In lontananza, sui campi
e lungo la strada, si avvicinarono dei puntolini neri. Si
ingrandirono sempre di più. Gli uomini. Gli uomini che tornavano, in
uniforme, con lo zaino militare e il fucile in spalla. Ridevano e
salutavano, ormai riconoscibili uno per uno. Mia madre alzò una
mano, salutò anche lei. «Cane» disse al cane. «D’ora in poi
dovremo sopravvivere alla pace, noi due».
(Il grande amore di mia madre, Widmer)
Lavoro a un libro
toccante e molto bello, tradotto con la profondità e la spigliatezza con cui, sono certa, è stato scritto. È un libro che mi scatena una
sorta di dispiacere intimo. È un figlio, adulto, che racconta una
madre. La racconta con severità e con colore, a tratti con un po'
d'affetto, torna alle radici, agli avi e lì si mischia alla
leggenda, fa un salto in un'Italia passata e contadina, poi si
riavvicina a quel presente di prima di lui e poi al presente con lui.
Sempre, in tutto il testo, non sento rabbia, sento distanza. Una
distanza però che mi pare sia il modo, di Widmer, di capirla, questa
madre, una distanza che studia, non che allontana.
Forse il dispiacere non
sta nel racconto, nei fatti (sebbene abbia avuto una vita segnata
dalla sofferenza, questa madre), non sta nel dentro del libro, che è
intimo e non giudicante, il dispiacere che provo riguarda il titolo,
è lì, che secondo me, manifesta il suo rancore: Il grande amore di
mia madre. Non un libro sulla madre, a specchio di quello del padre
(altrettanto bello, ma un bel po' più affettuoso). Mi piacerebbe
sapere se il titolo è venuto così, se c'ha pensato, se è proprio
una scelta sua o dell'editore, se è un tentativo ennesimo di provare
a dire a quel mostro dell'amore della madre che è colpa sua, che ha
rovinato una vita o forse di più (ma visto come si conclude il libro
non credo proprio).
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