mercoledì 9 giugno 2010

Claudia Rusch, La stasi dietro il lavello

Asti, 8 giugno 2010, incontro con Cludia Rusch all’interno del Festival Passepartout, quest’anno incentrato sul Muro, anzi sull’oltre il Muro.

Siede sul muretto davanti all’ingresso della sala, fuma veloce una sigaretta, forse l’accende solamente perché a un istante dalla fiammella spenta la signora col vestito a pois c’invita ad entrare. Claudia è di ottimo umore, gentile, tonda. Ha labbra sottili, rossetto scuro, abito nero, seno generoso evidenziato da un fiore rosso proprio al centro, unghie verdi come i fermagli a farfalla seminascosti nei capelli raccolti a chignon. È divertente, aperta, ironica e riesce ad esserlo persino in italiano. Sembra avere una conoscenza intima della lingua, allo stesso tempo lontana nel tempo, la padroneggia con errori, sorrisi, scuse, talvolta piccole rinunce sulle cose importanti, innumerevoli e plateali gesti e movimenti di gote-occhi-mani-avambracci-…
Risponde alle domande con grande umanità e senso pratico, con un’energia invidiabile e una carica coinvolgente. È a suo agio, sa di essere al centro ma non ne approfitta con tediosi approfondimenti, piuttosto prova a far capire e quando non le viene una parola piega le labbra verso il basso e prova ad inventarla. La carica comunicativa è la sua cifra secondo me, si è consci della fatica che fa per rigirare ogni frase in modo da poterla dire in una lingua non pienamente sua e quindi l’ascoltatore è portato a fare lo stesso sforzo per capire cosa sta dietro alla frase pronunciata, per non intenderla solo nel suo valore più superficiale ma per andare a fondo, dietro, oltre. Peter Brook chiamerebbe “presenza” il dono di Claudia Rusch, la capacità cioè di rendere lo spettatore “attore”, usando una sua parola significante Assistere*. Racconta del suo libro, racconta i suoi ricordi, e le due cose si confondono, diventano un tuttuno, cerca sguardi di supporto, cerca volti intenti ad ascoltare, cerca conferme sulle parole. È severa con la DDR, non perdona, nessuna ostalgia, scinde con maestria (e qui si vede che forse lo scrivere un libro l’ha aiutata) la storia dalla sua storia, i ricordi personali da quelli sociali; “non bisogna”, sottolinea più volte, “confondere e mischiare il proprio vissuto, un proprio momento, l’infanzia bella, l’adolescenza innamorata… con la politica, con uno stato, con un governo”. Le domande continuano così come le risposte, ma i tempi tecnici premono e viene brutalmente interrotta (forse esagero, ma l’impressione avuta è quella di una bolla di sapone che viene scoppiata da un dito irriverente quando era ancora sospesa in aria), ringrazia, si scusa ancora e saluta. La rivedo fuori, chiacchiera tra una boccata e l’altra, di nuovo la bolla s’innalza, nessuno l’aveva scoppiata solo soffiata fuori. Saluti abbracci e promesse sul Festival della letteratura di Mantova. Mentre andiamo alla macchina però sorrido, se nel libro gli scarafaggi dietro al lavello erano la stasi, stasera le spie erano spioni :)

* Peter Brook, Lo spazio vuoto, Roma, Bulzoni, 1998

2 commenti:

marco ha detto...

non bisogna”, sottolinea più volte, “confondere e mischiare il proprio vissuto, un proprio momento, l’infanzia bella, l’adolescenza innamorata… con la politica, con uno stato, con un governo”.

Sembra una risposta a Kundera, quando scrive della perversione morale della memoria, della commozione che si può provare persino nel guardare delle immagini sull'epoca del nazismo pur avendo avuto dei familiari morti nei lager. La nostalgia generata dai ricordi dell'infanzia, da un certo tipo di acconciature, abiti e architetture oggi irrimediabilmente fuori moda, la nostalgia di stagioni della vita che non torneranno...
Grazie per questo ritratto.

Sara Passeggini ha detto...

è molto bello vedere come toccando determinati temi la nostra sensibilità si avvicini, appena ho inteso ciò che Claudia voleva dire ho fatto la stessa riflessione, meglio, lo stesso collegamento :)

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