiato nella gola della valle, scalato senza sapienza, segnato nomi di vie, pensato itinerari turistici, chiacchierato con i nuovi compagni di viaggio, sognato di abitare degli anfratti della roccia così ospitale, così ben lavorata, così in equilibrio tra l’essere e l’avere, ci siamo sdraiati sulla terra secca dimenticando il correre del tempo, ci siamo persi con lo sguardo nella valle, con la bocca e il cuore di certo aperti. Ho provato, senza fortuna, a immaginare come fermare il massacro: forse tatuare nella terra l’immagine del semidio Ata bloccherebbe l’annientamento, forse la guerriglia sempre vigile riuscirà a far capire che qualcosa non va nelle scelte di Governo, forse bisogna tutti legarsi mano nella mano, immobili per la strada, e non spostarsi a nessun costo; forse bisogna segnalare a chiunque abbia un qualche tipo di potere lo scempio che sta per essere compiuto, forse bisogna distrarre gli operai già al lavoro sulle ruspe, forse bisogna dirottare in segreto il corso del Tigri...
Ci sono davvero posti da salvaguardare, indipendentemente dalla loro rilevanza o meno ai preziosi occhi dell’UNESCO. Ci sono persone (spesso già in difficoltà) da tutelare, pezzi di storia che racchiudono non solo un popolo ma forse tutti i popoli, da conservare e supportare, luoghi così speciali da portare a sentire dentro i propri occhi che il confine della bellezza è stato di un poco smosso, energie tanto potenti da far sentire a casa perfino chi non sa dire alcuna parola utile, chi si presenta solo con uno zaino e la pelle troppo bianca. Ecco, è proprio un peccato cancellare da questo mondo già malconcio le cose belle che i viaggi ci permettono di conoscere e respirare.

2 commenti:

Sara Passeggini ha detto...

aggiornamento: http://kurdistanturco.wordpress.com/2011/04/27/ultime-da-ilisu/

Sara Passeggini ha detto...

http://www.hasankeyfgirisimi.com/

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