giovedì 11 luglio 2013

Le poesie dette in piedi sulla sedia ai matrimoni

Quando ero piccola e qualcuno si sposava io dovevo dire le poesie in piedi sulla sedia. Ero sempre in difficoltà, mi facevano salire in piedi quando ancora la gente parlava e il chiacchiericcio degli invitati gioiosi, dall'alto della sedia, mi sembrava una città brulicante, qualcosa che stava al di sotto, come fosse un po' ottuso. Poi, col coltello, la nonna (l'artefice vera delle poesie al matrimonio) batteva sul bicchiere, e richiamava al silenzio la sala intera. Tutti si voltavano verso di me, io di sicuro arrossivo e diventavo tutta una fossetta tra la tensione la vergogna la paura di non ricordare. La nonna mi diceva Dài, e io partivo, qualcuno in fondo alla sala diceva: Voce, e io peperone ripartivo, recitavo la poesiola il più in fretta possibile, mi beccavo l'applauso senza tanti inchini e già scendendo dalla sedia. Fatto anche stavolta, pensavo cercando di sparire, di mimetizzarmi, di evaporare, di diventare trasparente. Di sicuro qualcuno mi passava una mano sulle trecce strette alla testa, qualche zia mi faceva l'occhiolino e mi diceva Brava. Ho sempre invidiato i bambini che non dovevano dire le poesie ai matrimoni. Mi allenavano per farlo, la nonna era la mia personal trainer, tante volte la ripetevamo insieme, e quando non la ripetevo io la diceva lei ad alta voce, impastando una crostata, o un verso ogni mano di carte. Non era sempre la stessa poesia, c'era un volumetto in casa, di sicuro si intitolava Le poesie del matrimonio o Poesie per matrimonio, a seconda degli sposi ne sceglievamo un paio, non troppo lunghe, non troppo corte, per lo più con cenni religiosi, e il primo passo era copiarla su un bel foglio. E poi via, ripeterla ripeterla ripeterla, io e la nonna in campagna, io e la nonna in cucina, davanti al nonno, sul terrazzo a fare il bagno nella vaschetta. Anche quando la nonna poi al matrimonio non c'era mi faceva impararle, e poi provavo a convincer la mamma a lasciarmi non dirla, perché nessuno la diceva, ma la mamma non cedeva, Ormai l'hai imparata, Cosa ti costa, Agli sposi fa piacere; Pensa che regalo... e così via, finché mi rassegnavo e facevo il mio dovere, è andata a avanti tanto la storia delle poesie, finché non ero grandicella o non so, forse poi nessuno s'è più sposato.
La poesia ai matrimoni, in piedi su una sedia, era paurosa, era qualcosa che mi buttava nel pubblico, che mi puntava un riflettore addosso. Io, che giocavo sempre da sola o a carte con gli adulti, che non osavo mostrare i piedi a nessuno, che piuttosto che mettere un vestito barattavo ogni gioco e ogni libertà, che fin da piccola ho imparato a non esserci, a non disturbare. Però quando le imparavamo era bello, l'aria sapeva di sapone e di sole, e tendevamo le lenzuola prima di piegarle, un verso ogni piega, Tira!, e io tiravo più forte che potevo e speravo cedesse, speravo che una piccola crepetta si facesse buco, e un altro verso e un'altra piega, Tira!, e le mollette del colore dei capi stesi, e la nonna che aveva una memoria pazzesca, che sapeva tutte le filastrocche del mondo e nomi dei fiori, e cento giochi alle carte, e che le tabelline erano il suo pane, e i calcoli li prendeva e se li girava e rigirava nella testa, e veloce rispondeva e cambiava e giocava coi suoni, ma questa è un'altra storia.

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