lunedì 12 settembre 2016

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A cosa pensi?
E di colpo le scendono lacrime. Fuori è notte e lui guida la sua macchina su per le montagne. La luna è a metà e la luce attorno è gialla nel nero, bella.
E risponde: penso che sono fragile, che sono stanca. E nel dirlo le vien ancora più da piangere, l'argine aperto, la voragine.
Allora al primo spazio accosta, ferma la macchina: che succede?
Succede che usare è la parola sbagliata, che tutto può essere letto come usarsi, nei rapporti tra le persone, ma proprio perché sono rapporti non ci si usa.
Ho usato la parola sbagliata, scusami, devo pensarci.
Sì, dobbiamo pensarci, perché se hai questa percezione c'è qualcosa che non va. Potrei accusarti di usarmi per fare sesso. Ma lo sai che è un'idiozia. Mi dici che ti uso come base per costruirmi.
E io dico è vero, è persino bello. Fallo anche tu! Cosa c'è di più importante che essere la base di chi si ama? Di avere base nell'amato. Di prenderlo come punto di partenza e da lì spiccare il volo per se stessi?
E poi lui risponde, ma lei ascolta a metà. Si chiede quando sia stata l'ultima volta che ha pianto, se lo chiede perché le sembra strana quella sensazione agli occhi, allora dev'essere molto, si dice; ma non ricorda. Certo il giorno prima qualche lacrima alla fine del film di Segre, ma era fatto apposta, quelle non valgono, e comunque mica era a dirotto. E allora quando è stato?
Gli occhi sono rossi ma ormai asciutti, loro sono in ritardo ma più calmi. La luna resta lì in mezzo finché la macchina non riparte, poi fa per nascondersi dietro una montagna, o forse due.

note a margine:
1. Pensare alla parola usare, che è vera ma non per forza negativa nelle relazioni, perché c'è uno scambio, anche tra amici:
Ci si usa per non star soli -ovvero ci piace passare tempo insieme. 
Ci si usa per avere un confronto -ovvero mi interessa la tua opinione perché è diversa dalla mia, apre porte, ci fa conoscere e capire meglio nel mondo. Punti di vista.
2. Pensare al giusto equilibrio tra ostinarsi in essere se stessi e essere con/per qualcuno.
3. Giorni dopo, mentre beve vino e legge di Bella Lynn le viene in mente, è stato a fine luglio, in una soffitta, dopo che parole parole sono cadute nel vuoto e un percorso comune è fallito, dopo che una nemica è diventata se non amica compagna di difficoltà.

giovedì 1 settembre 2016

Appunti sparsi di una mattinata al campo profughi.

Aisha è caduta dalla sedia, prima si dondolava, le ho chiesto di smettere ma continuava cercando la mia attenzione, allora mi sono avvicinata, le ho raddrizzato la sedia, lei spingeva indietro, allora l'ho inclinata un po' e poi l'ho riportata a posto. Poi l'ho fatta scendere fino a terra, poi l'ho ritirata su.
Il gioco doveva finire. Le ho detto, adesso non guardo più, mi giro ma non ti tengo su, basta così. Lei s'è dondolata un po' cercando la mia attenzione, le ho fatto segno di no, mi sono voltata verso altri bambini, ho sentito il tonfo.
Sono corsa lì, ho guardato se s'era fatta male, ha fatto la faccia da moribonda, ma scherzava, stava bene, di sicuro una botta. S'è rialzata, ha fatto altro, ho ancora il tonfo nelle orecchie.

È a forma di scatola la stanza, ha una tv sul fondo, due tavoloni in mezzo con due panche, qualche scatola di giochi negli angoli, una vecchia pianola elettrica, pezzi di rotaia di plastica gialli e verdi, puzzle e carte da gioco. Sono per lo più giochi vecchi e consunti, mezzi rotti e comunque lì come se fossero buttati via. Ci sono sei seggioline davanti alla tv. Il pupazzetto più conteso della mattinata un teletabbis giallo, piuttosto pesante.

Si è rovesciata la panca a un certo punto e c'è rimasto sotto un piede, non so di chi, il nome intendo. Un piedino nero dalle dita larghe e dalle unghie larghe. Un piedino nero con attaccata una bambina nera di quattro cinque anni. Le scendevano le lacrime da quegli occhioni, e le lacrime rigavano il viso, letteralmente, come le colasse il trucco. Immagino che la lacrima togliesse della polvere rimasta sulle guance, volevo lavarle il viso, ma non sapevo, non so, dove sono i bagni.

Alex è il mio preferito, di già. È l'unico bambino (ma aisha gli fa concorrenza quanto a mascolinità – ricorda un po' la lesbicona con lo sguardo matto di orange is the new black), ha i capelli stopposi, il viso largo e solare, un bel sorriso. È paziente e gli piacciono le bici, ne abbiamo disegnate un paio. Dice se moi se toi, ripete ogni parola, pare capire.

A un certo punto tutti quanti, quasi in coro ma con le voci sottovoce, dicevo gateau, gateau, gateau. Sussurrato, lamentoso. Piuttosto divertente, mi sono unita al gruppo.

Tanto corpo, nell'affetto, nella lite, tutto col corpo, persino il parlare sembra un verso del corpo e non un articolare il discorso. Tanti abbracci, solletico, carezze, stoppate, calci. Tante polemiche, tra i bambini malesi, contro i bambini nigeriani che si portano i giochi comuni a casa.

Uno della sicurezza ha un rapporto strampalato e privilegiato con Aisha, si vede che a lei lui piace, lo cerca, lo provoca (non maliziosamente, lo provoca facendo davanti a lui quello che non deve fare: superare staccionate, dare pizzichi, sdraiarsi per terra in attesa del niente...), lui reagisce con un tira e molla emotivo in cui ricambia affetto e attenzione con il fatto che lei la smetta di fare quello che sta facendo e non dovrebbe fare. I teatrini tra loro sono piuttosto noiosi ed evidentemente diseducativi, ma c'è qualcosa di molto umano in questo affezionarsi reciproco. La guardia sa i nomi dei bambini, s'accolla di aiutarci a riaccompagnarli alle baracche, ha una carezza per la testa di ognuno. È un ragazzo del sud, forse ha la mia età forse è più giovane, non ricordo il nome, polemizza anche lui sul fatto che la protezione civile tolga le casette e metta i profughi nelle baracche.

Le baracche sono parallelepipedi con dentro una decina di letti a castello. Il bagno è un altro parallelepipedo in comune, la cucina non c'è, i pasti vengono portati.

A un certo punto una bambina, anche grandicella, alta magra, con gli zigomi alti e regali e una pelle bellissima, si accascia sul parapetto della strada, come fosse stremata, un po' provo a convincerla ad andare verso casa che è ora di mangiare, un po' mi pare mi stia prendendo in giro, non capisco perché dovrebbe essere stremata o rendere più difficile tutto; quindi la lascio appoggiata a sonnecchiare e proseguo, dico alla guardia che non capisco cos'abbia Benedict, ma probabilmente ci raggiungerà. Lui la guarda e dice, quando fa così mi pare uguale a suo papà.

Per un attimo riportando il gruppo pigro di bambini alle baracche ho avuto l'impressione che facessero apposta a fare gli scalmanati gli stanchi i perditempo, avevano un po' d'attenzione, e la volevano usare tutta.

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