Lavoro a un libro di Herta Mueller,
ogni suo libro è un viaggio nella sua testa, difficile, duro,
geniale.
Lavoro a questo testo, che è una serie
di riflessioni sulla scrittura, sulla lingua, sulla libertà, e ne
rimango drammaticamente ingarbugliata. E così guido la macchina
distratta. La testa si è perduta nei concetti.
Oggi ho letto qualche riga che mi ha
subito riportata al Kurdistan.
“A me capita che siano gli oggetti a
stabilire quando, come e dove possono riaffiorare nella mente
situazioni e persone del passato. Loro, che rispetto a noi sono di
tutt'altra materia, invulnerabile, e durevole nel suo essere
inanimata, determinano il proprio ritorno nei nostri pensieri. Gli
oggetti alzano il braccio per colpire a destra e a manca, ammiccano a
ciò che è stato riemergendo casualmente.”
Era sera, forse la penultima sera, o
forse addirittura l'ultima. Il giorno dopo saremo partite, io per
certo sarei partita, di C. non ero così sicura. Si andava da una
casa all'altra a salutare, io ero stanca, e pensierosa, forse anche
un po' annoiata dal non capire, dal dover farmi tradurre di cose che
non sempre mi interessavano totalmente. Passiamo all'ultima casa,
prima non vi eravamo mai state, e proprio per questo dovevamo
passare, per non fare uno sgarbo all'ospitalità.
Entriamo, tappeti, divano, cai,
cuscini. Obbligata a sedere sul divano siedo composta e statuina, non
posso parlare. C. ascolta, interagisce, ogni tanto le tocco la
spalla, dài dimmi che si dice, a volte traduce, altre si rende conto
che sarebbe lungo e complesso e non determinante. Alzo lo sguardo, un
po' scazzata perché comunque è l'ultima sera e proprio trascorrerla
non capendo... dopo tutto un mondo a cui devo dire ciao... alzo lo
sguardo, dicevo, e vedo appeso l'orologio blu, a forma di palla, che
Paka aveva comprato un giorno d'estate davanti a un supermercato. Un
orologio brutto, bruttissimo, color blu e argento, una pacchianata
pazzesca, con uno schermetto digitale che riporta l'ora, un orologio
che mai mi è piaciuto, ma che senza sofferenza ho tenuto appeso a
casa per almeno quattro anni, un orologio tolto dalla parete quando
ho voluto imbiancare per togliere dalla casa l'odore di fumo, il
giallo del tempo, i segni dei poster, la presenza del passato. Ecco,
l'orologio che non ho più rimesso è capitato qui, come se dallo
scatolone delle cose mai riappese sotto la libreria nella stanza di
mezzo fosse finito su questo muro giallo, nella stanza coi tappeti e
i bicchierini da tè, di nuovo una stanza con l'odore di fumo e
questa volta anche di tonico al tabacco.
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