mercoledì 27 febbraio 2008

PEEPING TOM


Era una giornata di metà febbraio ma l’inverno sembrava essersi già arreso, gli alberi erano spogli e non avevano alcuna intenzione di rivestirsi a festa, il vento sembrava ululare solleticando i rami, ma non era freddo. Camminava piena di speranze, di progetti, di sogni. Si sentiva nella primavera della sua vita. Lei, una giovane donna quasi laureata, anticonformista in punta di piedi, ma nel profondo del suo cuore, a momenti perfino innamorata della vita. Camminava senza badare al mondo, ma lo intrappolava ad ogni passo. Una fotografa. Una donna. Scattava rapida in ogni direzione, non era questo il momento più importante per lei, questo era solo il piacere degli odori, la sensazione del vento sulla pelle, il passeggero dolore ai piedi. Il lavoro vero arrivava a casa. Nella sua stanza, in un appartamento quasi in centro condiviso con altre ragazze guardava le immagini, e le sembrava di vedere per la prima volta la realtà, di possederla al dettaglio, di poterla modificare nei colori e nelle forme. Aveva scoperto la fotografia per caso, in aeroporto. I treni, così come le stazioni, come gli aeroporti e i porti sono luoghi magici. Persone di passaggio, vite in movimento, valige di speranze e vestiti, di rancori e lacrime, bagagli pieni di niente, ma necessari; oggetti catena tra passato e futuro. Saluti, abbracci, pianti, sorrisi, mani che si stringono, mezzi che partono, amici che tornano, amori che finiscono, sogni che sfumano, illusioni che brillano, concentrazione emozionale ingente tra presenze tanto abituali quanto invisibili. Mi sono sempre chiesta quanto destabilizzante possa essere lavorare in questi non luoghi, essere quotidianamente in contatto, addirittura al servizio di una tale mole di instabilità emozionale, non posso immaginarlo. Una volta però mi è capitato di aspettare una persona in aeroporto per delle ore. C’era il sole e tantissime persone, macchine che non trovavano parcheggio, bagni intasati tra carrelli e persone, aria viziata… fumavo sigarette all’esterno, poi rientravo, passeggiavo, guardavo i negozi, vedevo le hostess sfoderare gambe lunghe e stanche. Assaporavo il turbinio emotivo che mi circondava e di cui facevo parte, anche senza bagaglio. La nostra fotografa come me aspettava diligente il suo ex-ragazzo in aeroporto, aereo in ritardo, ore di attesa. Anche l’attesa è luogo temporale con una sua specificità, è carica a sua volta di speranze, paure, sensazioni, pensieri. Si aspetta una persona, un autobus, si aspetta nel supermercato magari solo per acquistare una lattina, in coda dopo sei carrelli stracolmi di prodotti, si aspetta dal dentista, si aspetta la fine di un’operazione, si aspettano notizie, si aspetta la fortuna, i ritardatari, la comparsa di risposte, la fine di una lezione noiosa, l’inizio del film, una telefonata importante. È uno dei motivi più ricorrenti della mia vita quello dell’attesa, uno dei più suggestivi, uno dei più profondi e proficui, lo paragonerei all’istante in cui ci si sta per addormentare, i pensieri fluiscono veloci, analizzano inconsapevolmente tutto l’esterno e lo intrecciano alle emozioni, alle nozioni e ai sogni; i progetti vengono partoriti e poi dimenticati nella loro interezza, ma abbandonano il profumo della consapevolezza, nidificano nascosti, si aggrappano in silenzio all’animo, pronti a riaffiorare, a contagiare. La nostra fotografa aspettava l’aereo, o meglio, aspettava quello che a quel tempo era il suo ragazzo. Passeggiava annoiata avanti e indietro, guardava il tabellone con gli orari, ogni tanto usciva a fumare una sigaretta, osservava le persone e beveva tè freddo al limone. Vide una donna bellissima seduta sulla lingua di plastica rossa (le sedie degli aeroporti mi ricordano da sempre delle lingue… inquietano un po’…), era slanciata, luminosa; leggeva un libro ed era così immersa da non accorgersi che il vecchio uomo che stava presumibilmente aspettando le si stava avvicinando stanco e un po’ avvilito per il poco sentito benvenuto, le si avvicinò e le toccò una spalla, lei alzò lo sguardo e sorrise. Alla vista di quel sorriso la nostra fotografa rimase ipnotizzata, non aveva mai visto nulla di più radioso, semplice e naturale. La strana coppia si allontanò verso l’uscita e incapace di qualunque movimento lei li seguì con lo sguardo, poi gettò un’occhiata alla lingua sproporzionata e vide una custodia nera, probabilmente dimenticata. Si destò e rincorse il vecchio e la bellezza fatta donna per consegnare il cofanetto, quasi scivolò sulla cera, arrivò all’uscita, indagò pronta ogni persona, ma non li scorse, volatilizzati, probabilmente in una Bmw. Tastò l’oggetto e immaginò fosse una macchina fotografica, lo aprì cercando di non bruciarlo con la sigaretta che si era appena accesa e la vide. Era una macchina fotografica vecchio stile, pesante e precisa, nera nella parte superiore e ricoperta in pelle nella parte inferiore, sorrise tra sé e sé e tornò ad aspettare. Vi chiederete se basta trovare una macchina fotografica per scoprire di avere la passione della fotografia, non lo so, io credo nei segni e credo che potrebbe esserlo, ma la nostra fotografa no, non ci crede del tutto, o meglio, non se lo è nemmeno chiesta è semplicemente tornata ad attendere il suo ex-ragazzo. Come abbiamo già detto il tempo dell’attesa crea pensieri incontrollati che nidificano nel cervello, nel cuore, nel corpo, così è stato anche per lei, è tornata a casa, ha nuovamente esaminato l’oggetto (mi sento di sottolineare che non ha fatto parola del suo ritrovamento al ragazzo) e ha notato che al suo interno c’era un rullino, lo ha portato a sviluppare e nuovamente ha atteso, questa volta con la brama della curiosità a solleticarle i sogni. È alla vista delle fotografie che lei ha capito quanto grande sia il potere delle immagini e ha deciso di accettare la sfida. Ha sfogliato le fotografie una a una, sentendo la carta liscia e spessa tra le mani, ha sentito il desiderio di piangere e ridere, le sembrava di percepire i profumi e i suoni, le sembrava per la prima volta di vedere il mondo secondo un punto di vista prezioso. Da quel preciso istante ha deciso a che cosa voleva votarsi, qual era il suo scopo. E cosi la rivediamo mentre cammina assorta dai suoi sogni e programmi, la vediamo scattare decisa e inesatta mentre pensa a cosa cucinarsi per cena, alla telefonata di sua madre alle sette e mezza in punto o al nuovo taglio di capelli della sua coinquilina. Sembra essersi dimenticata il momento in cui è nata la sua passione. La macchina fotografica che usa adesso è digitale, attraverso le foto ha rintracciato miss splendore e il vecchio e restituito tutto, sorpresi e abbagliati dalla sua energia e onestà le hanno offerto in cambio un lavoretto nella loro rivista di scienze naturali. Eccola, si appoggia al bordo del muretto che si affaccia all’Arno, abbassa la testa e cambia qualche impostazione, il vento le scompiglia i capelli che le nascondono il viso, la borsa le scende dalla spalla, il sole sembra ricavare luce dalla sua forza, scelto il seppia guarda a destra, a sinistra, attraversa il ponte e si accende una sigaretta, guarda l’orologio, è in ritardo per la lezione.

Questo testo è dedicato a Marika e a Jenni,

giovani donne e Amiche importanti,

due anime che attraverso la loro passione

rendono il mondo più bello,

due occhi diversi che non hanno paura a mostrare ciò che vedono,

a voi queste poche righe e tutta la mia stima.

sp

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