lunedì 10 giugno 2013

Guerra e pace


I concerti a teatro mi piacciono, come l'opera.
L'intimità di una musica a portata di mano avvolge sempre, ingloba, ipnotizza; a volte al di là del suo valore reale.
Sono stata a vedere gli Apparat all'Auditorium di Milano. Lo spazio interno è bello, piuttosto ampio, richiama un cinema, probabilmente su due piani, noi eravamo in platea, le seggiole erano comode e ampie, l'acustica molto buona.
Nel buio la musica si è fatta fin da subito potente, penetrante, avvolgente, molto densa.
I musicisti sono scomparsi, non illuminati nonostante il loro suonare. Non vederli disorienta. Sembrano addirittura abbassarsi quando qualche fascio di luce li raggiunge, sembrano insetti.
Lo sfondo è rosso, poi nero, come sabbioso, granulare. Solo dopo capisco che il video è realizzato in diretta da un paio di persone sul palco (che si mischiano ai suonatori nascosti).



La musica si fa sempre più protagonista, e di colpo immagino un'esperienza simile ma individuale. come se fossi sono io, al centro  godere di sta cosa, anche con degli occhialini, non so, più virtuale. E me lo chiedo perché mi pare che poco importi se ci sono o no, non c'è incontro tra musicista e ascoltatore. Il musicista scompare e lo spettatore è in mezzo agli altri spettatori, senza fare senza dare, nessun movimento. Che ci sia io o xy non cambia nulla. E allora perché proporre il concerto a teatro se lo spettatore non conta?



Lo sfondo rosso porpora scende dall'alto come una superficie lunare gibbosa, attritica.
Capisco cosa non va, è lo schermo, è troppo rettangolare, troppo piccolo. Ha i confini, i limiti. la musica no. il video non sborda, non prosegue, si ferma nel video, è solo un video. sono solo due dimensioni e io le vedo tutte, e non basta. la musica va oltre, entra dentro, il video è solo lì: una larghezza un'altezza, un perimetro.



Il concerto è bello, lo sono le parti cantate lo sono le parti suonate. Forse pretenzioso proporre pezzi così lunghi da seguire stando seduti, con un video minimale. Forse pretenzioso credersi tanto potenti da nascondersi. La gente esce, rientra, ha tacchi alti e capelli alti e pantaloni a vita alta. Ha simmetria, i milanesi sono simmetrici, nei tagli, nei colori, nelle cortezze (voluto). Loro suonano nonostante il comprensibile viavai.




Poi finisce, il gruppo esce, poi rientra, dona un altro paio di bellissime canzoni. poi riesce.
mi rimetto le scarpe, grata di non essere sola nella metropoli.

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