domenica 13 marzo 2011

I bought some sweet, sweet, sweet Sweet sunflowers

Siede alla finestra. Non è la solita finestra, e il cortile su cui si affaccia non è un cortile. Siede sul pavimento, la finestra è una parete finestra. Il cortile è una piscina che sembra un guscio di lumaca striato dai marmi rosso mattone, e vivo d’acqua fumante. Siede alla parete di vetro, sul legno caldo, e guarda giù. Vede padri e bambini, vede madri e bambini. Vede padri e madri e ognuno tiene una creatura. Ondeggiano camminano abbracciano, i genitori. Sgambettano fluttuano sperimentano, i bambini e le bambine. Siede alla finestra, al fianco le pettegole, le impiegate al semaforo finita la mattina di lavoro, le parrucchiere alle tre di pomeriggio con le vecchie imbalsamate a far la messa in piega. Mette la musica nelle orecchie, mette una canzone che le ricorda qualcosa, mette a tacere i commenti a ogni oscillazione dei corpicini, le dolci risate a ogni rapido sgambettio. E d’improvviso vede davvero. Vede una mamma che non riconosce il suo corpo e lo stringe nel costume, un’altra che guarda verso la grande finestra in alto per assicurarsi che il primogenito sia buono e fermo, un’altra ancora che affilata non stacca l’occhio dall’orologio; un papà che si diverte col piccolo pesciolino, un altro che crea un contatto col suo bambino. Vede un’insegnante che vuole rassicurare, vede un assistente che appoggiando gli asciugamani pensa alla serata del giorno precedente, quella che gli ha lasciato quei segni sotto gli occhi. Siede davanti al vetro, su un pavimento di legno, ha cancellato le pettegole e porge fogli e fazzoletti al primogenito pittore silenzioso che le è a fianco, è dentro ma è come se fosse fuori, è fuori ma vede tutto il dentro. C’è un lui che come la mamma coi due bambini getta occhiate alla finestra-balcone, lo stesso lui che cerca uno sguardo e lo trova quasi sempre, lui che sorride e zampetta, lui e tra le braccia un confettino, racchiusi nell’argenteo carapace. Alza lo sguardo, prende una manina, sorride, abbozza un ciao con la manina rubata. Il vetro scompare, un vento alla violetta allontana le giacche dimenticate, il primogenito non si accorge di nulla, lei soffia nel cortile l’immobilità, si tuffa veloce nell’argento, s’avvicina alla manina, ruba una carezza, s’avvicina al sorriso, vi abbandona un bacio appena; slaccia il costume della segnatempo, e risale alla guardiola. Tutto riprende, l’insegnante insegna, il costume cade, la manina scende, il sorriso rimane, il primogenito ha terminato la sua foresta di alberi variopinti, la canzone finisce.

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