Quando ero piccola e qualcuno si
sposava io dovevo dire le poesie in piedi sulla sedia. Ero sempre in
difficoltà, mi facevano salire in piedi quando ancora la gente
parlava e il chiacchiericcio degli invitati gioiosi, dall'alto della
sedia, mi sembrava una città brulicante, qualcosa che stava al di
sotto, come fosse un po' ottuso. Poi, col coltello, la nonna
(l'artefice vera delle poesie al matrimonio) batteva sul bicchiere, e
richiamava al silenzio la sala intera. Tutti si voltavano verso di
me, io di sicuro arrossivo e diventavo tutta una fossetta tra la
tensione la vergogna la paura di non ricordare. La nonna mi diceva
Dài, e io partivo, qualcuno in fondo alla sala diceva: Voce, e io
peperone ripartivo, recitavo la poesiola il più in fretta possibile,
mi beccavo l'applauso senza tanti inchini e già scendendo dalla
sedia. Fatto anche stavolta, pensavo cercando di sparire, di
mimetizzarmi, di evaporare, di diventare trasparente. Di sicuro
qualcuno mi passava una mano sulle trecce strette alla testa, qualche
zia mi faceva l'occhiolino e mi diceva Brava. Ho sempre invidiato i
bambini che non dovevano dire le poesie ai matrimoni. Mi allenavano
per farlo, la nonna era la mia personal trainer, tante volte la
ripetevamo insieme, e quando non la ripetevo io la diceva lei ad alta
voce, impastando una crostata, o un verso ogni mano di carte. Non era
sempre la stessa poesia, c'era un volumetto in casa, di sicuro si
intitolava Le poesie del matrimonio o Poesie per matrimonio, a
seconda degli sposi ne sceglievamo un paio, non troppo lunghe, non
troppo corte, per lo più con cenni religiosi, e il primo passo era
copiarla su un bel foglio. E poi via, ripeterla ripeterla ripeterla,
io e la nonna in campagna, io e la nonna in cucina, davanti al nonno,
sul terrazzo a fare il bagno nella vaschetta. Anche quando la nonna
poi al matrimonio non c'era mi faceva impararle, e poi provavo a
convincer la mamma a lasciarmi non dirla, perché nessuno la diceva,
ma la mamma non cedeva, Ormai l'hai imparata, Cosa ti costa, Agli
sposi fa piacere; Pensa che regalo... e così via, finché mi
rassegnavo e facevo il mio dovere, è andata a avanti tanto la storia
delle poesie, finché non ero grandicella o non so, forse poi nessuno
s'è più sposato.
La poesia ai matrimoni, in piedi su una
sedia, era paurosa, era qualcosa che mi buttava nel pubblico, che mi
puntava un riflettore addosso. Io, che giocavo sempre da sola o a
carte con gli adulti, che non osavo mostrare i piedi a nessuno, che
piuttosto che mettere un vestito barattavo ogni gioco e ogni libertà,
che fin da piccola ho imparato a non esserci, a non disturbare. Però
quando le imparavamo era bello, l'aria sapeva di sapone e di sole, e
tendevamo le lenzuola prima di piegarle, un verso ogni piega, Tira!,
e io tiravo più forte che potevo e speravo cedesse, speravo che una
piccola crepetta si facesse buco, e un altro verso e un'altra piega,
Tira!, e le mollette del colore dei capi stesi, e la nonna che aveva
una memoria pazzesca, che sapeva tutte le filastrocche del mondo e
nomi dei fiori, e cento giochi alle carte, e che le tabelline erano
il suo pane, e i calcoli li prendeva e se li girava e rigirava nella
testa, e veloce rispondeva e cambiava e giocava coi suoni, ma questa
è un'altra storia.
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