Con le metafore è meglio non scherzare.
Da una sola metafora può nascere l’amore.
Milan Kundera
Ho capito di amarlo almeno mille volte negli anni in cui siamo stati insieme, ma ce n’è una che più di tutte ricordo come simbolica e densa di significato. Stavamo insieme già da due anni, quell’inverno abitavamo in una soffitta, eravamo ospiti di un amico. Nevicava tanto, era freddo, dormivamo su un materasso nel soggiorno, il pavimento era in legno e sdraiati potevamo vedere sopra di noi una finestra incastonata al tetto, la neve sembrava una pesante tenda bianca e se si cercava di pulirla aprendola nevicava anche sul letto. La sera quella finestra era così bianca da sembrare che la luna ci spiasse. Con questa piccola premessa contestualizzatrice sembra che tutto profumasse di rose e avesse i colori dei fiori, in verità era già un rapporto in crisi: continue liti per nulla di grave, nessuna intimità forse per pigrizia, mancanza di desiderio o privacy; pochissime dolcezze a rinforzare sciupati sentimenti. Gli unici momenti in cui ci divertivamo e ci sentivamo in contatto erano le lunghe ore di gioco al computer, uno contro l’altro, nella stessa stanza, bevendo gin tonic e amministrando legioni di guerriglieri pronti a sfidarsi. Essere consapevole di come il nostro grande amore si fosse trasformato in una pochezza abituale e mediocre mi uccideva. Quando ogni sera si addormentava lo guardavo, era tiepido. Sentivo le lacrime salire veloci agli occhi quando pensavo che il nostro era un rapporto in crisi e lui nemmeno riusciva a comprenderlo, sentivo un grande vuoto all’idea di abbandonarlo, allo stesso tempo mi sembrava inevitabile. Un mattino andò a comprare il pane; in fondo alla via, all’incrocio, c’era un piccolo chiosco con panini perfetti, morbidi e croccanti, stellati di sesamo o semi di papavero, sempre tiepidi. Io lo aspettavo seduta sul letto, in quel momento suonò una canzone, era di Kate Bush, il titolo non lo ricordo, ma era il nome di un uomo, forse Mr Bartolacci o Mr Bertoluzzi; era una canzone con una melodia tristissima, non capivo del tutto le parole, ma parlava di vestiti e lavatrici. Di colpo, ascoltandola, nella mia mente si creò un’immagine, lui non sarebbe tornato dal piccolo chiosco di panettieri ed io sarei rimasta sola, nel soggiorno, circondata dalle sue maglie vuote di sostanza, ma ancora feconde del suo odore, le avrei raccolte una ad una piangendo, le avrei odorate, le avrei messe in lavatrice e poi non avrei avuto il coraggio di lavarle, per non togliere il suo ricordo dai tessuti. Questa immagine mi era così straziante che iniziai a piangere, non riuscivo più a smettere, la vita senza di lui mi era negata, il suo odore mi avrebbe ricordato per sempre infiniti momenti, e ogni maglietta avrebbe tenuto vivi nella mia testa i suoi colori. Aprii la finestra e una brezza freddissima mi rinsavì per un istante, la neve si sciolse veloce sui miei capelli e si mischiò al calore delle lacrime. Mi rendevo conto che era un pensiero insensato, un’immagine forse creata dal subconscio per desistere dal proposito di chiudere quella storia purtroppo troppo insoddisfacente, eppure, l’idea di me china e in lacrime a spiare un oblò immobile di odori mi rendeva impossibile la razionalità. Il tempo passava e lui non tornava dal chiosco del pane, un misto di presentimento e follia, di preoccupazione e rabbia, impostai il repeat e continuai a piangere e ascoltare, a percepire la sua mancanza come inaccettabile, il suo odore come presenza insufficiente e necessaria. Mi tramortivo emotivamente ogni volta che il ritornello cantava: “washing machine, washing machine, washing machine”. La porta si aprì e lui mi sorprese nel mezzo di una tristezza davvero complessa da descrivere, forse impossibile perché dettata da un’immagine, da una metafora, da un’idea stramba e insopportabile. Si avvicinò veloce, mi abbracciò fortissimo, come se fossi una bambina che si è persa in un grande centro commerciale e non sa più che fare perché ogni persona sembra un gigante mostruoso, perché le gambe dei passanti sono ormai alberi che con i loro rami graffiano il viso, perché le scale mobili trascinano nelle segrete di un castello stregato e buio, e freddo. Mi abbracciò come intuendo che ero vittima della mia debolezza emotiva, come sapendo che la solitudine può uccidermi. Sentii la sua neve sciogliersi e mischiarsi alla mia, le sue scarpe avevano fatto una piccola pozzanghera sul pavimento in legno, mi ripresi, lo guardai e gli dissi solo: “non lasciarmi più da sola”, mi baciò la fronte e cambiò canzone, mi distese e si adagiò sul mio corpo. Il suo peso mi protesse, la sua carne era appoggiata alla mia e la sentivo premere le viscere, schiacciare i polmoni, ora ero al sicuro. Da una sola metafora può nascere l’amore sostiene Milan Kundera, grazie a una metafora il mio amore è sopravvissuto fino ad oggi.
1 commento:
Bello, da parte maschile, sapere che le metafore ci vengono in aiuto talvolta :-)
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